Non ci soffermeremo qui su quanto già detto sapientemente da altri. Che l’attesa rappresenti il filo rosso del romanzo, è ben noto. Che nell’attesa si ricerchi la realizzazione, prima o poi, di un evento grandioso, capace di riscattare il protagonista e di liberarlo così dalla stretta della mediocrità esistenziale, è stato più volte sottolineato.
Altrettanto bene si è capita la vanità di tale attesa, che porta a qualcosa che ci appare sempre più vicino ma che non si manifesterà mai, un’attesa che ci consuma per l’intero corso della vita e che sfocia nella constatazione di un’esistenza nulla. Scriveva Dino Buzzati all’amico Arturo Brambilla: «Passo un periodo in cui non faccio nulla, in cui vedo passare miserevolmente la vita, […] m’accorgo […] che davanti a me s’apre l’aurea porta della mediocrità, per sempre. […] E così continuerò a parlare di me, a disprezzare gli altri, a sperare in una gloria eternamente futura» (5 aprile 1926)[1].
Un’attesa che in Il deserto dei Tartari trova rivincita in qualcosa di assai poco consolatorio: la morte, tema cardine di tutta la poetica buzzatiana. È in questa, infatti, nella morte, che troverà riscatto il tenente Angustina nella spedizione tra le montagne per la delimitazione del confine. La dignità, l’orgoglio, l’onore si racchiudono tutti nella nobile eleganza con cui Angustina, trafitto dal gelo, pone fine alla patologica attesa. D’altronde, «anche la morte in quei posti sembra meno crudele e repellente»[2], scriveva Buzzati in riferimento alle montagne, nel settembre 1946. E nella divinizzazione patetica della figura di Angustina, compare nel suo viso un segnale di accondiscendenza e di appagamento: «Un sottile sorriso si formò lentamente sulle labbra intorpidite dal gelo». Lo stesso sorriso con cui Giovanni Drogo, alla fine del romanzo, accetta serenamente l’approdo della vita, avvolto dalla solitudine di una locanda straniera, sconfiggendo la paura della morte e guadagnandosi un posto nel codice metafisico degli eroi caduti.
Eppure, al lettore non rimane altro che una percezione di amaro e di tristezza. L’ingiusta sorte di Drogo vince su qualsiasi senso di riscatto esistenziale. E non ha importanza alcuna che gli altri della Fortezza vedano finalmente realizzarsi il proprio sogno, pronti a fronteggiare i Tartari, il cui arrivo pareva ormai leggenda. Non ha importanza alcuna perché è Drogo a rimanere in primo piano, è Drogo a rappresentare l’uomo universale, è Drogo a simboleggiare la pietosa sorte che ci accomuna. Tutto ciò che aleggia all’esterno (la gioia dell’uomo di città che si accontenta di cose comuni e il riscatto eroico di chi rimane alla Fortezza a combattere il nemico) non ha altra funzione se non quella di rendere ancor più insopportabile e struggente la fine del protagonista. Il baleno di un attimo sarebbe bastato a far fuggire Drogo dal vortice della Fortezza, quando ancora giovane aveva tutta la vita avanti. E sempre un baleno sarebbe bastato per permettergli di partecipare a quella battaglia che era diventata la sua unica ragione di vita. Quel che rimane è un profondo senso di ingiustizia al quale ci sottopone la vita, sfuggevole a ogni legge divina; per Drogo, per via di «un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto».
Ebbene, non è su questo, ossia sulla vana e misera attesa dell’uomo, che intendiamo concentrarci, quanto piuttosto sull’apprensione che si accosta a tale attesa. Un sentimento profondamente umano, dunque, che spesso si manifesta in noi con sottigliezza, lasciandoci solo un presentimento. Si tratta dell’ansiosa e angosciante inquietudine che accompagna Drogo e i vari personaggi nella loro, e dunque nella nostra, eterna attesa. A questa apprensione si fa continua allusione – sin dalle prime pagine – attraverso una ricorrenza quasi ossessiva di certi termini, che contribuiscono a creare un’atmosfera di immobile e oppressiva angoscia; un’angoscia che pervade l’ambiente e si insinua sottile nelle pagine del romanzo. Questo stato d’ansia è più forte quando indefinito, strano, incerto, misterioso, quando non se ne conosce la vera origine o ancora quando ad annunciarlo sono piccoli elementi sensibili della realtà, come un’ombra, un suono sinistro, un presentimento. Ed ecco quindi che Buzzati costruisce l’intero romanzo attorno alla sfera semantica dell’inquietudine, come vedremo.
Drogo diventa finalmente ufficiale, è pronto a partire e a iniziare una vita di indipendenza, eppure si dice che «su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno». Nulla viene determinato, ma solo ipoteticamente presagito. Qualcosa sta per accadere, qualcosa di ineluttabile e catastrofico, qualcosa da cui non si torna indietro. Nel capitolo quindicesimo, il capitolo di Angustina, si dirà: «Piccoli corvi volavano lungo gli aerei spigoli emettendo strida, parevano chiamarsi l’un l’altro per pericoli imminenti» (la sensazione che qualcosa di apocalittico stia per avvenire è resa bene, anzi in modo magistrale, nel racconto Qualcosa era successo).
Drogo si sta dunque preparando al viaggio, accompagnato da questo strano presentimento; infatti, nonostante poco dopo non accada nulla, si dice: «Drogo riprese il cammino e avvertiva una sottile inquietudine man mano che il pomeriggio avanzava». Un uomo sconosciuto, poi, appare dall’ombra. Nel capitolo secondo «si scorge qualcosa che si muoveva», ma cosa? E quanto deve durare il soggiorno di Drogo alla Fortezza? «Per due anni, dico, farà il solito turno di due anni lei, non è vero?» gli chiede il capitano Ortiz. «Due anni? non so, il periodo non mi è stato detto». Eccola anche qui, la maliziosa reticenza. «Si sentiva estraneo a quel mondo, a quella solitudine, a quelle montagne». E poco dopo: «Drogo taceva, con addosso un’improvvisa oppressione». Povero Giovanni: «Tutta la sicurezza in sé gli era venuta a mancare». Sopraggiunge poi «una densa nube» e appaiono le sentinelle che «camminavano su e giù come due automi». Ma ecco che finalmente Drogo raggiunge la Fortezza e fa le prime conoscenze. Gli vengono date alcune spiegazioni ma Drogo le ascolta appena, «attratto stranamente dal riquadro della finestra […]. Il vago sentimento che non riusciva a decifrare gli si insinuava nell’animo; forse una cosa stupida e assurda, una suggestione senza costrutto». Proprio lì, da quella fessura nel muro, proverrà la fonte delle speranze del protagonista. Gli descrivono poi ciò che c’è al di là della Fortezza, il maestoso deserto dei Tartari, che sarà definito come una «desolata pianura, priva di senso e misteriosa». Drogo si mostra interessato, ma «una insolita inquietudine tremava nella sua voce». Alcuni dicono di aver visto ciascuno qualcosa di diverso, chi «torri bianche», chi un «vulcano che fuma», chi una «lunga macchia nera». Chi ha ragione? Cosa è vero e cosa è falso? Forse sono tutte favole? Poi il suono di una tromba, proveniente «chissà da dove». Ammoniscono Giovanni, ma questi è «intento a cercare qualcosa fra i propri pensieri». Cosa non ci è dato sapere.
Ma non è solo la valle desolata a suscitare inquietudini nel nuovo arrivato. Drogo dovrà infatti prepararsi a una notte infastidita da un rumore lieve ma che nella vastità del silenzio domina ogni altro suono. Un rumore «da sotterranei, da acquitrini, da case morte». Eccolo che sopraggiunge con un «“ploc” d’acqua», poi un secondo «ploc» ancora, ed eccolo infine una terza volta, dopo qualche minuto, «l’odioso suono». Un rumore notturno dunque, quando tutti dormono, prima indefinito e poi rivelato, ripetitivo e monotono, che ricorda per certi aspetti il racconto Una goccia. Drogo, nella veglia notturna, è ora «tormentato da sinistri pensieri». Ed ecco il nuovo presagio: «Se avesse dovuto rimanere lassù per anni e anni, e in quella stanza, su quel solitario letto, si fosse dovuta consumare la giovinezza?». Nel lettore viene però lasciato il dubbio, l’indefinitezza: «Che ipotesi assurde». Eppure, «gli pareva di sentire crescere attorno una oscura trama che cercasse di trattenerlo». Si fa cenno poi a una «forza sconosciuta». E ancora (siamo al capitolo sesto ormai) compaiono «oscuri timori»; più avanti poi la conoscenza di Prosdocimo, che ci tiene a sottolineare che il suo confinamento quassù, alla Fortezza, è «in via as-so-lu-ta-men-te provvisoria», così come Giuseppe Corte nel racconto Sette piani ci tiene a specificare ai medici che se lui si trova a uno dei piani inferiori dell’edificio, dove si trovano casi più gravi di ammalati, ebbene se lui si trova là è solo in via del tutto eccezionale, e non certo perché la sua patologia, col tempo, si è davvero aggravata. E anche Giovanni Corte, infatti, scandisce le parole, anzi, persino lo stesso avverbio («as-so-lu-ta-men-te»), forse per ingannare sé stesso nascondendo il suo oscuro sentimento. Sceso al secondo piano (dedicato ai malati gravissimi), per motivi contingenti (così vogliono far credere i medici), Corte ci tiene a far affiggere sulla porta della sua nuova stanza un cartello che sottolinei la provvisorietà di quel soggiorno: «“Giovanni Corte, del terzo piano, di passaggio”». Ma torniamo alla Fortezza: udite le parole di Prosdocimo, gli altri ridono. Ma perché ridono? Si chiede Drogo. Perché ridono?
Siamo giunti ormai al capitolo ottavo: si parla di ritratti di antichi colonnelli «immersi nella penombra», c’è poi un sentire oscuro, un’«oscura voce», e ancora: «Questa Fortezza era per me un’ossessione». Basta, Drogo deve provvedere ad andarsene. Decide così di sentire il medico affinché gli procuri un referto falso che gli possa permettere il trasferimento. Ecco di nuovo un’eco da Sette piani: «Lei non sa, dottore, che io sono venuto qui per uno sbaglio». Ma proprio all’ultimo, proprio quando sarebbe bastato un soffio per fuggire da quell’anatema, Drogo decide di rimanere: nell’osservare il misterioso paesaggio, sente «miracolosi presagi». È qui, nella Fortezza, che dovrà compiersi il suo destino, qui dove il tempo pare congelato dalla monotonia delle azioni quotidiane, dalle mura sempre uguali, dalla vastità immobile del paesaggio. «La vita gli appariva inesauribile, ostinata illusione […] Drogo non conosceva il tempo. Anche se avesse avuto dinanzi a sé una giovinezza di cento e cento anni, come gli dei, anche questo sarebbe stata una povera cosa»; e poi: «L’esistenza di Drogo si era come fermata». Arriva a questo punto il sogno su Angustina, anticipatore della sua morte, un sogno che lascia nel protagonista «una risonanza ostinata»; gli pare infatti che ci siano «oscuri collegamenti con le cose future».
Ed ecco che ricominciano espressioni di apprensione: Drogo sente una «sorda inquietudine», della cui origine l’autore dà ben tre ipotesi diverse (riecco l’indefinito); poi qualcosa si muove là fuori, un «fatto strano e inquietante». Forse uno spirito? Chiede ironico Drogo, ma «Tronk non rispose». Dalla «valle buia» risale il «soffio della paura». Ecco cos’era: un cavallo! La sua forma è definita «strana» e la sua presenza «di significato inquietante».
Ma facciamo ora un salto: Drogo, Angustina, il capitano Monti e gli altri soldati sono in spedizione per delimitare il confine. Un boato risveglia le rocce e una frana viene giù. Ma è distante, il gruppo vede appena rotolare qualche sassolino. Un rumore tremendo, è stato; ma non è successo nulla. Compare poi una seconda allusione alla sorte di Angustina: la scalata gli risulta difficile, soprattutto con le scarpe poco adatte che ha; ma pur di non darla vinta al capitano Monti, «serrava i denti e non cedeva, sarebbe morto piuttosto». Poi una «nube», i corvi che si chiamano per imminenti pericoli, e ancora le parole del capitano, che invita Angustina a ripararsi dal vento gelido e «un’ombra di apprensione vibrava nella sua voce». Sono ammonimenti vani, i suoi. Angustina ha l’occasione preziosa di conquistare il desiderio di tutti gli altri, un’occasione che non intende sprecare. Nelle sue ultime parole, ecco di nuovo la reticenza: «Bisognerebbe domani…», e poi più nulla. In esse si racchiude l’idea di qualcosa che inizia e che, non trovando compimento, è priva di senso, simboleggiando la sorte di Drogo e degli altri soldati. Il tempo intanto passa, e gli orologi si mettono «a correre spaventosamente», ricompare un’«ansiosa attesa», e il «cielo era grigio e triste»: «tutto pareva vuoto di senso». Da tempo infatti in Drogo «un’ansia, che lui non sapeva capire, lo inseguiva senza riposo: l’impressione di non fare in tempo, che qualcosa di importante sarebbe successo e l’avrebbe colto di sorpresa». Più avanti ricompare il lessico tetro: «le ombre dei due ufficiali si proiettavano mostruose […], ondeggiando». Qualcosa poi ricompare all’orizzonte, e Drogo è «invaso da una tremenda inquietudine». C’è un «vago intontimento, simile a nebbia: […] il dolore di vedere finire miseramente la vita»; e poi concentrato tutto in una singola pagina: «casa deserta», «noia», «solitudine», «acuta tristezza», «oscuri affanni».
Ed eccoci arrivati al capitolo conclusivo, ecco accumularsi «ombre sospette», il tremendo pensiero della morte, l’avanzare del buio e di «sagome minacciose», infine «il pensiero tremendo». È pur vero che Drogo, raggiunta una vittoriosa consapevolezza che gli consenta un’esistenza sbagliata ma almeno finita bene, si sente «libero e felice», ed è pur vero che, assestandosi il colletto dell’uniforme per assumere quell’aria di compostezza e di dignità propria del tenente Angustina, «sorride». Ma in una vita sprecata non può esserci finale lieto, soprattutto se questo coincide con il sopraggiungere della morte, e qualsiasi apparente riscatto non può davvero cancellare quello struggente senso di ingiustizia e di opprimente inquietudine, quella stessa inquietudine che nel romanzo è sempre sottile, implicita, appena accennata, come un’ombra che avanza subdolamente alle nostre spalle.
Alessandro Pasini, nato nel 2001 a Napoli, ha sempre vissuto a Roma ed è uno studente di Filologia moderna presso l’Università La Sapienza. Ha scritto per alcune riviste/blog online, quali, ad esempio, Rivista Blam! e IlSupervuovo.
[1] Dino Buzzati, Lettere a Brambilla, a cura di Luciano Simonelli, Milano, De Agostini, 1985, p. 177.
[2] Ivi. p. 282