Amélie Nothomb, Primo Sangue (trad. di Federica Di Lella)
Voland, 2022

– Se sapessi quanto mi manca un padre!
– Perché tu immagini chissà cosa! Io ho un padre e sono confuso lo stesso.
– In Shakespeare i padri sono talmente importanti e magnifici! Devono esistere dei padri così, ne sono sicuro.
(Primo Sangue, Amélie Nothomb, pg 68)
Presentato al Salone del Libro di Torino a maggio 2022 e vincitore del Premio Strega Europeo 2022, “Primo Sangue” è il trentesimo romanzo della famosa e prolifica scrittrice belga Amélie Nothomb. Riconosciuta come una scrittrice di culto, la Nothomb è amata e distinta per una cifra letteraria ben precisa, che è la capacità d’essere ironica e leggera, beffarda e inquietante.
La maggior parte della sua letteratura è basata sulla sua vita multiculturale e libera, a tratti eccentrica, ma in questo libro, come lei stessa ha avuto modo di spiegare, ha voluto fare un passo in più, che potremmo chiamare definitivo: perso suo padre, Patrick Nothomb, rinomato diplomatico belga, durante la pandemia di Covid, seppure non per la malattia stessa, e tuttavia impossibilitata a dargli l’ultimo addio, Amélie ha deciso di ridargli la parola scritta da lei per lenire un momento profondamente scioccante.
Primo sangue è allora l’autobiografia di suo padre scritta da lei, un’opera in molti modi simile alla famigerata Autobiografia di Alice Toklas, l’autobiografia scritta da Gertrude Stein sulla sua amata, Alice Toklas, al posto suo. “Che questa autobiografia l’abbia scritta non la protagonista ma uno dei personaggi è qualcosa di più che una trovata, ma il segno di tutto uno stile”: così descriveva l’opera Cesare Pavese, traduttore della Stein. “[La Stein] è qui riuscita finalmente alla contemplazione ironica e insieme intenerita di un mondo reale”.
Amélie Nothomb non compie un’operazione molto diversa. Decisa a raccontare la vita del suo eroico padre, e non la morte così toccante, (Mio padre era un uomo vivo, amava bere e mangiare, era un bon vivant, e quindi era necessario che questo aspetto venisse fuori), la Nothomb si fa unico personaggio assente, facendosi pura tramite delle parole di suo padre. In alcune interviste ha raccontato di come la madre non abbia smesso di riconoscere il marito nelle sue parole: “Ma questo è Patrick!”, “Questo è Patrick”, fino al punto d’arrendersi e riconoscere: “Sì, sono Patrick”. Ed è interessante nella misura in cui suo padre, come forse molti padri e forse di quella generazione, non è mai riuscito a colmare la mancanza di parole fra lui e le sofferenze della crescita di Amélie, come lei stessa ha raccontato in recenti interviste:
Io ho capito in fretta che la vera volgarità per lui era parlare della sofferenza. La sofferenza si può vivere ma non se ne parla. Questo ha riguardato anche me. Ci ho messo tempo per capire quali erano i meccanismi psicologici di questa mancanza di parola fra noi.
Il piccolo filo rosso di questa narrazione è non a caso la parola.
Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozza
Nera e fredda dove nel crepuscolo odoroso
Un bimbo accovacciato e triste, lascia andare
Un battello lieve come in maggio una farfalla.
Quella pozza la conoscevo. Era un vago ruscello nascosto nella foresta. Non eravamo in un periodo di sicccità e c’erano fiumi un po’ ovunque nelle Ardenne, ma quello, lento e triste, era il mio, quello dove andavo da solo. Decisi che lo avrei chiamato la pozza. La poesia mi rivelò il suo potere: l’aver identificato (…). Stabilii che immergendoci la testa avrei incontrato mio padre.
(Primo Sangue, Amélie Nothomb, pg. 65)
La storia di Patrick Nothomb viene raccontata sostanzialmente divisa in due grandi ere di vita: l’educazione infantile passata in espatrio nella grande dimora decaduta di Pont D’Oye, nelle Ardenne belga, dal nonno paterno, il poeta Pierre Nothomb, e la carriera da diplomatico in età adulta nel congo belga, in particolare il ruolo assunto nella Rivolta dei Simba avvenuta nel 1964. Nel mezzo scorrono precise, ineluttabili e quasi chirurgiche le tappe della vita di Patrick, che ne emerge come una personalità trainata dal suo tempo, immerso negli eventi della sua vita senza ridondanza di riflessione, guidato dall’accettazione della vita, un’idea dello stare al mondo che Amélie doveva notare in suo padre come a volte la notiamo in certe generazioni del passato, immerse nel loro ruolo d’essere umani come in una devozione assodata. Solo in questi due poli d’esistenza, separati da trent’anni di crescita, siamo ammessi alle sensazioni di Patrick, che non affogano mai in buchi di spirito, se non forse nel piccolo, preciso sentore, della mancanza: sia di una madre, vedova precoce e poco portata alla maternità, sia di un padre, morto davvero troppo presto, che crea nel piccolo Patrick un vuoto da riempire con l’appartenenza.
Questa appartenenza la trova in un contesto a tratti onirico, spassosissimo, ottocentesco alla maniera dei più bei romanzi d’avventura. Viene accolto dall’aristocrazia decaduta della famiglia paterna, dove il capofamiglia è un poeta incompreso, capacissimo con le parole al punto da ammaliare, ma inconsapevole, non si sa quanto coscientemente o no, della sua incapacità a sostenere una famiglia di tredici figli. Nel vecchio castello, dove vige l’incuria, il degrado e la qualsivoglia forma di benessere, si instaura un clima di sopravvivenza stemperato dallo scenario meraviglioso delle Ardenne, dei laghi, delle foreste, della neve e dell’immensa solitudine. La povertà costringe la tribù dei figli a rituali violenti mai privi di una giocosità che cattura Patrick, che lo coinvolge come in un mondo parallelo, dove si sente parte di un gruppo e si sente messo alla prova. In questo tempo sospeso della sopravvivenza e dell’aggregazione ai riti familiari, per quanto bizzarri o dettati dalla cattività, Patrick distilla significati d’esistenza come il sacrificio matrimoniale, il compromesso familiare, il rispetto delle figure gerarchiche, l’apparenza dello status sociale, la fratellanza e la disabilità, con al fondo sempre e solo fiumi esistenziali primitivi, arcaici, dettati dalle paure istintive, dal trovarsi il cibo, dal combattere per tenerselo, dall’aiutare i più deboli, dal preservare le funzioni vitali essenziali.
Sul fondo, ancora, la parola, nella forma della poesia del nonno, che Patrick non capisce, che nessuno in realtà capisce, forse anche a ragione, esistendo in una bolla di pregio solo inventato dal poeta, non inserito nella società e non utile a nessuno, solo a piccole punizioni organizzate dalla tribù dei piccoli. Dalla nonna, silente pilastro della famiglia decaduta, il piccolo Patrick riceve un libro di Rimbaud, da cui invece comincia a capire il potere delle parole, qualcosa che lo lega ai suoi desideri interiori, alla comprensione del suo destino. Tutto questo si rispecchia allora, come maturato e ribaltato, nel grande episodio in cui, ormai uomo adulto, sposato e con già due figli, Patrick si trova a gestire la crisi dei leoni del Congo a Stanleyville, dove dalle sue parole di diplomatico dipende la sopravvivenza di millecinquecento ostaggi belgi.
In mezzo a questi poli di racconto, Patrick trova la paternità, il vero desiderio incompreso derivato dall’abbandono infantile e intravisto tra i rami dei boschi innevati, scovato sul fondo dei fiumi grigi.
Il mistero si rinnovava ad ogni abbraccio: un abisso d’amore, vuoto e pieno insieme, mi squarciava il petto. Era un immenso enigma: la paternità era la mia vocazione, me lo sentivo, eppure non sapevo minimamente in cosa consistesse.
(Primo Sangue, Amélie Nothomb, Ppg. 96)
Una consapevolezza che, scritta dalla figlia sul padre, deve aver cementato profondamente una personalità caramente vissuta dalla famiglia Nothomb, rappresentando un vero accesso a chi era davvero suo padre come uomo.
La Nothomb racconta fedelmente quale lo raccontava suo padre dell’episodio cruciale della prigionia, uno che lo ha segnato come uomo: un tempo in cui ha rischiato di perdere la vita per giorni consecutivi, in cui conviveva col senso di colpa e di responsabilità, perfino con la sindrome di Stoccolma, e in cui ricopriva, come amava dire, il ruolo di novella Sherazade, tentando di convincere gli aguzzini a non uccidere tutti, intercedendo per un governo che non si è mai fatto avanti, fino all’intervento di una task force inviata al massacro. Il libro si apre e si chiude su un picco narrativo-esistenziale del suo ruolo di incantatore, in cui si trova condannato a morte per fucilazione. In questo momento prima si fa strada il sollievo del silenzio, la chiarezza con cui il suo destino si chiude come in un nodo – dall’avventura di sopravvivenza nel castello assediato dal freddo, dalla fame e dalla poesia del nonno alla sopravvivenza della diplomazia nel mezzo della ribellione africana- e poi ritorna l’inconfondibile, risolta ironia di Amélie, qualcosa che forse in parte deve aver imparato dal padre stesso.
Si tratta dell’umorismo di chi sa stare al mondo e sa scavalcare gli ostacoli, perché l’ha già fatto una volta. Per una narratrice che di per sé ha superato disturbi del comportamento alimentare molto importanti, sembra un costante, invisibile lieto fine, riflesso nel sopruso della tribù dei figli Nothomb alla ricerca di cibo nelle valigie del padre, a sua volta riflesso nelle angherie dei soldati congolesi, segno di una sopravvivenza perenne che accomuna il destino del padre alla coscienza della sua esistenza.
Finalmente ho raggiunto lo stadio sperato: l’accettazione. O meglio ancora: l’amore per il destino. Amo quello che mi succede. Amo perfino l’assolutezza del mio non sapere. In fondo non è questo il modo giusto di entrare nella morte?
(Primo Sangue, Amélie Nothomb, pg. 115)
Il lieto fine per Amélie non è il lieto fine della vicenda, che Patrick ama raccontare con leggerezza, senza mai rimarcare l’evento tragico, ma è il lieto fine della morte di questo grande padre, la figura per eccellenza con cui tutti noi sappiamo di dover venire a conclusioni, un giorno o l’altro.
L’esperimento autobiografico della Nothomb si pone allora come una piccola, divertente, chirurgica lezione di vita, una narrazione su una narrazione interiore mai sprofondata nella tragicità, mai rimestata dal dubbio, dal dissidio interiore, dall’empatia a tutti i costi, dall’esplicitarsi di un trauma irrisolto. È piuttosto il modo di porsi verso la vita stessa, che, più spesso che a volte, semplicemente è, sia nella sua difficoltà che nella sua tragicità, come è la morte di chi si è amato tanto. È ridare la voce anche alle cose non comprese, alle cose, meglio, che pur volendole comprendere, non hanno mai avuto un vero bisogno di scardinamento, quanto volevano essere e basta. Ridando la parola ai padri, in questo senso, si scopre un andamento d’esistenza che fa i conti con l’adeguarsi al destino, il quale allora assume l’aspetto delle avventure nei castelli diroccati, in un cui sopra ai laghi ghiacciati ci si gioca la vita da bambini come da adulti.
Chantal Salvinelli