Riccardo ha già parcheggiato sotto casa mia. Scosto la tenda solo qualche millimetro, per non farmi vedere. Non voglio pensi che lo stia aspettando. Lo osservo mentre scende agile dall’auto e fa un piccolo salto per evitare la pozzanghera sotto il marciapiede. Ed è già al portone. Vado alla porta, ma lascio che suoni senza rispondere. Apro solo al quinto appello.
«Scusa, ho insistito troppo? Mi stavo preoccupando».
«Ero in bagno. Mi facevo bello per la festa».
«Certo».
Sorride. Lui non lo sa quanto sia fastidioso, quel suo sorriso.
«Lo vuoi un caffè prima di andare?», gli chiedo.
«Non è che si fa tardi?»
«Si fa in tempo. A queste cerimonie figurati se ce ne è uno puntuale», rispondo.
In cucina preparo con calma la caffettiera, la metto sul fuoco, mi sporgo per prendere due tazze.
«Aspetta,» mi dice, «faccio io».
Fottiti, penso.
«Ci arrivo», rispondo. E dal tono è come se avessi dato sfogo ai miei pensieri.
La stanza si profuma dell’aroma del caffè. Iniziamo a conversare del più e del meno: il tempo è splendido, che fortuna, visto che saremo all’aperto, già, quanta gente ci sarà? Non so, un centinaio? Duecento? Mille? Uhm, buono questo caffè, che miscela usi? Arabica cento per cento, la migliore, la più dolce, che marca è?
«Andiamo?»
«Andiamo».
Davanti alla macchina mi apre lo sportello, si sporge per sollevarmi. Lo anticipo: mi isso sulle braccia, mi butto sul sedile, quasi lo manco, ma riesco ad aggrapparmi, mi tiro su. Prendo con le mani le gambe e le trascino dentro. Sono esausto. Non sono ancora abbastanza forte per fare tutto da solo, ho ancora molto allenamento da fare. In tre mesi non si fanno i miracoli, dice il fisioterapista. Ma in tre anni sì, te ne puoi andare pure alle olimpiadi. Già.
Tossicchio, dissimulo il fiatone. Do un’occhiata alla mia sedia, a cuccia nella bauliera.
In macchina ci scambiamo due parole sulla strada da percorrere per arrivare alla Villa Comunale. Io la conosco bene, ci andavamo spesso da bambini. Dietro la Villa c’era la biblioteca. I pomeriggi d’estate li passavamo lì, a leggere libri, a dar da mangiare ai pesci rossi nella fontana o a giocare a campana. Se pioveva, ci rintanavamo nella sala principale. Ricordo le sfumature dorate del pavimento e l’odore intenso di carta. Nessuno ci diceva nulla, la bibliotecaria era felice che scegliessimo quel posto invece della strada. A volte mi prendeva da parte. Era una donna molto robusta, con i seni enormi e cadenti che si raccoglievano sulla pancia ad ogni passo.
«Ti va di leggere una bella storia?», mi chiedeva. Poi si trascinava verso quella che noi chiamavamo “la libreria dei piccoli” e prendeva un volume. Io mi sedevo per terra, le gambe incrociate, e mi lasciavo guidare. Viaggiavo, certo. Da bambino ho viaggiato moltissimo steso su quel pavimento giallo.
Mi hanno mandato una lettera. Era una lettera prestampata, ma l’indirizzo era scritto a mano, una bella calligrafia. L’ho apprezzato. Mi piacciono le belle calligrafie. C’era scritto che avrei ricevuto un brevetto e un distintivo. In occasione della mia giornata. Una giornata dedicata a me. Che onore.
Quando arriviamo vedo dei grappoli di persone. Sono grappoli neri, neanche fossimo a un funerale. Ma tutta quella gente io non la conosco. Sfilano sul palco e sono tutti uguali, gli cambia solo la voce. Pronunciano parole che non capisco, che non voglio capire. Quando chiamano il mio nome nemmeno me ne accorgo. È Riccardo a darmi un colpetto con il gomito. Allora esco dalla mia fila, arranco sul prato. Le ruote scivolano sull’erba umida. Incoraggio la mia sedia con le buone, carezzandole i braccioli. Poi mi innervosisco, faccio presa su di lei con le mani e la spingo via. Arrivo al palco, salgo sulla rampa di legno ed è un bello sforzo. Non lo sanno, loro, che è un bello sforzo? Ci hanno messo una rampa, ma non hanno pensato che non avrebbero dovuto mettere nemmeno un palco?
Sorrido a due vecchi con la pelle cedente e il vestito tirato. Decido di essere l’effigie della felicità. Ancora parole che mi cadono addosso, che non lasciano traccia, che non sono per me. Sono per quelli come me. Sorrisi. Ricambio ancora, ma vorrei urlare. Non li voglio, io, i sorrisi, non me ne faccio nulla. Voglio due gambe che funzionino. Non li voglio i brevetti, voglio correre. Non voglio giornate dedicate a me, voglio poter ancora abbracciare una donna, farla mia, amarla. Che mi desideri, una donna. Non che abbia pietà di me.
Cinzia non è venuta, alla fine. L’ho chiamata due giorni fa e le ho detto di questa giornata, del brevetto. Mi ha risposto con una voce dolce e piena di speranza. È così facile avere speranza per gli altri, se non sei più costretto a condividerne le sofferenze ogni giorno. Quando ci siamo salutati non ricordavo nemmeno più perché glielo avevo chiesto. Forse perché un tempo era mia moglie e le credevo. E anche lei credeva in me. Cos’è l’amore, se non credere nell’altro? Nonostante tutto. Nonostante tutto ci amavamo.
Nel bene e nel male, finché morte non ci separi, avevamo detto. Ma questa è un po’ come la mia morte. Lei lo aveva capito già quando ero in ospedale, quando il dottore ci aveva informato che non avrei più potuto camminare. Sono io che non l’ho ancora capito.
Mi sento soffocare. Scrosciano nuovi applausi, guardo Riccardo. Ha la faccia impassibile. Scendo la rampa e senza farmi notare mi trascino sul retro: cerco la biblioteca, i pesci, la fontana. Magari potrò fare un altro viaggio, uno piccolo. Solo un istante.
Ma quando ci arrivo tutto è cambiato. Niente fontana, niente pesci. Una tela di sentieri ricoperta di ghiaia si estende fino alla scala di marmo e ci devo passare nel mezzo per arrivare all’ingresso.
Mi areno lì dopo pochi metri. Le ruote rifiutano di muoversi. Sono spiaggiato. Sono una balena con le ruote spiaggiata sulla ghiaia. Sono patetico. Ridicolo. Stupido.
Tiro avanti e indietro, faccio leva con il busto, ma non mi sposto di un millimetro. Tento di nuovo con l’incoraggiamento. «Andiamo, bella», dico alla mia sedia. Le parlo dolcemente. Lo faccio spesso. Rivelo a lei i miei segreti, le riverso le mie frustrazioni, la colmo di parole. Lei non conosce l’uomo che ero.
Accarezzo la sua pelle. Poi la colpisco con forza, la graffio con le unghie, fino a farmi male. Urlo. Un urlo silenzioso, che rimbomba nelle orecchie, che me le fa esplodere, le orecchie. Sento la presenza fisica del vuoto sotto di me. La sedia, la vorrei lanciare, scacciare, precipitarla giù, sempre più in basso, lontano da me. Come il mio corpo, caduto dall’impalcatura.
Riccardo, alle mie spalle, trascina via la sedia e me. Uno strattone e siamo fuori, di nuovo sull’asfalto. Mi libero dalle sue mani e vado veloce alla macchina.
«È stata una bella cerimonia», dice. Distruggere il silenzio suona strano e faticoso anche a lui, la sua voce vacilla e annaspa.
Mi volto a fissare le colline che fuggono ai miei occhi, macchie verdi, un quadro pasticciato di un bambino.
«Ho preso il nome di quel tizio, quello che hanno premiato».
«Che tizio?»
«Quello, il campione di Handbike. Allena la squadra nazionale. È uno in gamba. C’era quell’altro, l’hai visto? Quello che ha scritto una sceneggiatura. Dicono che gliela rappresenteranno in molte città d’Italia, che sarà un successo e che sensibilizzerà l’opinione pubblica. Cose così. Va anche nelle scuole, racconta la sua storia. Ha detto che sta ancora cercando attori. Tu non recitavi, qualche anno fa? Non avevi fatto quella cosa di Shakespeare? Il Macbeth?»
«Era un secolo fa», rispondo. Ed era quell’altra vita, penso.
Lui si volta per un attimo e cerca i miei occhi. Non glieli do.
«Potresti provare, no? È sempre meglio che pensare continuamente a quello che non puoi più fare».
Quelle parole. Sono troppo. È come farmi saltare un elastico nella testa. Un elastico in tensione da tanto tempo. L’ho sentito allungarsi per tutto il giorno, sin dal risveglio, quando ancora, per istinto, ho fatto per alzarmi in piedi. E non li ho sentiti, i piedi.
L’elastico si stacca, pronto a partire.
Raccolgo la saliva sulla punta della lingua. Nonostante tutta la rabbia sono preciso, svelto. Lo sputo coglie il suo naso, scivola veloce sul labbro.
La sua mano, invece, è lentissima. Si pulisce con un fazzoletto, lo ripiega. Lo appallottola, accosta la macchina e lo getta dal finestrino. Non ha mosso un muscolo del viso. Nemmeno ha chiuso gli occhi.
Si dispiace, glielo leggo tra le rughe della pelle. Si dispiace per sé, perché non riesce a farsi perdonare. Qualsiasi cosa faccia, ormai non cambierà le cose. E tutto questo suo essere calmo, questa sua serafica accettazione di ogni mio gesto, di ogni mia parola, mi chiude lo stomaco, mi annebbia la vista. Non voglio piegarmi a questo suo desiderio di espiazione, non voglio dargli il mio perdono.
«Forza, dammi un pugno», mi dice.
Io resto fermo, i muscoli del braccio in tensione.
«Che aspetti? Forza!», incita.
Gliene sferro uno sulla mascella. Mi scappa. Non è molto forte e lui non oppone resistenza. Poi me ne scappa un altro. La mandibola scricchiola e sbatte sul poggiatesta. Un altro. Socchiude gli occhi per il dolore. Io emetto un ringhio: un altro. Alzo entrambi i pugni, lo raggiungo al viso, alla testa, al petto, uno dietro l’altro. Sempre più forte. Sempre più veloce. Le nocche mi fanno male.
Riccardo incassa. Ogni tanto la bocca si contorce, ma niente di più.
Rallento. Perdo intensità.
Uno, due.
Uno. Due.
Uno.
Due.
Uno…
Ha nel labbro una linea frastagliata che cola sangue denso e scuro. Le mie nocche ne portano il timbro. Respiriamo entrambi forte.
«Non l’ho più vista», mi dice dopo un lungo silenzio.
«Chi?», chiedo. Ma lo so che sta parlando di lei, di Laura.
«Avevo deciso di non andare all’appuntamento. Lei me lo aveva chiesto, mi aveva implorato, all’inizio. E io le avevo risposto di no. Non volevo più vederla. Avevo deciso di chiudere».
Tiene gli occhi fissi sul volante. Da parte mia, nessuna reazione. Continuo ad accarezzare le nocche doloranti.
«Poi ha chiamato di nuovo verso le otto di sera. C’era Giorgia lì accanto. Non so come cazzo ho fatto a non crollare. Non lo so. Siamo sposati da sempre e io non le avevo mai mentito così, prima». Fa una pausa. «Ha iniziato a dirmi che se non ci fossimo incontrati, la mattina, avrebbe chiamato mia moglie e gli avrebbe detto tutto. Ho pensato che lo avrebbe fatto davvero e le ho detto di sì. Poi mi sono chiuso nel bagno e ho chiamato te, per farmi coprire il turno».
Mentre parla vedo due lacrime scivolargli sul labbro e tingersi di rosa.
«La mattina mi sono messo la tuta per lavorare, ho detto a Giorgia che sarei tornato alla solita ora e sono andato da lei. Quando ha aperto la porta era nuda. Sorrideva e, non lo so, forse aveva anche bevuto. Erano le nove. L’ho pregata di rivestirsi, che dovevamo parlare. Lei si è arrabbiata, ha iniziato a lanciarmi contro le cose. Abbiamo litigato.
«Quando è cominciata era solo per il sesso. Solo sesso, eravamo d’accordo entrambi. Poi non lo so che cazzo è successo». Si volta a guardarmi. «Magari non ti interessa tutto questo, scusa».
Si toglie le lacrime con il dorso della mano e continua.
«Il capocantiere mi ha chiamato che ero ancora con lei. Aveva la voce acuta, nemmeno l’ho riconosciuto. Mi ha detto dell’impalcatura, che aveva ceduto, e io che continuavo a chiedergli chi c’era, sull’impalcatura, ma lui era… non lo so. Scioccato, credo. Mi ha detto che l’architetto gli aveva urlato di togliere la placca che reggeva il muro. Mi ha detto dell’ingegnere, che non c’era, quella mattina. Mi ripeteva che se ci fosse stato l’ingegnere… ma che lui doveva dare retta all’architetto. Io lo ascoltavo, ma avevo quella cosa addosso… come si chiama? Insomma, lo sentivo che eri caduto tu».
Fa un’altra pausa e tira su l’aria con il naso. Io mi volto verso il finestrino, al di là del grigio del guardrail, accanto all’auto. Sul campo brullo si infrange l’onda scura di uno stormo di passeri.
«Ero convinto che fossi morto», dice alla fine.
«Ero convinto che fossi morto e sapevo che la colpa era mia», continua.
«Ero convinto. E per un attimo, magari solo per un attimo… sono stato felice di non essere io».
Inizia a singhiozzare. Io mi metto le mani tra i capelli e continuo a fissare nel fuori, mi ci immergo.
«Riportami a casa», gli dico. E basta.
Riccardo riparte.
Dopo due metri, esausto, mi addormento.
Mi sveglio nel mio letto, completamente vestito. Per istinto cerco il pacchetto di sigarette nella tasca posteriore dei jeans. Ma poi ricordo che ho smesso da cinque anni. Trovo però il biglietto dell’allenatore di Handbike. Lo tocco e basta, non lo tiro fuori. Voglio solo toccarlo, toccare la mia possibilità. È ruvido, spesso, con le lettere in rilievo. Una possibilità ruvida per un futuro ruvido.
Tolgo le dita dai jeans e avvicino la sedia. L’ho già perdonata di tutto, lei. La accarezzo, le parlo.
Giro per casa come un criceto impazzito. Ripenso a tutto. Di nuovo. Penso al modo per far uscire questo flusso di dolore dalla mia testa, dal mio stomaco. Dal mio cuore.
Penso. Penso a tutte le cose che potrei ancora fare. Penso.
Forse è solo l’inizio.
Giulia Romoli ha 43 anni, vive in provincia di Pisa. Ha frequentato un corso con Alessio Cuffaro alla scuola Holden. Ha pubblicato dei racconti su Verde rivista, Tuffi, L’inquieto, A4 e Inkroci, per la quale ha scritto anche recensioni.