“In Colombia con Gabriel García Márquez” di Alberto Bile Spadaccini – Senza forze di gravità

Alberto Bile Spadaccini, In Colombia con Gabriel García Márquez
Giulio Perrone Editore, 2021

Per chi non lo sapesse, sono una grande fan di Márquez, ma forse dire grande fan è un eufemismo: posso ammettere con certezza che siano stati i suoi romanzi i primi responsabili del mio amore per la letteratura, non solo quella sudamericana, ma per la letteratura in generale.

E da amante di Gabo, come veniva chiamato dagli amici, e di Giulio Perrone Editore, non potevo farmi mancare la lettura di questo testo. Edito quest’anno e scritto dall’impagabile Alberto Bile Spadaccini, già autore per Dante & Descartes e Polaris Editore, il libro fa parte della collana “Passaggi di dogana”, riuscitissima sezione della casa editrice che raccoglie guide letterarie, narrazioni sotto forma di racconto o di saggio, che più che essere guide turistiche nel senso stretto del termine, seguono le tracce di autori famosi per svelarne i retroscena della vita, per raccontare aneddoti sconosciuti e portare il lettore alla scoperta di luoghi e personaggi peculiari.

In questo caso, trattandosi della vita di Márquez, era piuttosto chiaro che il viaggio mi avrebbe portato in Colombia o, se vogliamo usare le parole di Bile, “nell’immenso Caribe”. E con Caribe lui non intende i Caraibi, ma il vero Tropico che sta dietro alla patina di ricchezza e glamour, quella parte enorme di Sudamerica e/o Centroamerica che ignora persino di vivere vicino al mare.

Il libro si divide in due parti, una prima che affronta, grazie alle esperienze di viaggio estremamente personali dello stesso autore, tematiche ricorrenti nella letteratura garciamarquiana (ebbene sì, Gabo si è meritato anche un attributo tutto suo) e la seconda in cui la trama si concentra sui suoi luoghi emblema, come Aracataca, Barranquilla, Cartagena (come dimenticare il vivido teatro di “L’amore ai tempi del colera”?), Bogotà e tutto il Caribe interno, quello citato poco fa, che non si chiude però nei confini nazionali e si espande fino in Unione Sovietica o addirittura a Napoli.

La natura della collana “Passaggi di dogana” permette a Bile di addentrarsi nella vita reale di Márquez, ripercorrendo i suoi passi esatti, dai primi racconti adolescenziali, passando per gli articoli di un autore non ancora famoso, mezzo giornalista, mezzo reporter, un poco squattrinato, ma già sulla buona strada per diventare quello che poi sarebbe stato premio Nobel per la letteratura nel 1982.

Ciò che ha colpito me personalmente, da conoscitrice del lavoro e dei romanzi di Márquez, è stata la quantità di informazioni e di aneddoti sconosciuti che l’autore espone, mai in forma altisonante o complicata, ma colloquiale, come se stesse parlando di un amico a un altro amico, aneddoti che nessun altro poteva scoprire se non lui stesso grazie ai suoi viaggi in Colombia e alle sue interviste-passeggiate, come quella insieme al fratello di Márquez, Jaime, prezioso emissario di Gabo nonché fervente promulgatore del suo lavoro.

Bile allora ci dice come si parla nel Caribe, come si mangia, come si beve, chi si incontra; ci dice perché quel personaggio in “Cent’anni di solitudine” si è comportato in un certo modo, la motivazione sconosciuta che c’è dietro alla scelta di un luogo piuttosto che di un altro, quali sono stati davvero i suoi amici preferiti, reali o immaginari; ci parla del machismo, di quel patriarcato ancora così denso in quella zona del mondo (ma mi viene da dire, solo in quella zona del mondo?) perché seppure Gabo parli di matriarcato lo fa descrivendo “una realtà in cui la donna potrà pure governare la casa, ma perché è lì che viene collocata”; ci riporta le parole di una rara intervista di Héctor Feliciano alla moglie di Márquez, Mercedes; ci parla di politica, tematica così massicciamente presente, sia volontariamente che non, nella sua vita e nei suoi romanzi, così tanto che il reale e l’immaginario diventeranno indissolubili; ci parla di miseria, di pappagalli sovversivi e di villaggi senz’anima, “nelle cui stanze si sente solo il sordo bollore delle parole pronunciate di malanimo”.

Un Caribe allora che non ammicca, che non sorride, ma piuttosto ti trita per poi risputarti fuori.

La scrittura di Bile, come ho anche avuto modo di dirgli personalmente, è evocativa, poetica, senza essere eccessivamente pulita però. D’altra parte se parliamo di Gabo, insomma…non serve essere affettati, si tratta pur sempre di un autore che riteneva i bordelli “i luoghi migliori per collezionare incontri”.

È un testo ricco questo di Bile, ricchissimo, e sapientemente condensato, perché il rischio di uscire fuori tema era altissimo. Eppure, nonostante le digressioni che ci portano fuori dalla Colombia, restiamo saldamente ancorati allo scopo del testo stesso, ovvero alla celebrazione di un autore immortale e alla scoperta del perché sia diventato quello che è diventato.

Imperdibile per tutti gli amanti della collana e dello scrittore colombiano.

Yo me vivo la vida, no me vive a mí” – Garrincha.

“In Colombia con Gabriel García Márquez”, Alberto Bile Spadaccini

Redazione

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