Forcella è arcaica perché è asse dell’intramoenia; esclusa dalle topografie celesti e divine del monte Echia, degli antichi ecisti che sbarcarono su Megaride – la sua posizione è fuori del mito e della storia, eppure la sua stessa arcaicità discende sia dall’uno sia dall’altra. Corse di fiaccole e scuole di nudi, culti erculei, pitagorìe e cose pitagoriche, sovrani romani di chiese costruttori, monache che chiavano e aborti fatti col prezzemolo, giudei confinati – Forcella la cupezza non la deve alla guerra, come negli altri quartieri (“out of bonds”): la sua è derivata dalle eccessività infere di Conza, Laviano, Sant’Angelo dei Lombardi. La sua onestà è non avere mutato in folklore il dolore, l’onestà che affiora come un residuo lipidico. È il luogo in cui la condizione del puer – quella che resiste al fluire dei secoli – presto termina; quando non termina è per la pervicacia genitoriale che vuole i bambini, bambini e l’uomo, uomo. L’arcaicità è un pensiero che esula dall’etica e scoraggia la coerenza. Perciò Anna diventa Nanninella-dei-neri – l’appartenenza a questi uomini per commercio di mamma e papà, non per simpatie esotiche; bambina puttana che in vecchiaia ha sempre urlato: contro i neri che ritornano ai bassi, per supplicare il favore dell’insulina, vedendo Francesco Narducci guadare il vico con la scorta dell’anti-mafia. Tratto con lo spray sul muro di Sant’Agrippino c’è stato scritto Tutti ci temono nessuno ci affronta. Sant’A. è uno dei molti dimenticati patroni di Napoli e nelle viscere della sua chiesa, a via Forcella, in loculi murati, i frati morti si facevano disseccare. Caduti nella terra santa i fluidi delle orbite, degli intestini, gli acidi degli stomaci, le scorie più profonde attraverso gli ani rilassati, le unghie scollatesi. Il muro è su quella mano di strada esattamente opposta a dove trovarono arrotolata in un tappeto e, così combinata, buttata tra i tubi innocenti quella donna cinese. Nella memoria del quartiere di Forcella c’è un traffico di persone e cose che è sempre scorso: di carri e carrette, di cavalli e di scalzati, di gendarmi e inseguiti, di chi va alla ferrovia e turisti che – al contrario – risalgono verso Castel Sant’Elmo, contenti e sbalorditi, come bambini raffreddati in giardini zoologici di cui non comprendono la lenta esistenza, della cui esperienza conserveranno solo il biglietto di entrata e il ricordo della merenda mangiata.
Mia madre è l’indigena e mio padre è il forestiero, lo straniero. Da quando sono lontano ho il pensiero delle origini sempre più fisso; quel pensiero che, a sentirlo elaborato da altri, non capivo. Ho ragionato sul genus vici, sulla razza del quartiere – nella Bibbia si dice la “nazione di Giuda”. Chi nasce italiano, nasce italiano; lo stesso vale per Napoli, dove la prima voce dei figli di zingari e portoricani è quella del dialetto. Il dialetto è via tortuosa di essere cittadini, ma è via praticabile.
Il quartiere è un reticolo di strade, nei cui palazzi i palazzi di fronte si specchiano; il rione è una cittadella nella città, ha più struttura – ha l’artificio nella sua costituzione, una firma dell’ingegnere e l’assegno del costruttore. Ci vogliono tre generazioni per dirti di un quartiere: a dire che sono di Forcella è il prodotto di una triplice potenza nella mia razza – una prima che inauguri, una seconda che ribadisca, una terza infine che, raffinatasi, confermi. Nelle mappe antiche si disegnava a seconda di una Gerusalemme celeste, io so riprodurre esattamente la nazione forcellese e la sua costellazione ancillare: San Biagio, San Gregorio, i Tribunali, San Domenico e Mezzocannone, via Duomo, il Rettifilo, la Maddalena; calo in precisione per quanto riguarda il Mercato e le sue rue, per mia adolescenziale diffidenza – tribali tra i tribali e se attraverso il Rettifilo, che divide altre due Napoli, e fronteggio Porta Nolana la gola mi si stringe e voglio tornare indietro. Di Forcella io so tutto perché io e questo spazio siamo un solo pensiero – la luce che c’era di ritorno dai Ventaglieri, da casa di Claudio, alle sei di mattina di metà luglio; la gatta arancione che mi attraversò il passo con la coda ritta; una linea lunga che si accorciava man mano che procedevo e nessuno presente, solo io, col fresco sui polpacci e con le panificazioni che profumavano e cuocevano: allungo lo sguardo verso l’oltre lontano, la casa che mi ha fatto, le mura che mi tengono, i basoli su cui – con le chiavi in mano per entrare nel palazzo – sosterò.
In un narrato reale che riguarda le mie ascendenze e le mie discendenze, questo corsivo è la finzione biografica di una gioventù di mio padre. Per motivo archivistico, la titolo L’offesa circostante.
196X. Venerdì 22.
È la sua stessa faccia a dichiararlo: Luciana non crederà mai di essere stata Belfagor. Boris, tu parli, e parli, («Cara, il fatto è che»), ma non ti crede. Belfagor fa cacare sotto dalla paura, nascosto in tutti gli scuri. Gira tra le ombre del corridoio. Di sera, quando Parigi e i suoi segreti stracciano le ore stanche, i rimbombi e le risacche nella colonna fecale fanno opera e maestro nel teatro di morte del corridoio. Quella femmina non può essere lei, il fantasma. Il velo dello schianto e della rapina, le mosse nella notte non sono le sue. Luciana bella franciosa malìa di femina: fosse vero, fosse davvero che la madonna lo voglia vero, questo fatto strano, ci sarebbe troppo grosso scarto.
Il canario bello della Pulciosa, giù nella corte, ad ogni passo del cristiano di passaggio ne scava la famiglia, ne allorda la stirpe defunta: gli insulta i morti, come alla fermata di Bartolo Longo zingari e muccùsi fanno con i mariti delle puerpere in attesa del bus («Ogni lira ca te tieni into ’a sacca, ’o riavelo se chiava a nonneta»). Il bel canario giallo della Pulciosa, giù nella corte, si sbecca la testa piccolina in grandi trilli e bei frulli: l’ansia e la paura lo fanno di sale se qualcuno scende o sale per le scale. È l’inutile della vita, ma il vero canario è vero come è.
Luciana bellezza francese donna di fascino, infatti, si uccide. Non regge alla rivelazione. Alberigo da giugno a luglio ha respirato greve nei fasci della televisione e, all’ultima puntata, madido, ha detto che ha fatto bene.
«Ha fatto bene».
«Ancora qua stai tu? Dimmane: patane».
Nella condivisione del letto con il fratello minore Graziano esercita i diritti dell’anzianità: è ancora leggero del suo peso e delle sue altezze. Senza rumori e pìriti vari, Alberigo può pensare alla puntata, a Luciana, ma non come giù nella corte. «Lui me l’ha imparato, un giorno. Quando è, mi dà qualcosa di soldi. Tengo uno strùmmolo preciso. Mentre lui fa, io penso a una soracucina delle mie». Aperto a stella, pensa a come si sta in un cavallone: a onda che ti punta, a onda ti affidi. Ad annegare in una verità che, a guardare bene, è tal quale ai fatti, come sono andati. E tu non la volevi riconoscere. Il senso di un’intuizione altrui sembra prenda di valore quando è spiazzante.
A impegni conclusi, nessuno aveva diritto a stare in casa. Graziano sbuffa e a ogni sbuffo risponde silente un perdono. Grosse rozzezze che nessuno avrebbe ignorato, tranne quel padre, da quella madre rammemorato appena («Carmine!»). Il poco raccolto, ci si prendeva le sigarette, dagli americani le camicie. Nell’antica società dell’agro sebetiano Alberigo non poteva non contare meno del cazzo; in più, come piccolo: solo due schiaffi, le scelle calano. A palmo aperto e dita tèseche si accidono finanche le zoccole mamme, quelle incarognite dalla vita dei figli, nelle terre scure della Volla. A un eventuale terzo buffettone Alberigo avrebbe seguitato a tacere. Il dovere è cosa dura, che, pretesa, risponde serrando sempre più i ranghi della servitù. Semplice semplice il suo dovere, che era indefessamente obbedire e servire.
Patate, perché i figli suoi non sono femminielli e perché intòstano: tra i facchini, schiuma della gente, fare il ciuccio sotto due jute piene, una spalla e, una, due. Tu come muori di più, più profondamente? Curvo, sporco e sudato di terra, bersaglio di granatieri-facchini e di zoccole morte tra i cassoni dei camion, tra i denti dei mastini, come granate? È un modo, un altro è di settembre, morire nel settembre che di lì a poco sarebbe arrivato, e con lui il ritorno a scuola, e con questo i fianchi grassi sempre scoperti all’umiliazione di cui neanche Carmine capisce la convenienza, ma al cui fondo intuisce la presenza di una verità. Più oltraggio che proiettile, al cadavere insanguinato del sòrice straziato la risposta, ancora a bocca, può essere tanto di pari grado quanto di grado superiore («E mo m’avite scassato ’o cazzo», «uommene ’e sfaccimma, magnateve chesta!»), ma di fronte a dinamiche e oratorie sconosciute è difficile fare resistenza con la forza animale e la furia. Si gusta solo l’aspro di ire mutilate e depresse. Graziano beneficiava già dell’urbanità dei clienti metropolitani, ne accettava la mancia quando consegnava le sporte e levava il petto in alto quando ne spicciava le serve. Non è mai esistita sera in cui, nella lavanda delle mani, abbia fatto lota nel lavandino.
«Monchiallo, chiattone brutto ca sei! I libri… una cosa che non mangi non la consideri?!».
Qualche volta il padre lo aveva istruito sulla buona creanza: giudicare le persone secondo quanto sopportano, quando tutto è insopportabile. Su un’altra cosa ancora: era bella cosa il pensiero di essere quello che aveva sopportato quando non era possibile. Più spesso rispetto a questo ammaestramento aveva sentito dire dei cento bucchini che la maestra avrebbe fatto ai fascisti e dei mille, invece, fatti a nazionale casino già scoppiato. Sul temperamento aveva sentito una frase simile anche nello sceneggiato alla tv, ma di questa conoscenza poco gli importava. In pochi momenti sentiva di essere migliore di quanti frequentava – spiccando per poco, per una spalla, per i centimetri di una fronte – perché sapeva il modo per rammemorarsi dei re di Roma: Santina lo aveva condotto per le strade e, indicando ora a dito ora sollevando gli occhi, suggeriva «là: Scarpe Prisco», «sopra, lì dietro: Banco di Napoli»
La recita dei nomi antichi non gli porta sonno: tiene caldo, scalcia prima con una gamba, poi con l’altra, e non dorme; ha la pancia sudata. Ritto in piedi, a terra, lascia le orme, come capra bagnata. Il cane-pecora è già per casa pronto a riportarlo a letto: gira e rigira, annusa gli odori e fa le piste al timore.
Superman è meglio di Spiderman: o che tu lo veda come causa della sua grandezza, questo fatto, o come suo effetto, fmnon è mai stato sotto schiaffo del sangue («Non tiene più nessuno, gli dici i morti, ma non se ne fotte»). E poi, ha due mondi di vita, e campa bene in entrambi («…è il sole che lo rivivisce, uomo dello spazio. Ha la dimora del ghiaccio… poi fatica sui giornali, si compra le cose»). Spiderman parla assai, si tocca il pi-pi-sello, vatte un mostro, un alieno, poi sopra al letto piange due ore, sane sane. Mezzo culo è corso di fuori e l’elastico della mutanda lo agevola, mantenendolo in posizione, separandolo nettamente dall’altra metà: però, non è decenza così: se l’aggiusta addosso, infila di nuovo la canottiera della cena. A settembre esce il superman nuovo, ’o giurnalista già nce l’â luàto ’a miezzo: è tutto segnato nell’agenda nera, la sua copia. Alberigo ha bene chiaro che lo leggerà solo a sera, il giorno non potrà assolutamente.
Non sa il resto, tranne questo. Papà, papà… pure mammà già lo sa… sta bene? Vengo covvòi?
Si fa mangiare dal corridoio, quindi, e prende la cucina. A Belfagor, che sicuramente si liscia la bocca dietro la porta del bagno, non ci pensa proprio.
«Papà, vi posso addimandare una cosa?»
197X. Sabato 29.
127 Fiat rossa, poche ammaccature: è seconda mano, ma, oh, ohiné!, sempre maschia. Riesce bene, la moquette scura, nel tenere i rumori della strada. Il rosso rinnovato dell’alluminio si fa molleggiare dentro i raggi del sole. Poi, però, li respinge: sembra, in corsa, intermittenza solare, una cometa dei magi.
La nottata quest’anno è scura assai. È anno di Pasqua bassa: tra il Natale e una Pasqua così passa troppo poca primavera. I parolani la chiamano – di freddo e di famme. «E marzo, ’e Munchiallo, pure s’ ‘o ‘rricordarranno assaje». Quindi Carmine non dice né spiega: declama e assegna: tu questo, tu quello. L’orso grosso e baffuto, con la fronte che si arresta dove le placche fanno un cranio: a lui fare mercati la notte, e a Napoli, tutto montato, avviare Enza alla giornata passionale. Nell’ora di controra («lì, nei palazzi») Noce ’e zucchero monda i carciofi per le servine, lui corre a casa a far vollere bene le bottiglie. Nell’apecar le ore di vita meccanica bruciano anzitempo, provando ad anticipare, nel suo corso, la stagione. Quei «nomi antichi», le «cape glu-ri-òse: una e, una, due»: sarebbe stato meglio per loro trovarsi in Ro.ma già da prima dell’ora carnale. Laggiù, nell’abisso speziato della cooperativa Alberigo e Ferdinando, liquido liquido, estraevano il vino dalle botti. Il nolo dello strumento contato a parte. Mentre crescevano, uno ci aveva chiavato, l’altro ci aveva ascoltato Jim Morrison. Poi, più avanti, l’uno avrebbe sperimentato le cose dell’altro, mentre quest’ultimo rinnovava quelle del primo.
Nella bella stagione la gente la frutta non te la compra, il parolano – «per farti il soldo infame per il mare» – diventa lusso. Come tale, si mette a naftalina. La gente: vanno a fare campagna, due uova alla priatoria, e poi? Asciutt’asciutti? E no: Carminiello gli vende il vino, alle genti.
La pupata non può rinunciare alle lezioni di sarta: seguitare seguitare, sempre. Non c’è dote e potrà farsene una. Il tempo dalla signora darà qualcosa da sé, dopo non aver dato niente. Eppoi, il suo lo aveva già dato, scamazzando gli acini dello zio-cugino. Zio-cugino, poveri i morti tuoi andati negli anni, scossi ieri scossi oggi, eppure sono gli stessi. Carminiello, e la smetti di sbagliare? Graziano Esposito (di Monchiallo) fa il milite aeronautico, per rattarsi dove non poteva nella casa del padre. In Sardegna, in un casermone che i genitori vedono due volte l’anno, ogni anno, da due anni, in cartolina, e che gli ricordano ora il trascorso ora il venturo. Tanta acqua in quelle foto, tanti monti. Con Ro.ma i Monchiallo hanno un contratto, tramite certi sindacati. Al lotto B di Sott’ ’a palude (nota come), alla murata col codice M, passa i mesi, fermo, a trasformare le sue sostanze intime qualcosa più del vino. Alcolico, il desiderio di dire finalmente – una condizione di soldi de-cen-te. Nel gusto del decente c’è stanare Alberigo il maggiore e collocarlo al volante: il litorale pontino, tutta la sua lunghezza per quante ore di giorno ci sono. L’orso grosso e baffuto sa guidare, pure Ferdinando, ma alla domenica non c’è mai; il minore: a casa di amici, verso l’orizzonte che sbuccia il cranio verde di Miseno, «che è dove perì il trombettiere di Enea» «Rinto all’ossa fràcete ca ancora tene!». Carmine guida regolarmente, ma la domenica l’impegno di riportare a casa il trio dei suoi figli e la muliebre remissività di Enzina core mio Enzina noce ’e zucchero non vuole assumerlo; la lira in più è stipata a posta per l’Abbuoto. Si sacramenta malamente perché non tiene i soldi pe’ i correttori chimici che nobilitano l’Abbuoto. Nata come roba da tavola, la sua Falanghina ci resterà ancora. Santina è fidanzata ufficialmente, con presentazione in casa di un uomo fresco rasato, e la domenica è impegnata. Sta coi i fratelli in Geova in quella chiesa. Nelle liti tra padre e figli Enza ammansisce uno e ragiona con gli altri; poi, per il tempo perso che le grava sui petti, si ammutolisce. Come il frigo quando lo stacchi dalla presa e ci fai caso, al silenzio che fa ora e che prima no. È ancora davvero quella cosa nata sulle riggiòle della casa paterna? Nei suoi gridi di infante insisteva già una morta vivente?
Anche Graziano sa guidare, ma è oltre il mare a prendere certi ordini al posto di altri. Quando, in quei suoi tempi che erano le settimane di una nuova fanciullezza, anche a Carmine era toccato rifiutare degli ordini ripagò car’e amaro l’oltraggio: la pancia stretta tutta la notte, il culo freddo di ceramica. Ogni movimento di ciglio infiammava un balilla, anche lì dove, come un’era glaciale, duravano ancora parole di vecchie feudalità e mezzadrie. Col Duce da poco staccato dai suoi legni, Carmine aveva braccato il suo fascista e lo aveva castigato davanti alla sede del Comune. Si ritrova di nuovo davanti alla sede del Comune, carico e sorridendo: coi primi baffi della sua maturità, reclama ufficialmente a Monchiallo lui medesimo un bambino, che mo’ proprio mo’, doppiando il padre putativo, ne sta facendo uno suo, e sardo. Graziano per suo figlio è indeciso: Esposito o «chi l’ha pasciuto».
La 127 Fiat schiaccia l’asfalto. Nel cofano di dietro la passione della troppo poca primavera sbatte nei lati, e danno colpi e li ricevono il vapore etilico di mosto, la fumèra che piglia in testa a Enzina, le zoccole rincorse – che a forza vogliono rosicarsi proprio questi uvi qui, la Ro.ma. che capisce e mai compatisce, le domande su «come procede, a Graziano?», i minuti e i quarti d’ora a caricare bottiglie, curarsi della sciagura e insultarla, a fasciarle nelle carte stampate del giornale, nere della cronaca vicina e lontana, a posarle nel cofano di dietro. «Ve lo posso chiedere di festa questo venerdì, qua, entrante, papà?» «Mi servi ’a parte ’e ccà».
E avanza la 127 Fiat, ricordando nella memoria delle sue meccaniche le preferenze del vecchio proprietario. Ricordando, le rinnova, e Alberigo può, mai doppiando la striscia continua, decelerare la propria corsa, arrivando in lenta planata alla barricata dei carabinieri. Estrarre chiave dal quadro, porla sul tettuccio, attendere dimessi – impone la fiamma più grossa. Controllo del bagliaio, p’ ’a sicurezza d’ ’o Paese. «E faciteve ’o segno d’ ’a croce». Un’accortezza particolare per il trasporto: su questo Ferdinando disquisisce, mentre la fiamma più piccola gli poggia facile il mitra sul petto. Al milite la divisa sta larga. È richiesta, nel teatro delle penitenze, la ragione della barba («’né, fussi tu capellone?»). La ristorazione da una malattia è fatto lungo, voi lo sapete, e non sempre una rasatura fresca, poi mi dite voi il vero, per forza dice sanità. Rimestano le bottiglie, segue un rumore di vetro pieno che si scassa e si sparpaglia in pezzi; tutto lo scorrere del vino, liquido liquido, e lento lento, tra le spaccature dell’asfalto è un fatto che Alberigo sente defluire a scariche nei testicoli, quasi una marea, andante e ritornante. Ferdinando forza i nervi per stare aderente alla canna.
«E ve lo siete bevuto alla speranza d’ ’o presidente, che dite? Che chesta fine ccà pure è facile che l’ha fatta, no?». Roba per sempre inutile lì a terra. Una serie di combustioni desta il motore. Ferdinando si torce all’indietro, sicuro di vedere i carabinieri divenire piccoli piccoli. Adocchia in fogli scordati i discorsi eterni sulla vita e sulla morte, e ora sulla loro giustizia; si rinnovano ancora una volta. «Una svarvata faceva troppo schifo, ’ne?». Rimbomba nell’abitacolo, sofisticata dalle moquette, la domanda su chi dei due ora avrebbe dovuto sciropparsi il padre. Ferdinando annuisce, più che al fratello alla ricerca dell’auto di cui si dice nei giornali, tanto intensa quante sono le strade d’Italia. Alberigo guida e pensa, mentre quasi si sloga le nocche sul volante, allo spazio vacante nel cofano di dietro e a come sorridendo e di malanimo reagiva ai carabinieri, anche alla fiamma più minuta. La giornata di sabato si conclude. Papà, e domani è domenica.
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Ho presto cassato l’idea di fare il mercato nero su certe carte civiche del Settecento. Per il troppo impegno, ho valutato il danno e l’uomo che avevo, l’ho bruciato. Sciolsi dai patti l’infermiere ternano a cui avevo indicato il punto di escissione e il sarto che mi smussava i fogli. Fu durante un corso di archivistica che seppi delle filze e dei faldoni. A come smembrarli ci arrivai da solo.
Un giorno ebbi a raccogliere da cassetti e ripiani certe note aggricciate, ed è allora che si è verificato in me un moto di bradisismo, che ha portato in alto cose che erano in basso, nascoste e disprezzate; queste note mi si ripresentarono così: prese al telefono, con mio padre, mia madre. Scrivevo dei risvolti avvenuti a Forcella, che erano le chiavarde alla sincerazione di come stessi io e di come andasse a loro. Dispersa, ho raccolto una collezione di fatti – detti al figlio per il dolce del suo disamore. La valida dei riscontri l’ho avuta da certuni che per l’infanzia che fu valevano come dragoni del mito. Che sapevo della geometria che avrei poi postulato, se non nulla? Nel secondo spaccato in cui è arrivata la valida, ho potuto vedermi tra le mani la condizione forcellese per come era; lo scartafaccio delle note mi sapeva dire il vero sul quartiere, in tempi quasi utili. Il poco da dire riguarderebbe solo i veri momenti della scelta; eppure, potrebbe già essersi fatta l’ora di dare a un po’ di pensieri, a un po’ di atti, la dignità di un memoriale – il tempo sarà anche scorso, ma questo resta il gesto di chi non muta.
Ho scritto dell’adolescente di Napoli, del costume di farlo agire come alternativa a chi gli sembra che lo contrasti, o lo respinga; appuntavo i romanzi di cui è protagonista e mi stressavo per non schifare colleghi e deludere revisori. È il mio lavoro più riuscito.
Agliuommeràndoli, tendendoli, avevo smosso certi fili. La qualità della gente per contrastare la quale agisci saprà pur dire qualcosa. Nelle rabbie di questi uomini, nelle loro furie e nelle loro vendette, c’è lo spiringuacchio che mi segnala. E forse aspettano, forse no, che dia frutto il loro sapere di me, nella stagione più delicata.
La retorica della redenzione ha la corda marcissima e la pigrizia che la rinnova dà uno schiaffo alla miseria. Il giusto da fare è dire solo del fallimento, di cosa ho rovinato nella gestione del problema. La tracotanza nell’avocarmi un valore di costante. Quella senza la quale non si filano a piombo le coordinate, le tante altre costruzioni della geometria fantastica. Dire la tracotanza per tacere la parola che, in lingua antica, prude da sotto, per farsi dire e ammirare.
Per le conferenze a cui mi propongo, al nome, al cognome, tra parentesi, dopo l’anno, aggiungo anche il luogo di nascita. A tanti sta bene che questo dato non dica nulla, a certi altri no. Invece che dire qualcosa di scemo, mi conto seriamente i vantaggi di negare l’informazione o sofisticarla. La nonna del giovane poeta siciliano per poco non ha sposato Luigi Pirandello. Il giovane poeta è a Firenze perché è fascista, per caso ha scorto in vetrina un Mercurio. La sua poesia, e questo sotto:
Andrea Camilleri (1925) – Porto Empedocle.
So queste nozioni, e so questi nomi. Questi nomi e questi fatti sfiziosi li so, ci faccio sopra una carriera.
Controllare i movimenti, aggiornarsi sulle applicazioni poco mainstream, ma crittograficamente più
performanti, il giorno prima assoldo un cilentano che si allena a Vico Alto – la sera dopo il driver di Camollia patisce il suo a Uopini. Ho riferito di queste cose letterarie per rispettare una certa mia legiferazione. Perché è un dovere del mio memoriale specificare questo, con molta passione: il fatto che non abbia aspirato a potere tutto o tanto, ma a potere anche altro.
Non mi sorprende, ma qualche volta ci ho ragionato. Non mi dice niente la specializzazione in un sapere così specifico, piccolino; una predisposizione càpita, ma verso le scienze molli è una deviazione eclatante. Non mi stupisce che l’impratichirmi nell’uso dei suoi sistemi possa riuscirmi; dei ferri – nella frase fatta. Né mi stupisce di avere frequentato una scuola invece di un’altra e docenti invece di mastri. L’epifania – ecco – non riguarda una certa gioia dell’umanista ingenuo, dell’uomo del rinascimento, non affronta la sofferta gioia di una madre, nel tenermi all’estero. E lei che dice male, in chiesa, o dal tabaccaio, il paese in cui sto; e non sa che così mi preserva, anche se chi mi prederà è già nella folla che la origlia. Nell’evento strano che si verifica qualche volta si fa chiara una cosa: che è la consolazione del reietto, dello sconfitto, che ha vinto una carogna – un bel cencio per concorso. Si spegne un po’ il lago nel cardio: solo ora potrei dire che a cosa attendo, lì spingo le mie forze. Se mi arresto, non è indolenza.
Per me la cocaina era un fatto sconveniente e questa glossa sfa la tovaglia. Non mi dico bravo per avere usato le cose di Christaller. È sovvenuto perché ho potuto usarne il teorema, con una certa umiltà. Oltre che per la logistica, la cocaina mi è sconvenuta perché ne ignoravo gli effetti indotti, il margine possibile – nei terzi di Siena.
Ma non è un’impresa fumarsi un bob a cartina bianca? È un’impresa perché o lo lasci a morgana nell’aria o te lo fumi pieno di angiarìa, come uno a cui importa solo di: – fare, e nel meno tempo possibile, per paura di: – cose, pure sapendo bene che così però ti si riempie solo il cranio, e ti ammali sul momento. Ardono veloci perché non tengono dentro i chimici delicati che fungono da anti-incendio. Colpa di Bruxelles, che valuta seria la morte di chi scende nel sonno colla caldera accesa. E tutti a subire.
La tralascio, quindi, e non provo neanche a farmi nodo della sua rete. Non mi tira i figli di casa, gli studenti. E, poi, comunque, a che perché rompersi il cazzo? Non era affatto ora. Pesai con mano leggera il tempo in cui mi sarebbe stata a terra e lo trovai eccessivo. Per quella passione del dovere mio, che mi perdona la ribalta del gradasso, ho però l’impegno a dire di più: la pesa ha riguardato il tempo e un’altra cosa; mi ha detto di un tempo troppo breve e il suo motivo: mi sarei fatto troppo male. Bado al reflusso delle cavalleresche, del milite greco, dell’impresa più dura del bronzo, e via così – i plagi ginnasiali per convincerti dell’utilità anche dell’inadeguatezza. Piuttosto mi rinfresco le cose romantiche che ho usato per mitigare il terrore, passarlo a uno minore, quando mi dicevo le cose vere e sostenevo vari ruoli:
Mondillo
–
Napoli enne 1989, Napoli emme XXXX.
Eppure, è presente: come per la fessa o per Proust: aleggia, nei discorsi, nei ruzzini, nei propositi per l’estate (o per l’inverno), ma la sua frequentazione non è per molti. Anche se, come per la fessa, per Proust, c’è sempre l’amico chiachiello, il chiafèo, che si fa maestro o annuisce, che lui sì, lui davvero.
L’ostinazione che sostiene Siena – McDonald’s è stato espulso, tutto l’estraneo, l’orribile è messo a deposito fuori delle mura: i neri senza fellowship, i cinesi con i centri, i siciliani tronfi e antichi. Ho sospetto dei senesi, che patiscono senza problemi i banchieri MPS e i poeti. La città ha questi problemi, ma è possibile che questa rilevazione sia viziata perché tengo l’onore offeso. Il dato-banchiere alle undici da Morbidi, al bancone, ordina caffeino maledetto e cornetto – non domanda luogo, saluta il ragazzo. Consuma dov’è, allorda tutto e, schifando decenze, non sorveglia i nostri spazi – di te, che sei onesto; di me. L’arroganza sua è di stringerti nel suo sporco. Paga solo il battuto dello scontrino e illude di amicizia chi lavora. Il dato-poeta è più elementare. Come gli stormi nelle nazioni alberate: sono troppi, in troppi luoghi: ne avevo e ne ho tra professori, ne ho tra colleghi. Cacano strano, portano malattie.
Avessi vissuto altrove, è sempre sulle particolarità del posto che avrei fatto forza. Senza apprenderlo davvero, questo ammaestramento me lo sono trovato dentro il sangue – me lo rinviene il bambino che ha scoperto la sua prima realtà a Forcella. Non ho covato la serpe del cavaliere mascherato su città e università: le gabelle che andavano esatte, non mi sono state estorte. Con il dottorato che ho poi vinto i soldi mi sono ritornati indietro. Con trentasei ritenute a corredo: lusso che mio padre ignora, e che potrebbe invidiarmi, ma non lo fa.
Aveva urgenza solo la questione del tipo merceologico, delle robe. Una sciocchezza universale il pensiero di andare su Forcella con una mano avanti e una dietro. Pezzi, femmine, pezze – no way: il Chianti e l’Elsa sono già troppo percòrsi. Napoletani e calabresi insistono attorno alla casa di San Gimignano, nella casa stessa, gli albanesi sono a Colle e Gaiole; chi ne usa, sa quale nodo sciogliere. Baltour ha fatto la frontiera battendosi proprio le tratte di merda che da Puglia e Campania, Calabria e basso Lazio, portano alle carceri umbre e toscane. Coltivarmi il tempo fino alla laurea.
Sarei sceso a Napoli per farmi i soldi dello starting, tutte le volte delle lezioni taciute a Siena. In funzione di buttare a terra i forcellesi avrei avuto da pagare a qualche stronzo fuori zona il nolo del suo fuoco; scansare il fosso dei vincoli, declinarli. Di chiedere il permesso me ne sbattevo grandissimamente il cazzo. A chi, poi? Ogni pizzo di vico tiene il suo ràssatiello, il suo cornuto a vigilare su una parola di terra; per le corna che tengono, e che pesano, fanno vedetta con lo sguardo un grado sopra l’orizzonte. Gli angoli ciechi sono il patema di tanti sguardi sulle punte dei vichi. Non entro nel merito delle rapine che ho fatto per l’impazienza di fare tanto e in poco tempo. Il grosso del difficile, sulle strade, non viene dai ras; gli farei onore a dirlo. A questi sarà capitato mai di chiedersi:
e se a bucarmi i piedi mi venisse uno di fuori, ma non l’ignoto forestiero; uno di qua, ma non un parente: qui ben’e cresciuto, ma cittadino diverso?
Mirko Mondillo (Napoli 1989) è dottorando in Letteratura italiana contemporanea presso l’università di Siena e presso la KU di Leuven (Belgio). Un suo racconto è apparso nella recente raccolta de Il Saggiatore “I giorni alla finestra”.