A Città del Messico con Bolaño, Alessandro Raveggi
Giulio Perrone Editore, 2022

Ritorno con piacere a recensire un altro titolo della collana “Passaggi di dogana” di Giulio Perrone Editore. L’ultima volta mi ero persa tra le strade dell’immensa Colombia, grazie ad Alberto Bile Spadaccini che mi ha portata “In Colombia con Gabriel García Márquez”.
Non è la prima volta che Raveggi scrive del Messico e dell’America Latina: alcuni articoli a tema compaiono su riviste come Esquire, Minima&moralia, Linus, The Towner, Doppiozero, Nazione Indiana; ha inoltre vissuto in Messico per molti anni, assorbendo la città e lasciando che essa stessa lo assorbisse.
Il libro è un lungo racconto sezionato in mappe e in fermate della metro di DF, Distrito Federal, alias Città del Messico, un mostro urbano che fagocita la vita e la morte, caotico, fatale, ma assolutamente irresistibile. Lo stile di Raveggi è piuttosto particolare, appena ho iniziato il libro non nascondo di aver dovuto cercare la giusta predisposizione per capire i suoi lunghi periodi, le parole tagliate o aggregate, i ricchi e poco noti aggettivi, anche se più che parlare di “comprensione” dovrei riferirmi al tuffarsi nel suo modo di descrivere i luoghi, le persone, i legami invisibili che corrono nelle strade della città, sovrapponendosi alla sua rete sotterranea. Eppure, presa confidenza, il racconto è scivolato sinuoso e mi sono ritrovata all’ultima pagina con l’amaro in bocca, ché il libro era finito troppo presto.
Non sono mai stata (sigh!) a Città del Messico, ma Raveggi mi ha fatto venire una voglia irrefrenabile di partire: grazie ai suoi capitoli intitolati alle “mappe” – degli studenti, della lingua, delle acque, degli italiani perduti in Messico – è possibile capire cosa sia davvero questo luogo, attraverso la descrizione del suo territorio, della sua fisonomia geologica, dell’importanza del cibo, dei moti politici e studenteschi, delle sparizioni e dei rapimenti. A fine di ognuno di questi capitoli, l’autore ci indica le sue fermate preferite della Metro da cui partire per esplorare i luoghi descritti.
E Roberto Bolaño? Come ci entra in tutto questo marasma?
A dir la verità, rispetto al libro di Bile Spadaccini, in cui Márquez era una presenza fissa e prepotente, l’autore cileno compare un po’ defilato. Ne troviamo la figura sparuta e quasi spettrale in un capitolo a lui dedicato, e poi Raveggi preferisce concentrarsi sulla sua esperienza nella città. Non preferisco l’una o l’altra scelta, mi sono piaciuti entrambi i titoli in egual modo, ognuno con le sue peculiarità.
Quello che di più affascinante ha Città del Messico è la sua stessa natura. Come dice l’autore stesso è una “Città Impossibile” o “un labirinto basculante” che va a braccetto con l’Apocalisse, originale, autentica, ma anche infida, come tutte le megalopoli del mondo. Eppure conserva uno spirito tutto suo: “il prototipo di una metropoli sempre al bordo del collasso, tagliata da una natura, procreatrice di popoli e flore, che ogni volta pare prendere il sopravvento su un razionalismo impossibile”.
E allora perché, dopo queste premesse, Città del Messico canta come una sirena e ci ammalia? È forse proprio la sua stessa natura, il suo passato glorioso e la sua caduta, la sua mostruosità piena di persone, cibo in ogni angolo, arte, modernità e slums, alcool e segreti, che la rendono fonte di un desiderio irrefrenabile.
Sogno il Messico da molti anni. Forse non avrei dovuto leggere questo libro, perché la sofferenza di non poterci ancora mettere piede è grande. Ma è un libro che consiglio a occhi chiusi, come qualsiasi altro della collana. Un viaggio frammentato, peligroso, ma necessario.
“Y quando en las noches pienso yo en ti
Sé que tu te acuerdas de mi
<pero aquì atrapado en este vagon
No sé si volver a salir.” –
Cefé Tacuba, El metro