Il fragoroso schianto della vecchia Università ha travolto per sempre anche il nostro lavoro di isolani, ha vanificato le nostre sollecitudini per la poesia, la nostra stessa concezione dell’arte e del mondo. I giuochi di rimandi, di analogie, di richiami alla pittura, alla musica, al folclore, al teatro […], le premurose analisi, le tele di malinconica “rêverie”, il febbrile scavo nelle immagini: tutto è diventato inutile, e del resto era troppo fragile, troppo privo di sostrati ideologici, troppo onirico, per poter durare. E ora? Ora torneranno gli schemi, le secchezze dei dati, la Vecchia Scuola, il Manuale dalle gambe corte, il liceo, Bicchieri di piombo invece di vetri di Tiffany, lezioni protocollari, e non più iridescenze […] e niente shock, niente salti, niente deliri. Alla nostra musica, alla nostra intesa d’anime, al nostro piacere della scoperta seguiranno stagioni di aridezze, di tabelle sinottiche, di becchi d’anatra strepitanti.
Così, in una lettera ai suoi studenti “anziani”, si esprimeva il docente universitario di chiara fama in risposta al dettato cartesiano preteso dalla nuova generazione della contestazione sessantottesca: era Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978), Slavista! Come lui stesso accettava scherzosamente di definirsi, nella raccolta poetica Notizie dal diluvio (n. 2), di rimando all’immagine che il mondo gli restituiva di sé: «Chiedo perdono. È deciso. La prossima volta / farò un altro mestiere». Novello Deucalione (suo malgrado), Ripellino è in effetti un testimone superstite di esondazioni epocali, tra le quali primeggiano i grandi cataclismi della Storia che schiaccia i fratelli sotto i rastrelli dei cingoli (Nnd, n. 33), come nell’invasione sovietica di Praga, sua città d’elezione (Praga magica!) e – nella dimensione intima – il precario stato di una salute aggravata dal “mal sottile” della tubercolosi e dal diabete. Tutte le liriche del poeta confluiscono insieme a costituire, di libro in libro, «un diario, nel quale la storia privata si intreccia coi fatti del mondo»[1]. È una dimensione apocalittica e inquietante che si fa strada nell’autore, dove alle fragili iridescenze Tiffany, al giallo farfalla, sottentra il fosco grigiore di sagome bieche, di sguardi in tralice contro cui il poeta oppone la propria arte, L’amabile arte di farsi dei nemici (Ndd, n. 63) «schivando i superciliosi che sputano muffa, / che spengono il balenío del sorriso, / gli embrioni calvi in mascherina, gli uffa, / i venditori di baròmetri, i callisti, / i trappisti marciti nella pedanteria / […]»
e in barba ai cèrei cipigli, alle baie dei cerúsici,
ai loro divieti e precetti e al canchero che se li mangi,
svolazzare senza ragione, ubriacarsi di giallo,
ciarlare come le gazze, ridere stupidamente.
A un mondo che gli è sempre più alieno, al mondo a cui egli è sempre più alieno, Ripellino si oppone non semplicemente schierandosi nelle fila delle tante avanguardie (nonostante l’attiva partecipazione al Centro sperimentale Cinematografico e la pubblicazione di sue poesie in Gruppo 63), ma sperimentando autonomamente le infinite risorse offertegli dalla lingua, aggrappandosi con tutte le forze alla zattera della poesia, benché paia si tratti, sovente, di una zattera che vada galleggiando sempre più alla deriva, “di un’arca che va alla banda” (Ndd, n. 66): «Come illudersi nella poesia, se quest’epoca pròspera / barrientos, gomúlkoli, scigaliòv, papadòpuli [?]». L’uso in funzione connotativa degli antroponimi dalle iniziali minuscole – tipico di Ripellino – dequalifica i personaggi a cui ci si riferisce (e di cui il poeta rifiuta così di riconoscere la presunta grandezza) al rango di fenomeni naturali o, meglio, di veri e propri malanni (tumescenze maligne); a propria volta, il vezzo stilistico dell’accento grafico – altra marca ripelliniana – costringe chi legge a seguire l’incedere di un passo dell’oca scimmiottato e derisoriamente messo in scena dal poeta. Ma allora, e per quanto disillusa possa risultare, è la poesia che sempre e comunque recita o declama, sul palco, l’ultima battuta, anzi, più che la poesia, il grande assortimento d’arte varia che lo stesso Ripellino aveva teorizzato in quanto falotica clownerie, eterocliticissimo spettacolo poetico:
Vorrei trovare un punto di incontro tra quello che è la razionalità e l’aridezza dell’avanguardia che esprime questo mondo disumanato e ciò che era prima invece la ricchezza della metafora, il bisogno di dar carne alla poesia, di darle colori, di riempirla di occhi, di acustica, il fare della poesia il centro di arti diverse, dalla pittura al teatro: ecco, questo e quello che io intendo per spettacolo poetico[2].
Benché la versificazione ne rappresenti, certo, il sublimato più denso, la poesia è prima di tutto un fatto esistenziale, che pervade e che permea indifferentemente ogni ambito della vita activa dell’autore, in ottemperanza a un ideale e a uno stile tipici degli intellettuali cechi: «Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti»[3]. E allora ecco che Ripellino distilla e fa riecheggiare, magistralmente orchestrandoli sulla pagina scritta, i suoissimi Čechov, Majakovskij, Chlébnikov, Fucs, Holan, ecc., o ancora le tele di Magritte, di Klee, di Chagall, il jazz di Charlie Parker, le musiche di Gustav Mahler o di Leoš Janáček (dalla cui opera trasse, peraltro, il titolo della raccolta Sinfonietta, 1970-71) e tanto altro ancora: «Il suo scopo del resto è far musica, perché la poesia, anche se mesta, sia festa comunque»[4]. E allora ecco che la performance dei versi si arricchisce ulteriormente degli apporti offerti dalle tante immagini e dalle suggestioni, dai lampi e dalle scoperte del critico e saggista de Il teatro di marionette nel romanticismo ceco, de Il trucco e l’anima, della Letteratura come itinerario nel meraviglioso, e via dicendo. Dallo sconfinato retroterra del coltissimo Ripellino sortisce quindi una ricca (e spesso ardua) intelaiatura poetica disseminata di voci altre, ora alluse, ora nascoste, ora scopertamente dichiarate, le quali tutte contribuiscono comunque ad allestire il doppiofondo della valigetta da incantatore che il nostro Wörterclown[5] in marsina e bombetta si porta dietro con sé, le vetrinette barocche della sua mirabolante Wunderkammer, che è un’invenzione, prima di tutto, linguistica:
Al sottovoce, al sommesso, al da camera di altri poeti contrappongo un ardente ordito fonetico, agganci ed incastri di suoni, l’attività dei bisticci, delle omofonie, l’arroganza della Paronomasia. […]. Amo il giuoco, gli espedienti di musica, la pagliacceria, i capricci verbali, le acutezze, i «concetti», – ma tutto questo non deve girare a vuoto: tutto questo mi serve ad esprimere la mia sofferenza e il malore del mondo[6].
Non c’è quindi nulla di gratuito nello stile estroso e caleidoscopico, negli swing, nel virtuosismo eccentrico di Ripellino, nelle sue analogie stregherelle (Sinfonietta, n. 21), dacché la sua è una perfetta resa formale (e quanto sostanziale…) di una malsania cosmica, la lingua pierrotica di un Weltschmerz che parla per sovracuti, clangori, stridii di un cariglione incrinato (Ndd, n. 36), l’efflorescenza malata dell’albero-mondo che continua impertèrrito a crescere (Ndd, n. 52):
Non lo turba il dio‑mio di un pagliaccio riverso in una tòrrida pista,
né lo schwebend di chi sta sull’orlo chiedendo conforto,
né il cinguettio di fiammelle strozzate dal vento spilorcio,
l’orrenda fonía della fine dei sensi di colpa,
l’immenso miserere delle piccole foglie.
Ma al Ripellino-burattinaio, al guitto scherzoso che nel suo fantastico baraccone deplora ed esorcizza a un tempo le trame, gli spettacoli granguignoleschi del suo mondo, fa da controcanto il Ripellino-sciamano-stregone col suo tamburo, e che pure ha bisogno «[…] di Luoghi Comuni, di ciarla, / di musichette al glucosio, di gàrrule tortore, / di calabroni saccenti, di contrabbassi, / di tutto il bailamme che tiene a bada la morte» (Svv, n. 7). Emblematica è in tal senso la fosca e verissima profezia che rivolge dal buio della sua incubazione a noi posteri, in Ndd, n. 60:
Io resterò da questa parte, in questo buio,
in questo viluppo di meschinità e di bisogno,
senza conoscere il terso luccichío del futuro.
A me sarà bastato visitarlo in sogno,
come uno sciamàno che scenda con piatti e sonagli
nel reame dei morti a conversare coi lèmuri.
Resterò sulla soglia come un rèprobo, come uno spergiuro.
Perché scusatemi, posteri, che freddo,
che vitreo deserto, che uniformità, che sbaragli
soffiano da quel futuro.
Clown, mago, stregone, sciamano, prestidigitatore della parola, funambolo, profeta, il poliedrico e polistrumentista Ripellino ci guarda e ci parla, da dietro le soglie del Novecento, e ci insegna il sacro valore della poesia come tenace e sagace resistenza al perseverante abbruttimento del nostro secolo, al declino inesorabile di cui ora siamo noi le attuali comparse, gli odierni figuranti. E nella forza della poesia il nostro attualissimo poeta-musico, in compagnia dell’inseparabile Sweetheart «[…], violino svilito / dal molto soffrire, fascina di sterpi, / ormai buffo vecchiaccio, eppure sottile, sottile, / come un asfodelo per le dita di Proserpina» (Ndd, n. 1), il nostro poeta-dell’iridescenza ci indica le verticali di un’eterna vitalità, le linee di forza di una possibile salvezza (Sinfonietta, n. 67 B):
Ancora la giovinezza mi chiama, appuntita
come le cicogne dello Zwin.
Di cravatta in cravatta è fuggita la vita,
con strisce storte e gialle farfalline.
L’aldilà soffia i suoi frigidi fiati
sin dentro il tessuto delle camicie,
già si mutano in frange da carro esequiale
i colletti e i polsini sfilacciati.
Ma ancora col gotico incendio delle sue cúspidi
la mia Gelmeroda mi chiama, la mia giovinezza ogivale,
col prisma delle sue luci funàmbole.
Non mi rassegno. Aborrisco i molluschi,
le prugne globose, la cascàggine apàtica,
la gelatina di flàccide bambole,
la morbidità disossata.
Aguzzi violini, coi loro archi rampanti, indemoniano e infiammano ancora il poeta (Sinfonietta, n. 67 C): è la giovinezza, «con la sua fuga di arroganti guglie, / che affondano nella molliccia polpa del cielo, / con le candele incrostate dei suoi pinnàcoli, / coi suoi gomiti aguzzi, con le sue sghembe luci, / che vibrano come angolose làmine» (Sinfonietta, n. 67 A), e il poeta non può che seguirne il richiamo (Svv, n. 86):
Sonare su un violino in fiamme
una mia seguidilla,
prima che cada il sipario come una ghigliottina.
Mi piace il fragore, il bailamme,
ma la mia vita arlecchina,
veliero viluppo di stracci,
con la sua gracile chiglia
si impiglia in un groppo di ghiacci.
Avanzare con grandi falcate di goffa pavana,
gonfiarsi come una rana.
Riempire di propri scartafacci la stiva,
sognare che il nome
fra tanto oblio sopravviva.
Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla.
O vita, o Hanna Schygulla,
sciantosa di varietà, sulla riva
del Nulla.
E a tanti anni di distanza, non c’è bisogno di dire come le pagine di Ripellino mantengano intatta la musica meccanica del loro magico carillon, come la boîte à surprise della sua opera, una volta aperta, ancora riservi nel suo scatto a noi posteri, a noi troppo Aridi (e troppo Sani) stupori e apparizioni imperdibili, per cui che dire? Venghino, Signori!
N. B.: Il titolo dell’articolo è tratto da A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, n. 1.
[1] A. M. Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, in A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela (a cura di), Angelo Maria Ripellino. Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, Torino, Einaudi, 2007, p. 293.
[2] A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, in A. Pane (a cura di), Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con
le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), Messina, Mesogea, 2008, p. 24.
[3] A. M. Ripellino, Di me, cit., p. 294.
[4] A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, Torino, Einaudi, 1976, quarta di copertina (attribuibile all’autore).
[5] A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, n. 81.
[6] A. M. Ripellino, Di me, cit., p. 295.