La morte di un poeta

A Idra, la luce del sole, che batte sui tetti rossi e sulle pareti bianche delle case, rifrangendosi in raggi che rimbalzano sulla superficie trasparente dell’acqua del porto, crea una stupita sensazione di magia, che tocca gli ultimi e i dimenticati, le brulle zolle di terra e l’erba secca, le pietre e i letti di fiumi assetati, e si leva dall’arido suolo un grido di meraviglia e d’amore per la natura, mentre il cielo sorveglia, con il suo azzurro sorridere, i pastori e le greggi e i pascoli, e i pescatori che animano di voci le barche e le taverne del porto avvampando con le mani callose nella dura fatica, e gli artisti, al riparo di ampie tende di bianco lino, cullati dallo sciabordio lento e dolce del mare calmo, dal sottile soffiare d’un anelito di fresca brezza, che per pochi istanti riporta il ricordo lontano di volti perduti e di anime dimenticate.

          I grilli e le cicale intonavano una melodia malinconica e distante, che si perdeva tra le valli e i colli, andando a rifugiarsi nella profondità delle grotte marine, tuffandosi sotto le acque del mare, percorrendo con passo silenzioso gli anfratti delle case addormentate e le terrazze desolate, battute dalla diafana luce del sole, depositandosi sulla tolda delle scialuppe di legno che si riposavano, ondeggiando lievemente, al molo di pietra, per ritornare poi su, su crinali e sui pendii collinari, verso una meta sconosciuta.

          Norman Levy arrancava, madido, lungo il fianco di una desolata collina, facendo attenzione a poggiare i piedi tra sterpi e magri fili di erba sbiadita, sfiorando con la punta delle dita affusolate i cespugli e gli arbusti mediterranei, inebriandosi a pieni polmoni degli speziati aromi della macchia, dei suoi inconfondibili odorosi e pungenti profumi, scacciando con gesti rapidi gli assalti ronzanti degli insetti, mentre il sudore colava sulla fronte fino all’argine delle folte e scure sopracciglia e sul collo abbronzato. Avanzava, con ampi affondi delle ginocchia, finché non giunse in cima, sull’agognata vetta del tumulo, e rimase assorto, mentre continui pensieri di versi mai scritti si assiepavano nella mente, mentre inespresse e ineffabili strofe e liriche si dipanavano davanti ai suoi occhi nel miracolo imperscrutabile della natura: guardava il mare, ai suoi piedi, denso e vinoso, e volgeva pronto e rapido lo sguardo ai nugoli di case asserragliate e aggrovigliate l’una sopra l’altra, e gli occhi saltavano poi, guidati da un desideroso sentire prima sconosciuto, verso il largo, verso la costa e la città sfumata in lontananza, con le sue meraviglie di un’architettura passata e perduta e i suoi nuovi dèi urbani di cemento, alla sua giungla di dèi ignoti e moderni.

          Erano le prime ore del pomeriggio, e forte sentiva il continuo mordere della canicola spietata e il momentaneo sollievo portato dagli afflati marini, lamentevoli e sommessi. Come un conquistatore antico, con il peso spostato in avanti, poggiante la gamba destra appoggiata su di un masso, osservava tutto avvolgendolo di un pensiero ed enigmatico silenzio, taciturno riandava a poesie polverose ed estinte, al ricordo trapassato di eroi e poeti, e si provò a bisbigliare, per non interrompere la sacralità dell’attimo, la religiosità prona alla fuga dell’istante fugace di poetica pace, i mormori di voci cadute nell’oblio, rinunciandovi, mentre il volto, con gli occhi scuri e tristi, assumeva l’espressione contrita e nostalgica di un bimbo sconfitto e si abbandonava al consapevole pianto interiore dell’inadeguatezza dell’uomo di fronte al miracolo che sa essere caduco. Sconsolato, con un’ombra che si dispiegava a nascondere lo sguardo turbato eppure ancora sognante, estrasse una sigaretta dal pacchetto che teneva nella tasca dei pantaloni e sbottonò un taschino della camicia, per cavarne un quadretto sdrucito e un mozzicone di matita: ora, seduta sulla stessa dura pietra, sulla roccia su cui l’uomo trovò la nascita e scoprì il mistero ridicolo della sua natura e della sua esistenza, provò a scrivere, a tradurre in versi la stupefazione del suo animo, ma le parole non affiorarono alle labbra, la mano si contrasse e ristette ferma, debole e inerme, incapace di creare, incapace di elevarsi adeguatamente all’emozione e all’incanto che immoto danzava davanti a sé, incapace di liberare l’anima imprigionata dalle strette e miserabili corde che imbrigliano il talento umile e modesto in una insignificante prigionia. Assaporò l’amaro gusto della polvere che si alzava dalla terra secca.

          Cupamente afflitto, con passo tardo e affranto, ridiscese, deluso di fronte alla certificazione concreta e inappellabile del proprio destino di ordinarietà, di vita  banale privata della poesia, estranea al vero che solo nei versi trova vita, che non può guardare alla bellezza se non come a un insondabile e sconosciuto universo separato e remoto, chiusa e ripiegata su se stessa, condannata al destino degli anonimi, escluso dalla dimensione che trova nel sensibile e nel soprasensibile, uniti assieme in un amplesso di entusiasmi e stupori, la ragione dell’io e dell’essere; era stato derubato da uno sconosciuto e beffardo destino della propria potenza creativa, e ora era solo, abbandonato e privo del sogno istintivo di un’immortalità poetica, incapace di vedere e plasmare qualcosa che fosse vero e concretamente formato e avvolto in una semplice, sensoriale e sincera purezza.

          La sua figura avanzava, si tuffava nel reticolo di ammennicoli e carruggi, cercando nell’ombra la frescura e il rifugio, il nascondiglio dal ridicolo in cui si era perduta, intrufolandosi nelle vie dove riposavano, dietro agli scuri delle finestre e alle porte socchiuse, le vite altrui, disinteressate e contente del poco.

          Continuò ad aggirarsi, quasi disperso, quasi abbandonato alla sua solitudine, per le vie, dove fasci di luce tagliavano le pareti candide dei muri delle case, tingendole di sbiadita oscurità, mentre si levava il lezioso afrore dei fiori di campo, l’odore di un mangiare povero, il sapore, gustato e subito scordato, di vite familiari. Giunse, guidato dal rumore dei propri passi che svanivano dietro gli angoli delle case in un’eco lontana, al molo, dove le barche cominciano a prendere il largo, a svanire verso la piatta linea di un azzurro orizzonte, mentre voci roche e liete si scambiavano insulti bonari e saluti, mentre barbari suoni si spezzavano e non corrisposti si chiudevano su se stessi. Una taverna lo invitò ammiccante, con la sua veranda di spianata ombra, i suoi tavolini di marmo screziato di venature verdi e grigie e blu come le striature del mare, con le sue sedie in vimini: due anziani, abbronzati, con spesse ciocche di capelli ingrigiti e riccioluti che ricadevano sulla fronte e sulle tempie sotto i cappelli di fustagno, assorti contemplavano la calma maestà dell’acqua, con gli occhi chiusi e le bocche che si aprivano in dolci sorrisi sdentati, in ruvide carezze che volevano spiegare l’indescrivibile con singoli e rapidi e ampi gesti delle braccia e delle mani rugose.

          Si sedette, con le gambe accavallate, le maniche della camicia bianca rimboccate, mentre con secche frustanti movenze cercava di nettare il candore  dei pantaloni dalla polvere e degli sporchi aloni di terra che durante la discesa il passo aveva sollevato nello strascicato sdrucciolare dei piedi; si sforzò, ma per quanto tentasse, non gli riuscì di mondarli adeguatamente, e, come indelebile stigma, rimase impresso sugli arti lunghi e robusti il marchio della fatica fisica che non era riuscita a trovare una nobile ricompensa nella creazione di nuova pura bellezza per il sopire del  riottoso genio creativo.

          Il corpo slanciato si contorceva, ricadendo su sé stesso, sulle gambe accavallate su cui poggiava il gomito sinistro e sulla schiena curva in avanti; il polso della mano sinistra pendeva floscio in avanti, mentre le dite scarsamente convinte stringevano appena una sigaretta perché non scivolasse via, mentre una tenue voluta di fumo azzurro si perdeva mescolandosi all’aria serena. Gli occhi, penetranti e scuri si smarrivano assonati e sognanti, mentre la bocca sottile, al di sotto del naso pronunciato e carnoso, si perdeva in un’oscura smorfia, e due profondi solchi si profilavano a scavare le guance agli angoli della bocca. I capelli neri e lucenti si beavano della pallida luce che filtrava attraverso la banda bianca a squarciare il velo d’ombra che ammantava la facciata del locale. Un cameriere, probabilmente il proprietario, sbucò da dietro una tenda di perline di legno, uscendo dalla stanza buia dove si trovavano il bancone e gli scaffali e da dove si sentiva giungere sommesso il fendente colpo delle pale di un ventilatore che cadeva dal soffitto, con un vassoio in mano scese i pochi gradini di pietra bianca e si accostò al tavolino dov’era seduto: depositò su di esso, sul freddo marmo che il sole scottante non poteva scaldare, una piccola ciotola di olive nere, un bicchiere di ouzo e una piccola brocca d’acqua di ceramica colorata, senza dire parola o proferire suono. Era una figura goffa e buffa, piccola e grassa, che calzava pantaloni stazzonati e una camicia azzurra stinta e sudata, con una larga faccia indurita dal sole e dei baffetti grigi dalle punte frastagliate.

          Prese a succhiare la grassa e succosa polpa delle olive, risputando i noccioli scheletrici nel pugno chiuso della mano, lasciandoli poi cadere nel posacenere dove si ammucchiavano i mozziconi. Goccioline di condensa scendevano attardate dal bordo del bicchiere opaco lungo i lati, mente la bibita lattiginosa traspirava catartica, quasi liberandosi di un peso insostenibile e indecifrabile. Ascoltava l’arricciante, frenato ruggito del mare che scintillava avanti a sé, del mare che si spacciava in un cielo terso senza nuvole e che si adagiava a riva in morbide e trasparenti onde che poi venivano aspirate, risucchiate via, lontano dalla terra, per poi ritornare, battendo i fianchi delle imbarcazioni e il muricciolo melmoso del molo.

          Pagò, le poche monete tintinnarono sorde nella mano ruvida e callosa del proprietario, e se ne andò, tornando a perdersi negli stretti intrichi delle vie, delle strade che si inerpicavano erte e di nuovo ridiscendevano, mentre attorno scorrevano le case con i tetti rossi, le imposte colorate delle finestre, i vasi con i fiori e la cascata di piante rampicanti che imprigionavano avviluppandoli i bianchi ombreggiati muri delle case.

          Attorno a lui gravava un pesante silenzio, il silenzio però tranquillo del riposo dalla fatica, il silenzio del sonno goduto nell’ombra di stanze accaldate e con le pareti battute dal sole, il sonno necessario della terra che non può risollevarsi al duro lavoro che è stata costretta a interrompere, il silenzio solitario e privo di vita, disumano, un silenzio in cui solo si sentiva sprofondare in un’ominosa dimenticanza l’eco dei suoi passi.

          Giunse alla piccola casa che aveva affittato, rifugio dalla vampa del sole e dallo sguardo di biasimevole delusione che immaginava dipinto sui volti di persone sconosciute, ostili o indifferenti, insensibili al suo dolore, all’agitazione del suo animo; una piccola casa a due piani con la porta e gli infissi dipinti di grigio, squadrata e con il tetto piatto, con un piccolo cortile con al centro un olivo, che con le sue fronte oscurava la dura pietra del pavimento e al di sotto proteggeva un tavolo di legno e delle sedie impagliate, il tavolo su cui da tempo dormiva la macchina per scrivere e dove non più ardevano le candele nella desolazione della notte stellata, per spegnersi al primo levarsi della luce. Attorno all’olivo, accostati all’alto muro, tracce di vegetazione secca e nuda.

          Entrò, nel buio della casa addormentata, nel silenzio fragoroso del respiro smorzato e addolcito di lei che dormiva: una figura abbronzata e bionda, bella ed etera, la faccia dai lineamenti fini perduta tra le pieghe del guanciale, il corpo forte e nudo, ben modellato, plastico e morbido, avvolto nel leggero sudario delle coperte con tocco gentile, mentre in una sopita tempestosa nuvola i capelli biondi ricadevano aggraziati sulle spalle e sulla schiena nuda: l’immagine piena dell’inappagamento fisico al quale da tempo andava incontro, della vanità dei tentativi di liberarsi del blocco che lo rodeva tormentandolo, della passione inevitabilmente svanita, dell’affetto inutilmente scambiato e donato e richiesto, del corrosivo germe della malcelata insopportazione, che si insinuava serpentesco, di una bellezza che senza motivo e spiegazione si era trasformata in detestabile ed irritante fastidio, della nauseabonda e nauseata avversione verso ciò che inesorabilmente ritorna sempre uguale con amara condiscendenza: l’immagine della consapevolezza della sciatteria e inutilità di un amore non più teso alla sublimazione di un genio artistico, defunto o nato morto.

          Trovò una bottiglia aperta di Retsina, si versò un bicchiere del nettare chiaro, di quella falsa mielosa ambrosia, ingannevole e temporaneo accontentamento dei mortali: i lunghi sorsi non riuscirono a scacciare l’asciutto e secco disgusto, la desolazione e l’afflizione che gli impastavano la bocca, il rimorso per l’inespressa emozione nata prima davanti a sé nella solitaria calma della natura trionfante, per l’opprimente senso di fallimento nel relazionarsi agli altri che lo schiacciava prostrandolo a terra, per la fugacità di un apparente creatività ora caduta con sordo tonfo e giacente morta, per sempre perduta, per sempre corrosa, mentre l’anima disperata cercava di dileguarsi e sfuggire al ludibrio della propria coscienza.

          Salì lentamente le scale, entrò nella stanza da bagno e cavò dallo stipetto dei medicinali un piccolo pacchetto avvolto in un incarto bianco, poi uscì sulla terrazza, sul culmine della casa, dove c’era una sdraio reclinabile per addormentarsi sotto lo sguardo spietato del sole. Si sedette; una lucertola verdacea guizzava sulle pareti.

          Cercò un’ultima disperata consolazione, nella vista della natura cara e familiare eppure così inafferrabile e sguisciante, refrattaria a farsi aggiogare in catene vuote di versi, in sillabe vane e in rime triviali; guardò il mare, ancora una volta, estendersi ampio verso la linea dell’orizzonte, sempiterno e infinito, tinto di un azzurro carico che rifletteva la gioia serena del cielo, mentre qua e là strappate lattee chiazze di nuvole cominciavano a comparire, macchiando la vasta campata celeste. Si accese una sigaretta, e aspirò ogni bocca di fumo inalando profondamente nei polmoni, ricacciando poi fuori in sbuffi grigi, in ciuffi e refoli che attraversavano le narici pizzicandole.

          Si alzò in piedi e trasse dall’involucro chiaro un pesante revolver con il manico in legno e la canna in acciaio argentato, decorata con lievi motivi vegetali, con grandi ogive e tralci e girali; infilò i proiettili nel tamburo, con cura, uno alla volta, poi portò l’arma alla tempia desta, chiuse gli occhi e impercettibilmente il dito tirò il grilletto, il cane, portato all’indietro, si gettò correndo in avanti con violenza sul percussore, e il colpo esplose.

          Un lampo che aveva in sé il sapore del sangue, un sofferente schiocco, rapido e accecante, un tuono sciabolante e infuocato, un cadere cupo di corpo morto, un caldo dolore, un acre odore di cordite, che con astiosa lentezza si dissipò nell’aria.

          Rossi sprizzi macularono la camicia e i pantaloni e il tetto bianchi.

          Al piano di sotto, incessante e pacifico si udiva il calmo respiro della bionda figura dormiente.


Leonardo Calini vive a Bergamo, dove è nato nell’autunno del 1995. Ha studiato presso il liceo classico della sua città, dove ha svolto qualche supplenza, e presso l’università degli Studi di Milano, dove si è laureato con una tesi in letteratura greca.

Redazione

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