Un tempo un uomo eccezionalestipulò un patto con l’Ombra affinché questa gli coprisse sempre le spalle e lo seguisse ovunque, in modo da celare la sua identità agli occhi di tutti. Di lui non rimane che un soffio d’aria, che si insinua leggero in qualche biblioteca ammuffita, tristemente dimenticata, e si va a imprimere nelle pagine nascoste di libri rari dalle copertine completamente bianche. Tanto che, a pensarci, una vorace malinconia e un senso d’ingiustizia sembrano divorarci.
Questa la ragione per cui il suo più intimo amico di sangue e di pensieri, uno di quelli che raramente la vita ci riserva, ha dichiarato di aver provato un istinto di rabbia cocente dinanzi a questa sorte già presagita. Insieme a lui, come dice Cirano di Bergerac, avrebbe fatto un vero eroe da romanzo. Ma non aveva capito, l’amico, che lui, un eroe, non lo voleva diventare. Non aveva capito che a questo non era destinato, seppure eroe migliore non avrebbe potuto esserci. Non voleva e soprattutto non doveva diventarlo, altrimenti quel che sarebbe rimasto di lui, in un certo senso, avrebbe perso valore.
Quest’uomo si chiamava Arturo Brambilla, di natura solitaria, umile professore liceale di latino e greco, ma amato da chiunque l’avesse conosciuto, un uomo brillante che con coraggio aveva sacrificato l’illusione della felicità per una chiara messa a fuoco su un mondo che gli altri non vedevano per quel che era realmente. Ce lo testimonia il suo più intimo amico di vita, Dino Buzzati, autore del capolavoro Il deserto dei Tartari (1940), il quale lo riteneva la persona più intelligente e buona che conoscesse. E a darci conferma, poi, un esile diario pressoché sconosciuto, custodia di pensieri bellissimi, andato in stampa postumo nel 1967 e attualmente fuori commercio. Uomo brillante ho detto, è vero, ma vittima di un sentimento di profonda sfiducia verso sé stesso, come se per ogni cosa che facesse non ci fosse altra direzione che quella dell’«aurea porta della mediocrità» (così l’aveva chiamata, una volta, Buzzati). Un potenziale letterario e filosofico enorme che non si concretizzò nel pieno della sua energia, per colpa di un apparente capriccio intellettualistico.
«Una gran quantità di tempo perduta in pensieri inutili. Lunghi e faticosi ragionamenti per giungere a riscoprire l’evidenza», scriveva nel 1947. Sarà stato il suo pessimismo cosmico? Sarà stato forse il suo senso estremo di limitatezza intrinseco all’uomo? O ancora un bisogno assoluto e innato di conoscenza, che non può esser appagato se non con un’impossibile onniscienza? Una vita e una memoria umana certo non bastano. «Vivere, da un certo punto, si riduce ad accontentarsi di quel poco che si può ottenere di conoscenze e di esperienze, rinunciando per mancanza di tempo o di capacità al molto che non si può ottenere, e tuttavia sapendo quanto quello cui si rinuncia sia importante o addirittura indispensabile per una vita sensata» (1962). Lo studio, la riflessione, una particolare intelligenza e una sensibilità insolita alla condizione umana hanno portato Brambilla a una profonda delusione, sintomo di una triste consapevolezza che forse tutti abbiamo, ma che nascondiamo dietro speranze, illusioni, autoconvincimenti, distrazioni, involontari processi mentali di difesa. Nel 1960 diceva: «La realtà delle cose di solito è l’aspetto con cui le cose ci appaiono quando le guardiamo senza più desiderio o addirittura con un poco di disgusto».
Ma se Brambilla aveva capito tutto questo, perché non era, o meglio non doveva essere destinato a diventare un eroe, come tanto avrebbe voluto Buzzati? Perché non spettava a lui scrivere grandi opere? È tutto potenziale perso? No, non lo è. Anzi, così come le nostre qualità vengono più apprezzate e risultano più vere se non siamo noi a comunicarle ma se sono gli altri che, col tempo, arrivano a scoprirle una ad una, allo stesso modo le parole di Brambilla avrebbero avuto una forza dimezzata se date in pasto a menti comuni e se diffuse a ogni costo sotto la spinta di una meschina ambizione personalistica. E invece Brambilla è rimasto coerente con sé stesso, devoto a una concezione misera, malinconica e semplicemente triste della realtà. Senza volerlo e senza saperlo si è innalzato al di sopra di tutti con la sua umiltà. Rassegnato, ha riconosciuto la propria mediocrità, uguale a quella di tutti gli altri in quanto uomini, e non ha tentato un riscatto, neppure illusorio, abbandonandosi così a un’esistenza piatta, inconsistente e insensata. Ogni ragionamento, a cui pur si appiglia nel soliloquio del suo diario, alla fine dei conti appare piccolo e inutile di fronte al mistero della vita: «Difficile la fiducia nella ragione, quando si pensa che, mentre si sta discutendo, quel bambino muore nel frigorifero».
Ed è qui che assumono potenza parole che emergono dall’oscurità della dimenticanza, lette da poche anime e custodite gelosamente come preziosi tesori, parole rievocate come echi di un tempo remoto e segreto. Solo così possiamo capire che leggere Brambilla è consapevolezza. Leggere Brambilla è capovolgimento dell’animo. Leggere Brambilla è metamorfosi della realtà.
Alessandro Pasini