Il cojone di “Strappare lungo i bordi”

Strappare lungo i bordi (Netflix, 2021)

È in questo istante finita sul cellullare da cui l’ho guardata la serie Strappare lungo i bordi. L’ho vista bene: la miopia mi costringe giocoforza a una visione animalesca degli schermi.

Grande clamore – rettifico. Un certo clamore ha suscitato il fatto che ciò che da Netflix è definito come “italiano – originale” sia, in realtà, per gli italofoni nient’altro che quel romanesco colloquiale che non serve essere di Roma per capire: basta fare un giro su Twitter o su Facebook per apprenderne la semantica. “Lella” e “cocco” sono termini che circolano da almeno vent’anni.

È davvero questo è il fuoco della questione di Strappare lungo i bordi? No: Zerocalcare è romano, è giusto che faccia esprimere i propri personaggi in romanesco, mettendogli in bocca, tra un gelato negato e l’altro richiesto, parole romanesche.

Chi ha trovato imbarazzante questa scelta evidentemente non è mai stato esposto ai mass media e vive in un’epoca pre-pasoliniana: non ha mai visto I Cesaroni o Romanzo Criminale, non ha mai ricevuto in regalo – ultrariciclato, pluriscontato – un libro di De Cataldo o, se il donatore è un po’ più accorto, Siti.

Certo, un discorso diverso si può fare sulla ricezione di questo romanesco e sull’euforia – registrata sui social – mostrata dai consumatori di Roma.

Anni di oblio del romanesco e di una più generale calata romana in prodotti “visuali” di qualità o, in ogni caso, in grado di fare scuola, un’irritante – quanto purtroppo produttiva (economicamente) – associazione tra rappresentazione della romanità e burinità di certi cinepanettoni, da un lato, e stanchezza creativa (penso alla seconda stagione di Suburra, o alla pletora di filmacci con protagonisti i soliti Raoul Bova o Paola Cortellesi, Anna Foglietta o Enrico Brignano), dall’altro: SLB ri-conquista finalmente agli occhi dello spettatore romano quella preminenza a lungo posta contesa solo tra napoletani, siciliani e italiani dalla dizione ripulita.

Lo spettatore romano non può che essere contento, quindi: la sua lingua, o meglio l’uso di questa variante, viene finalmente associata a qualcosa di divergente rispetto all’immaginario consolidatosi. In parte è la stessa tematica che in Vita di Carlo, del concorrente Amazon Prime Video, si sviluppa a partire dalla proposta di Verdone di produrre, sull’onda dell’espressionismo tedesco, “L’incrocio delle ombre”: proposta respinta da un volgare «Me devi tornà a ffà i film coi personaggi».

SLB, però, al di là di tutto ciò, funziona o non funziona? Ha pregi o ha difetti? È un prodotto genuino o pretenzioso?

Quello di chi scrive è l’avviso di uno dell’89, cioè di quella generazione da cui Zero-personaggio non si farebbe mettere le mani in bocca, neanche se a validarne la professionalità brillasse sulla parete una bella laurea. Ma tant’è: probabilmente SLB non è rivolto a me. Eppure, non è per questo motivo che a mio avviso SLB risulta essere, a tratti, insopportabile.

L’insopportabilità di un prodotto culturale (cinematografico, letterario, musicale, teatrale, ecc.) può essere una cifra artistica a buon diritto perseguibile se la linea considerata dall’autore la contestualizza. Ne ho rintracciato due tipologie in questa serie: quella etica e quella di sfondo.

Il “rosicamento” sembra, pare, che sia una sorta di tratto culturale della romanità, o di una sua certa variante; qualcosa che il non-romano non è in grado di capire. Comprensibile o no che sia, “romana” o no che sia, quest’etica del rosicamento abbracciata da Zero fallisce nel momento in cui viene trattata come tratto generazionale e nazionale. L’immobilismo di Zero – sul piano del lavoro, sul piano dell’amore, sul piano della vita in generale – riempie di sé tutte le puntate.

Persino l’Armadillo, nel tono monocorde e tombale del Mastrandrea che gli presta la voce, agisce come pars destruens di un piano esistenziale rispetto al quale dovrebbe porsi come contro-altare (ruolo, in parte, svolto da Sarah, anch’essa tuttavia “immobile” nella sua attesa di concorsi ministeriali, ma almeno più “mobile” per quanto riguarda la vita). Tale “rosicamento” non riesce – ed è questo forse il difetto più grande – ad assurgere alla dignità di una vera e propria depressione, di una “Bad Thing”.

La piccolezza di Zero nei confronti della vita non rientra nell’ordine della subalternità derivata da una presa di posizione, dall’attuazione di determinate scelte, da una pur infelice decisione. Non è stato minoritario: è semplicemente ipernarcisismo, iperindividualismo, iperegotismo.

Pronto a giudicare tutto e tutti, a trasformare uomini e donne in topi, lucertole, perturbanti accrocchi umani dalla voce robotica, Zero è l’amico insopportabile che non mandi a fare in culo solo perché lo conosci dai tempi dell’asilo e di cui il tuo partner – neanche tanto segretamente – vorrebbe che tu facessi a meno. Zero rosica per non risicare.

Insopportabilità di fondo. È cosa conosciuta che cifra stilistica di Zerocalcare sia rappresentata dal citazionismo e da un tipo di ammicco neanche tanto velato: fumetti, anime, cartoni, serie tv, musica, ecc. La cultura definita nel corso comune come pop – e requiescat in pace Labranca. Ho uno spezzone in particolare in mente: quello relativo alla disposizione della casa di Zero.

Senza entrare troppo nel dettaglio, la casa di Zero viene illustrata attraverso la mappa e la semantica di “Game of Thrones”. Una rottura di scatole incredibile: GoT l’ho già vista e non avevo bisogno di Strappare lungo i bordi per immaginare che anche l’autore l’avesse fatto. Non è l’approccio nerd ad essere in discussione, ma è l’uso della cultura pop di cui il primo è, televisivamente parlando già con “The Big Bang Theory”, entrato a far parte.

Alla lunga il messaggio che si vuole trasmettere (il disordine mentale che si riverbera nel disordine domestico, in questo caso) viene sconfitto dal citazionismo: GoT non è più il canale attraverso cui farmi arrivare questo messaggio, ma diventa esso stesso il messaggio. Sembra quasi che senza la predisposizione di un terreno comune con il telespettatore, quale l’uso di GoT è, Zerocalcare sia incapace di prendere parola.

A che cosa è servito uscire dagli anni ’80, dall’ansia della parola? Parlami, Zero. Rat-Man di Ortolani, da questo punto di vista, pur profittando della stessa tecnica citazionistica e ammiccante, mettendola cioè a profitto, è più efficace.

Il perché questa serie sia piaciuta è presto detto: racconta la stessa cosa di tanti altri prodotti culturali (il peter pan senza maiuscole che prova a razionalizzare se stesso) e lo fa coccolando il telespettatore, sfruttandone l’emozionalità (il patetismo e il moralismo sono due delle croci del contemporaneo) e la cultura.

Del resto, qualsiasi figlio che ritorna a casa resta contento se la madre gli prepara un piatto che già conosce, se gli mette accanto un bicchiere ricavato da un vasetto di Nutella che gli riattiva le radiazioni assorbite guardando Uan e l’imberbe Bonolis.

L’ultima puntata termina con l’Armadillo che dice «cojone». Resta solo da verificare a chi sia rivolto.


Mirko Mondillo (Napoli 1989) è dottorando in Letteratura italiana contemporanea presso l’università di Siena e presso la KU di Leuven (Belgio). Un suo racconto è apparso nella recente raccolta de Il Saggiatore “I giorni alla finestra”. Ha scritto “Saccenze” per Quaerere.

Redazione

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