Ci vuole tanto, troppo coraggio

Sul sagrato della chiesa di Sant’Anna oggi splende un sole accecante.

Sono le tre del pomeriggio e, nonostante il tepore di metà maggio, sento salire qualche brivido dietro la nuca.

Mi trovo qui perché quattro giorni fa è morto Giuliano Bianchi, compagno di IV A di Michele. Giuliano aveva otto anni e mezzo, ne avrebbe compiuti nove alla fine dell’estate, lo so perché ho letto la sua data di nascita sull’invito al funerale. A fine giugno invece avrebbe fatto la comunione, per la prima volta, seduto come era solito fare sempre, accanto al mio Michele.

Il giorno in cui Giuliano è caduto dalle Mura di Lucca era un banale giovedì lavorativo, alleviato soltanto da un tramonto irresistibile, sanguigno. Ho ben impresso nella mente quel pomeriggio perché avevo appena lasciato l’ufficio e, costeggiando le Mura, avevo notato un sole diverso dal solito; come il tuorlo crudo di un uovo colava al di là delle montagne. Mi venne da chiedermi improvvisamente che cosa avrei fatto della mia vita senza Michele. Non era la prima volta che mi ponevo certe domande, fuori dal controllo della ragione. Erano pensieri sempre più ricorrenti in questi ultimi anni, pillole di autolesionismo psicologico di cui io stessa ero sia carnefice che vittima. L’inizio di questa tortura interna corrispondeva più o meno con la nascita di Michele. Feci una smorfia dichiarando alla me stessa vittima che senza di lui mi sarei buttata giù dalle Mura.

Giuliano ha fatto un volo di circa sei metri; poi più niente. La Mura di Lucca con i baluardi, le casermette, il Villaggio del Fanciullo, la Casa del Boia: tutto sparito, in un attimo sostituito dal buio.

Da lassù la città è un dipinto inestimabile. Le famiglie percorrono le Mura in bicicletta e si fermano a far giocare i bambini nei parchi giochi dei baluardi mentre gli anziani passeggiano e si salutano tra loro con un’alzata di cappello per poi assopirsi su una panchina all’ombra di un pioppo.

Fino a ora solo i bambini dei turisti stranieri erano caduti da lì. Ieri invece è toccato a Giuliano della IV A.

Era sul baluardo di San Regolo con sua madre che ha altri tre figli. Lei badava ai più piccoli, gli dava le spalle e non si è accorta che Giuliano era salito sugli spalti, sotto di lui il vuoto. È stato un attimo, la leggerezza della madre, l’incoscienza del figlio, le disgrazie accadono proprio così, quando ci sembra impossibile che accadano. Ha messo male la ruota della bici rossa nuova, la bici che Michele tanto gli invidiava, e in un secondo è stato inghiottito dalla forza di gravità.

Sul grande piazzale della chiesa si è assembrata una folla disomogenea: gli adulti, una schiera di corvi con gli abiti scuri e gli occhiali a specchio; intorno a loro una girandola colorata di bambini che corre e schiamazza senza darsi pace.

Riposa in pace Giuliano.

I genitori, stanchi, provano a calmare i loro figli, sfacciati anche di fronte alla morte che oggi, però, è venuta a fare una carezza gelida a ognuno di loro.

Arriva mio marito e con un gesto delicato mi invita a entrare in chiesa per seguire la cerimonia. Non ne ho la forza e resto in piedi lì, nel punto in cui mi trovo, abbracciando la giacca nera da mezza stagione che indosso e fissando il grande carro funebre con il bagagliaio aperto – invito perverso – che tra poco risucchierà Giuliano e se lo mangerà, come una grossa balena con un pesciolino. Chissà se i pesci hanno un’anima, mi ha detto un giorno Michele.

Tutti gli altri si mettono in fila con ordine per entrare a dare l’ultimo saluto. Io indugio sul sagrato a occhi chiusi e cerco di assorbire quanta più energia dal sole caldo che c’è oggi. Una giornata come questa è uno schiaffo al dolore. Mi viene in mente De André e la leggerezza con cui da adolescente canticchiavo un suo motivo senza riflettere:

Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno

Non so per quanto tempo resto così, immobile, con gli occhi doloranti, trafitti dai raggi di questo sole che mi fa lacrimare, ma allo stesso tempo mi scalda la pelle, o almeno il primo strato.

A un tratto mio marito mi poggia con dolcezza una mano sulla schiena e il mondo torna a far rumore. Michele spunta all’improvviso correndo da dietro la piccola bara bianca, luminosa come il sole di oggi, che adesso stanno caricando sull’auto funebre.

Guarda in su con i suoi piccoli occhietti azzurri delicati e la prima cosa che penso è che il sole lo stia infastidendo, che ci sia troppa luce per lui. Mi osserva interrogativo e, mentre in sottofondo sento sbattere il portellone del carro dove ora Giuliano riposa, Michele mi chiede piano, in un sussurro, quasi a non volerlo svegliare, se può andare a giocare alla Play a casa di Nico.

Realizzo in un attimo che Giuliano oggi non c’è più ma Michele sì, e questo cielo, questa giornata di maggio non sono ancora finiti.

Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno.


Veronica Nucci è nata in provincia di Lucca nel 1988. Laureata in Traduzione Letteraria e Saggistica, dopo l’Erasmus a Cardiff, si è convinta a lasciare l’Italia per vivere all’estero. Ha trascorso tre anni a Bruxelles ed è infine approdata a Parigi. Lavora nel digital marketing per sbarcare il lunario, principalmente però scrive, legge (le sue più grandi passioni da sempre) e collabora come copywriter. I suoi racconti sono stati pubblicati su Rivista Blam, Il Timoniere, Eisordi Rivista e The Bookish Explorer. È un’editor della rivista culturale Light Magazine.

Redazione

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