Onde Nere

Guardo le onde nere che bagnano i fianchi panciuti della barca che avanza nella notte. Ombrose spume si capovolgono e poi rimangono impantanate sulla superficie del mare. Il rumore della schiuma, immobile, ormai lontana, si ripete dieci, cento, mille volte. Lo scafo sposta l’acqua scura, petrolio viscoso dell’anima irrequieta. Davanti a me la vasta distesa di pece che si allunga e si contrae in un moto che pare infinito. Sopra di me una miriade di stelle, chiare, parzialmente nascoste da piccole nubi grigie.
È una notte di vento, una notte di quelle che ti rimangono dentro come i dolori nelle articolazioni, spezzate dall’aria e dall’umidità. L’oscurità che mi circonda mi toglie il respiro, nonostante la brezza soffi forte…

Mi alzo il bavero del cappotto e mi calzo il berretto. Tutti dormono. Solo io a osservare la distesa crespa delle nostre anime inquiete. Solo io a navigarci dentro, a sentire cosa questo mare nero ci trasmette tutti i giorni. Il mare, secondo tanti, massa di molecole, secondo pochi, l’inconscio del mondo, mescolato, profondo, esoterico. Chiudere le finestre, sdraiarsi nel letto fresco, coprirsi con le lenzuola o con le coperte, chiudere gli occhi, abbracciare con lo sguardo le braci ardenti che si spengono nel camino. Questo è quello che fanno le persone normali. Ma io no: io vivo. Mi immergo nella notte, quella che tutti rifuggono, come se solo il giorno facesse parte della vita. Con il sole ad annientare le ombre. Li giudico ma non posso non comprenderli. Evitano quello che succede nella notte. Non sanno che è solo l’altro lato della medaglia. Quello in cui i dolci successi del giorno si trasformano in mostri informi di insoddisfazione celata.

Navigo in queste acque scure e mi domando se siano reali o solo frutto della mia mente. Le onde sono dentro o fuori il mio petto?  Pensate che non starei meglio accanto a un fuoco, in un letto morbido? Ma non posso. Devo sapere, esplorare. Anche se questo potrebbe darmi la morte, un giorno che attendo da una vita. Sono nato così. Di giorno, il cappello calato sugli occhi, con un sorriso sarcastico, li osservo tutti indaffarati. Portano avanti le commissioni, passano dal porto e poi tornano a casa. Salgono al mercato e alle botteghe, scelgono le taverne migliori per la sera. Solo pochi restano in piedi quando io mollo gli ormeggi. Ci salutiamo con un cenno del capo. Di quei pochi, ancora meno ne rivedrò la mattina, al mio ritorno. E allora saranno pacche sulle spalle e abbracci: saprò che almeno ci hanno provato. D’altronde, barcollare nella notte con una bottiglia in mano o avventurarsi con la barca su un liquido ombroso, che differenza fa?

Mentre tiro su le vele in questa ennesima notte in mare, mi rendo conto che non sarà come sempre.  Oggi tira un forte vento, solleva marosi che ricordano nere colline. Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, era solo questione di tempo. Forse proprio per questo  ho continuato a navigare tutte le notti. Veleggiavo per raggiungere il punto di non ritorno, tronfio delle mie scorribande precedenti. Spostare il timone con forza per non essere inghiottito da questo nero chiamato anima, dove i miei pensieri divengono cavalloni, dove il vento delle preoccupazioni fa volare via il cappello che viene inghiottito dall’oscurità. Gli schizzi marini mi sommergono la faccia, la salsedine mi imbratta la barba, la secca, non ce la faccio quasi più a tenere gli occhi aperti, ridotti a fessure che scorgono muri venirmi incontro. Questa volta non ce la farò. La barca è in balia del vento e della corrente, è già un miracolo che sia arrivato qua. Le mani si spezzano quasi a correggere la rotta. Si dice vivere o morire. Non evitare. Credo che le passioni ti travolgano, se ti lasci travolgere. E così vedo quest’onda enorme che si avvicina, tra poco sarà la fine. Non è possibile scalarla e superarla. Ripenso al momento in cui lei mi aveva guardato e, tenendomi la mano sulla nuca, sussurrò che non poteva affrontare il mare. Mi lasciò per la terra, per il giorno, per il letto caldo al fuoco d’inverno. Non era una donna da barche. Mi disse che preferiva non vivere che ondeggiare tra il bene e il male in eterno. La verità abbandonata per la tranquillità. Lei era un angelo, non poteva immergersi nel buio. Io invece devo raggiungere il paradiso passando dall’inferno, povero diavolo errante e pellegrino. Adesso mi pento. Quel caminetto avrei potuto godermelo, avrei potuto carezzarle la pelle morbida in notti d’estate in cui i suoni della strada entrano nelle case insieme alla brezza marina, le avrei dovuto dire che era unica, anche se diversa. Creatura che ti attira ma che rifuggi, solo per paura della calma.

Ѐ rilassante sapere che quello che puoi perdere in mare è solo la tua vita, significa che non hai legami con la terra. Legami che sono sogno, e ti rendono debole. Ma eccola, l’onda: la prua inizia a salire, la sento. La luna spunta da  una nube. Illumina quella distesa nera con i suoi raggi dorati. Anche l’animo scuro ha il suo sole che brilla e fa sembrare tutto meno tetro. Solo allora mi rendo conto che la barca è sulla cresta, che dal beccheggio passa orizzontale, il punto più vicino alla luna. Poi la prua già cede verso il basso, e scivola giù, veloce, un vuoto nel petto, e la sicurezza della fine si tramuta in certezza di sopravvivenza. In consapevolezza di voler anch’io quel letto in fondo al paradiso. Me lo sono conquistato, l’ho tenuto per troppo tempo lontano. Li guarderò tutti, e tutti mi guarderanno. Lui è il solo che l’ha conquistato, sarò un re. O forse solo un demone riportato dalle onde che tutti compatiranno. Non sanno cosa significa navigare. La gente odia i demoni, perché le ricorda quanto sia terribilmente umana.

Mentre raggiungo il porto, la barca distrutta, le vele strappate, l’albero spezzato, noto lo sdentato sulla scogliera. Mi fa un cenno con la testa e piega le labbra in una smorfia compiacente. Alza la mano, con la bottiglia tra le dita, e indica una finestrella, da cui proviene una luce gialla. La finestra è quella di lei, promette calore, promette paradiso. Lo sdentato sa che me lo sono conquistato, questo paradiso. Guardo l’ombra che si sposta nella stanza. L’ombra dell’essere più desiderabile della terra. Le prime luci dell’alba e l’ombra si affievolisce, sempre più. Potrei bussare alla sua porta, potrei farle un fischio. Mi sono guadagnato il paradiso, provengo dall’inferno, mia adorata. Ma stringo le mani sul timone, saluto lo sdentato, la barca solca stanca le acque calme del porto. Non posso cercarla adesso, lui mi capisce. . Il vento cala, calmato dal calore cocente del sole. Riesco giusto a ormeggiarmi per poi cadere sulla panca umida e salata di poppa, stanco di una traversata che avrei giurato sarebbe stata l’ultima.

Ho solcato onde nere che credevo mi avrebbero inghiottito. Guardo il cielo di un azzurro crescente. Poco fa, nell’inferno più profondo, sembravo un demone notturno, che sarebbe rimasto per sempre nel mare. Adesso, mentre guardo una finestra contornata di blu da una panca salata, assomiglio sempre di più a un uomo qualunque. Non partirò stanotte, la cercherò, sempre che non si alzi il vento di tempesta.


Federico Piacentini è nato in mare e cresciuto in terra. Presentarlo come un medico risulterebbe assolutamente riduttivo, così come uno scrittore. Si potrebbe dire che in lui, molteplici satelliti – la falegnameria, la chirurgia, il mixing, la vela – ruotino intorno a un unico pianeta, la scrittura. Un pianeta da esplorare, ricco di storie che sono state, via via, scritte, odiate, amate e pubblicate su riviste cartacee e online. Prima o poi tornerà in mare, la sua, come tutte, è solo un’effimera transizione.

Redazione

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