Fuori la neve aveva superato i dieci centimetri di altezza e non smetteva di cadere. Una coltre bianca che ricopriva ininterrottamente tutta la strada, forse l’intero paese. Di certo l’entrata del Dragonfly era rimasta libera da impronte per tutto il pomeriggio, quasi a voler rimarcare la scarsità di clienti del bar che, insieme alla neve, era tipica di gennaio.
“Che mese del cazzo” pensava tra sé e sé il Gigante, intento a mettere via i bicchieri asciutti dietro al bancone. Carlo non aveva dovuto impegnarsi molto per garantirsi quel soprannome. Per nulla, infatti. Era tutto merito della natura e chiunque si fosse imbattuto nei quasi due metri di scontroso barista avrebbe apprezzato l’idoneità di quel nome.
Per tirar su quel posto, invece, il Gigante aveva lavorato eccome. Senza sosta, per anni. Montalto non era l’unico paese ad essergliene grato. Il Dragonfly aveva regalato a molti un luogo dove ritrovarsi, dove condividere gioie e dolori. Da tutta l’Irpinia la gente vi si riuniva, che vi fosse o meno un’occasione speciale. Per molti più che un bar era una seconda casa. Chi lo aveva visto nascere aveva dimenticato cosa fosse la vita prima del Dragonfly. Senza non era più possibile stare. Tranne che a gennaio. Dannato inverno.
Quella maledizione aveva finito col diventare una tradizione del bar durante il primo mese dell’anno. La Befana tutte le feste si porta via, ma pure un bel po’ di clienti s’intasca, la stronza.
L’unico rumore a tener compagnia al Gigante era lo scampanellio del video poker. A dargli vita, seduto lì ormai da ore, il solo cliente dell’intera giornata: Carmine, detto Ballack. Il suo soprannome era nato per via di una vaga somiglianza con un vecchio giocatore del Milan.
Una calvizie incipiente e un bel po’ di peso messo su con gli anni, avevano ormai diluito la somiglianza fino a farla sparire. Il nome, però, era rimasto. Il divorzio e il licenziamento lo avevano costretto a campare con quel poco che si poteva trovare da fare in un paesino come Montalto.
Talmente poco, infatti, da convincere Ballack che tentare la fortuna avrebbe dato migliori frutti. E intanto, a ogni tintinnio, la macchinetta gli sfilava ancora un po’ della miseria rimastagli nelle tasche. Alle sue spalle il Gigante portava avanti la baracca, maledicendo gennaio, la neve e quel dannato scampanellio che gli aveva portato via l’unica conversazione possibile della serata.
All’improvviso qualcuno aprì la porta e il gelo del paese si affacciò per un istante tra i tavoli dell’ingresso. Il Gigante si voltò verso la figura che aveva appena fatto ingresso nel bar. Fuori la neve aveva smesso di cadere.
“La prima buona notizia della giornata” pensò, volgendo ora la sua attenzione all’uomo incappucciato che si avvicinava al bancone. Ballack si sentiva troppo fortunato quella sera per potersi permettere una distrazione.
Il nuovo cliente attraversò il bar con passo lento, dando tempo al barista di dargli un’occhiata più attenta prima di ritrovarselo seduto allo sgabello dall’altro lato del bancone. L’uomo era bassino. Effettivamente bassino, non solo dal punto di vista del Gigante. Un paio di jeans sgualciti e degli scarponcini macchiati di fango secco davano l’idea di qualcuno che arrivava dritto dal luogo di lavoro. La felpa che indossava, invece, sembrava fresca di bucato. Era nera, senza logo. Il cappuccio, invece, rosso. Per via di quest’ultimo il viso era quasi del tutto nascosto.
Solo un pizzetto rossiccio e incolto era appena visibile. Le mani erano sprofondate nelle tasche della felpa. A vederli così, il Gigante che quasi toccava con la testa il ripiano in alto dei gin, l’altro seduto sullo sgabello, piccolo e curvo, si sarebbe potuto pensare a una scena saltata fuori da una fiaba. Quella sera, però, l’unico spettatore era intento a rincorrere la propria fortuna e di tempo per le fiabe proprio non ne aveva.
«Buonasera», attaccò il Gigante ancora intento a scrutare il nuovo cliente. Di risposta l’ometto sullo sgabello si limitò ad accennare un breve inchino.
Cominciando a sospettare che si trattasse di una qualche sorta di strano scherzo il Gigante continuò
«Cosa posso darti?»
La figura sollevò quasi impercettibilmente la testa e parlò per la prima volta.
«Un liquore di mirto e gragnaccio. Doppio.»
Questa volta il barista era certo che lo stesse prendendo per i fondelli. La sua espressione non lasciava dubbi su quanto poco divertente trovasse tutta la situazione. Quasi avesse intuito i suoi pensieri, l’estraneo incappucciato sorrise divertito, emettendo un suono che provocò un brivido lungo la spina dorsale del barista. Allo stesso tempo la calma nella voce di quello strano individuo sembrava creare nel Gigante una piacevole sensazione di torpore.
«Perdonami» continuò l’uomo «a volte dimentico dove mi trovo. Un whisky doppio, grazie.»
Il Gigante rimase fermo per qualche istante, ancora confuso dalla peculiarità di quell’ometto, prima di riempire un bicchiere.
“Quella risata…”
Il misterioso cliente tirò fuori una mano dalla tasca della felpa e la avvolse intorno al bicchiere. Il Gigante si ritrovò di nuovo a osservarlo. Lo sporco raccolto sotto le unghie e lo stato di quella mano sembravano confermare l’idea che l’uomo avesse appena terminato il suo lavoro,una qualche sorta di lavoro manuale. A fare da contrasto a questa idea, però, un enorme anello d’oro che avvolgeva l’anulare. Un anello che sembrava essere poco adatto ad un manovale.
«Interessante collezione di fotografie» continuò l’uomo, indicando con un dito la parete alle spalle del Gigante. Il barista si voltò. Su quella parete c’era quella che si sarebbe potuta definire la storia fotografica del Dragonfly. C’erano foto del buco in cemento che il bar era stato prima della sua costruzione. C’erano gruppi di musicisti che avevano suonato lì per la prima volta, tra accordi incerti e stonature nervose, prima di fare irruzione nel mondo della fama e lasciarsi il paese alle spalle.
C’erano amici e amiche, alcuni rimasti, altri partiti. Volti dimenticati e volti che non lo sarebbero mai stati. Quella parete era lì sempre, parte della mobilia, ma di rado il Gigante si fermava a guardare quelle istantanee. A quelle foto, però, voleva bene e lo si leggeva nel sorriso che gli si formò in volto. Era cosa rara, ormai, vederlo sorridere.
«Ricordi» sussurrò in risposta allo strano cliente, ancora sorridendo.
«Buoni ricordi?» chiese l’altro sorseggiando il suo whiskey.
«I migliori» rispose il Gigante riportando la sua attenzione al cumulo di bicchieri. Per qualche attimo i due rimasero in silenzio. Silenzio, si capisce, non fosse stato per l’inferno elettronico che non smetteva di derubare il povero Ballack.
«Serata lenta, eh?» continuò l’uomo incappucciato voltandosi verso l’unico altro cliente. Il gomito poggiava ora sul bancone, il bicchiere stretto nell’altra mano.
«L’inverno» si limitò a ribattere il barista. Poi, spinto dalla strana sensazione di poter confidare nel suo bizzarro interlocutore, continuò:«Cavolo, a volte va tanto male che i guadagni dell’estate sono tutto quello su cui posso contare per mantenere ‘sto posto a galla.»
«Non suona conveniente» commentò l’altro, ancora con quella calma persistente nella voce. Il Gigante alzò le spalle, con un cenno della testa, indicò le foto dietro di sé e rispose:
«Loro ne hanno bisogno. Ione ho bisogno.»
Ancora un’altra pausa silenziosa mentre l’uomo svuotava il bicchiere con un ultimo sorso. Poi, con un breve cenno verso Ballack disse:
«Almeno stasera a lui puoi sfilare qualche euro.»
Il volto del Gigante si incupì all’improvviso mentre volgeva lo sguardo verso l’uomo seduto al video poker.
«Lascialo perdere lui. Di miseria ne vede già abbastanza senza il mio aiuto. Se gli lasciassi usare i suoi soldi per quel dannato gioco sarebbe sul lastrico da un pezzo.»
Con voce leggermente sorpresa l’altro chiese:
«Vuoi dire che sei tu a prestargli i…»
«Prestare» lo interruppe il Gigante «non è proprio la parola esatta, ma più o meno è quello il succo. È un amico. C’è sempre stato, dall’inizio. Mi spetta.»
L’unica risposta fu di nuovo quel sorriso da brivido, a metà tra il divertito e lo spaventoso. Il Gigante si voltò di scatto verso il bancone, ancora una volta rabbrividendo al suono della risata dell’estraneo. Il cliente era scomparso. Sul bancone solo il bicchiere vuoto.
“Non ha pagato quel maledetto” pensò, mentre con la coda dell’occhio fece appena in tempo a vedere lo strano ospite di quella serata che usciva calmo dalla porta. Il Gigante si affrettò a lasciare il bancone per rincorrerlo, ma venne interrotto dai salti di gioia di Ballack, nello stesso istante in cui la porta si richiudeva. Solo allora il barista si rese conto dell’assordante fracasso che arrivava dalla macchinetta. Ballack aveva vinto. Venticinquemila euro aveva vinto, l’intero jackpot.
«Te lo dicevo che era la mia serata fortunata» continuava a urlare, felice come non lo era stato da anni. Il Gigante non riuscì a trattenere un sorriso mentre ancora si avviava verso la porta. Fuori non si vedeva anima viva per centinaia di metri. Il piccolo uomo sembrava sparito.
Ancor più bizzarro il fatto che sulla neve, fuori dal bar, non c’era alcuna impronta oltre a quelle del barista. Il Gigante rientrò furioso nel locale. Era felice per il gran colpo di fortuna di Ballack, ma gli seccava di brutto di aver perso l’unico, magro bottino della giornata.
Poi, nell’afferrare il bicchiere vuoto dal bancone notò il sacchetto. Pensò a quanto fosse strano il non averlo notato prima e lo raccolse con la mano libera. Si accorse immediatamente di quanto fosse pesante e, lasciando cadere il bicchiere, usò l’altra mano per aiutarsi a reggerlo.
Solo allora vide le monete d’oro che traboccavano dal sacchetto. Neanche notò il rumore del bicchiere che si fracassava sul pavimento. O Ballack che continuava a saltare tra i tavoli. O che, fuori, la neve aveva ripreso a cadere.
Davide Lepore è un biologo italo-britannico residente a Londra. In passato ha lavorato come giornalista per quotidiani e riviste online. Per un po’ ha scritto della sua Irpinia su vari blog, poi ha deciso di abbassare il livello qualitativo della letteratura globale cominciando a scrivere racconti brevi, in Italiano e in Inglese; alcuni sono perfino stati pubblicati. Per ora non si è ancora pentito.