W. Comoglio, Qualcuno dovrà pensare ai rettili
Eris Edizioni, 2023

Il brillante giornalista Nicoli pensa di aver trovato una storia da raccontare quando legge la notizia che il sindaco di Rovellana, immaginaria città italiana, permette l’ingresso nel comune ai non residenti solo se questi sono in possesso di uno speciale pass.
Nicoli, dopo essersi procurato questo permesso con una già sospetta facilità, arriva a Rovellana per scrivere un articolo sulla strana ordinanza emanata per contrastare la criminalità. Quello che un tempo era un paese di contadini che vivevano in cascine isolate e autosufficienti è ora un triste borgo al lato di una statale, vicino alla fabbrica abbandonata che ha dato il lavoro agli abitanti nell’epoca dello sviluppo industriale e che è stata l’ultimo motivo di aggregazione dei rovellanesi. Nicoli è sicuro di conoscere le ragioni xenofobe che hanno spinto la chiusa e misera comunità a un provvedimento tanto estremo.
Come afferma lo stesso sindaco:
«I sogni dei rovellanesi erano prima sogni contadini, poi sono divenuti sogni operai. Loro appartenevano a quel mondo e sognavano di quel mondo. Mi sono spiegato?»
E aggiunge che ora:
«I rovellanesi non sono più nulla. Quali sono i loro sogni? I loro sogni sono adattamenti di sogni lontani che non appartengono a nessuno di qui»
È solo quando il primo cittadino conferma l’ipotesi di Nicoli, rivelando anzi spontaneamente che i furti che i cittadini sembrano tanto temere sono stati simulati da lui stesso, che il giornalista comincia a sospettare che le cose non siano affatto semplici come credeva. La creazione a tavolino di un nemico comune da parte dell’uomo di potere dovrebbe essere un tabù, a meno che, pensa il giornalista, questa spiegazione non serva a nascondere altro ancora. Nicoli si rende ben presto conto del fatto che nel comportamento degli abitanti c’è qualcosa che non va, che alcune aree della città gli sono tacitamente interdette e che ovunque vada c’è qualcuno che lo segue. E che pensare di quel taciturno medico, dei troppi campi da tennis, dei fili spinati, delle strane preoccupazioni della moglie del sindaco?
Qualcuno dovrà pensare ai rettili, narrato in prima persona dal protagonista, inizia come il reportage giornalistico di un fatto di cronaca inventato da Walter Comoglio, ma ben presto la tensione e il mistero volontariamente ignorati dall’incredulo Nicoli prendono il sopravvento sul lettore e lo trascinano in un’atmosfera horror verso un finale surreale, inquietante quanto grottesco. Questo racconto piacerà agli amanti del brivido, ma chi invece non ama le storie del terrore può star certo che la suspense generata non è preludio di macabri fatti di sangue né di apparizioni spettrali. In effetti lo scopo dello scrittore sembra quello di rendere coinvolgente al livello emotivo una riflessione che forse nell’attualità è divenuta banale senza essere stata del tutto compresa.
Il titolo, che forse gioca con la leggenda metropolitana dei rettiliani, fa in realtà secondo me riferimento a quella parte ancestrale del nostro cervello che si dice essere la fonte dei nostri istinti aggressivi, della nostra paura dell’Altro e dell’ignoto, elementi così fondamentale, ere geologiche fa, per la nostra sopravvivenza. E il cervello rettiliano, sembra spiegarci Comoglio, se autorizzato a prendere il sopravvento richiede una soddisfazione immediata ed è in grado di restituire il senso della vita a chi l’ha perso, ma a costo del sacrificio dell’identità personale, della volontà e della stessa natura umana.
La sorpresa di ritrovare una volta tanto un racconto dell’orrore psicologico e moderno ambientato nel familiare abbandono di certi piccoli comuni italiani, nonché i continui riferimenti alla stampa e al mondo dell’informazione a cui è legato per il suo mestiere il protagonista, fanno in prima battuta supporre un intento soprattutto politico del racconto, ma la verità è che il problema analizzato va ben oltre la sfera pubblica. In una prospettiva più intimistica questo romanzo riflette sull’essenza animale della felicità, una felicità immediata, fatta di rabbia, di sangue e di adrenalina ma anche di cibo e di vino, spirito di squadra e competizione, una felicità sconosciuta all’essere umano forse troppo razionale e longevo del ventunesimo secolo, una felicità che non si ritrova andando in psicoterapia, una felicità che però non si preoccupa di essere malsana, insensata e maledetta.
Cecilia Cerasaro