Racconto di Natale

Ci eravamo incrociati per settimane, per mesi, negli angoli più disparati della città: al bar, alle poste, aspettando un bonifico che non arrivava mai. Ci sorridevamo così, quasi per sbaglio, diventando una presenza fissa nelle attese reciproche di una vita grigia, stanca, come la nebbia che si posa sui camini spenti e mai più accesi di Milano il giorno prima della Viglia di Natale.

E poi, il nulla; gli incroci ad angoli di vie affollate diminuirono, goccia dopo goccia, fino a creare un canyon lungo migliaia di chilometri, largo troppi amori sbagliati e desideri avverati a metà. Tanti anni dopo ci incontrammo di nuovo, come se fosse per la prima volta, allo stesso angolo sbagliato della nostra post-adolescenze, fatta di brufoli non sempre scomparsi. Un sorriso.

– Come stai?

Iniziammo a parlare; a scoprire eventi, drammi, sogni, risate che fino a un attimo prima erano stati solo immaginati. Le nostre vite si erano complicate molto dall’ultimo incontro al supermercato. Il pomeriggio passò in fretta, nemmeno ci presentammo. I nomi non erano troppo importanti, e come potevano esserlo: come si può ridurre un sorriso che durava da 15 anni a un semplice nome di battesimo?

Decidemmo di vederci la sera successiva, davanti a un locale, si trovava dove un tempo sorgeva un piccolo ristorantino laziale, famoso più per le blatte che fungevano da osti che non per la carbonara. Parlammo tanto, sottovoce: ascoltammo le nostre paturnie, storie di voglie di paternità mai espresse e di corsi di cucina un po’ vuoti a perdere perché la cucina è un’arte e non tutti sono artisti.

Ordinammo del vino. Rosso. Era caldo, avvolgente: le sue labbra lo bevvero ardentemente, macchiandosi di quella passione millenaria per l’etanolo.  Risi tanto, scherzando della timidezza del cameriere, fino a lasciarmi andare a quelle mani fredde di chi ha chiuso il mondo fuori. Roxanne in sottofondo.

– Ti va di ballare?

Non avevo mai ballato il tango, anche se avevo sempre desiderato farlo; mi sono sempre detto che ero un pezzo di legno per ballare: al massimo la macarena alla sagra di fine agosto, sudato e vestito troppo per una notte afosa del Sud Italia. Mi prese e mi trascinò in pista, eravamo rimasti da soli su quel parquet fatto per danzatori molto più esperti di noi.

Le note ci accompagnarono; lui mi accompagnò. La sua mano mi strinse il fianco, entrandomi quasi dentro e strappare la mia anima dalla camicia. I miei piedi iniziarono a scivolare per la sala, come se Roberto Bolle all’improvviso si fosse impossessato di me. Non mi lasciava mai; i suoi occhi erano fissi nei miei, scuri come l’oblio del passato.

– Scusami – disse all’improvviso, andando via.

Rimasi solo, a ricevere gli applausi di mezza sala, affascinata da due uomini tangueri. L’altra metà gridava allo scandalo. Ma cos’è il tango, se non uno scandalo nell’alveo dell’ordinario?

Era fuori, nell’unico spazio che il lampione sulla strada non illuminava; se non fosse stato per il suo respiro, sarebbe rimasto invisibile, inudibile.

– Andiamo via. Ti prego.

Scappammo a casa sua, lontano da urla scioccate e sguardi imperterriti. Non ci eravamo mai conosciuti davvero, a parte quella sera a base di carne al sangue, sangue come il suo che scoppiava dalle tempie, che scorreva veloce, come i suoi occhi, che volevano vedere la bellezza di un corpo oscurato da mille incertezze.

Le mie mani scorrevano rapide su quel corpo, pronte a sollevare lui e le sue paure, portandolo via da quel mondo così ottuso, freddo. Le sue labbra, carnose, morbide, si scagliarono su di me, sul collo pronto ad accoglierle, come il grembo di una madre col suo primogenito. Abbiamo fatto l’amore a lungo, in quelle lenzuola graffiate e riscaldate dai nostri respiri affannati.

Fuori pioveva. Dentro albeggiava.

– Il vostro telegiornale vi dà il buongiorno. Sono le 06:50 del 25 Dicembre.

L’altra parte del letto era intatta, come in ogni notte d’amore.

Squillò il telefono. Un trillo di WhatsApp. Era davvero lui. Allora non era stato un sogno: avevamo fatto davvero l’amore. Sembrava passato un secolo eppure ci eravamo lasciati solo pochi giorni prima. Ci eravamo amati in maniera diversa prima di quel calice di vino, di quelle risate: avevamo entrambi amato nelle attese agli sportelli, condividendo la noia, la rabbia per la cassa improvvisamente chiusa e l’empatia verso gli anziani che prelevavano gli ultimi spicci da dare ai loro nipoti.

– Rivediamoci. Stasera. Hotel polo nautico, camera due, ore 17.

La giornata passò lentamente: mettere a posto casa, come se significasse ordinare la vita, fare la spesa (cibi leggeri: non volevo appesantirmi prima di vederlo), pagare le bollette e registrare le ultime novità sui social. Ma non il nostro incontro. Doveva essere solo nostro. Era come se fosse la prima volta. Ogni volta, in realtà è la prima, e non perché si cambia partner, ora e luogo della nudità ma perché ogni volta che si fa l’amore ci si lascia in maniera diversa, completa, pieni l’uno dell’altro.

Avrei voluto che venisse a casa mia e rendere lui totalmente padrone di quelle stanze; ero stanco di dovermi nascondere eppure accettavo quel compromesso: significava poter stare con lui, mi bastavano cinque minuti. Il tempo non scorreva tra le sue braccia, immerso nel suo profumo.

Non ero mai stato in un albergo per compire l’atto più naturale del mondo: in auto, in spiaggia, in un bagno pubblico e persino in ascensore ma l’albergo era sempre stato un tabù. Mi sembrava squallido persino per un amplesso rubato alla pausa pranzo, ma con lui era diverso; accettai senza batter ciglio, anzi, non gli avevo nemmeno risposto. Sapevamo entrambi sarebbe stato un sì.

Arrivai alla reception. Era rosso dall’imbarazzo. Consegnò i documenti di identità e si avviò in camera. Lo trovai davanti alla porta in preda al panico e alla rabbia perché non sapeva infilare la chiave nella serratura. Era buffo mentre gli scivolavano gli occhiali dal naso per il sudore. Era buffo sempre e non lo sapeva.

– Lascia faccio io. Impedito pure con le serrature!

Entrò. Chiuse la porta. Non mi diede il tempo di togliermi il cappotto, o di accendere la luce, che mi baciò. E fu quello il primo bacio: intenso, atteso, sospirato, caldo. Ci ritrovammo a letto senza staccarci e ridemmo, risi tanto, di gusto e d’amore. La risata d’amore è aperta, fragorosa, a tratti indecente. Tra le mie braccia si lasciò andare nonostante fuori da quelle mura dovessimo essere due estranei, nonostante sulla fattura di quell’albergo non ci fossero entrambi i nomi.

Questo però non importava perché tra quelle lenzuola c’erano i nostri corpi, le nostre menti, i nostri cuori. E ci amammo alla follia, come nessuno di noi aveva già provato con altri; stavamo imparando a navigare l’uno sul corpo dell’altro, ad apprezzarne gli incavi, i peli della barba e quella catenina al suo collo che gli dava fastidio ma era perfetta così. Come lui, come solo lui poteva essere, come nessun altro.

All’improvviso, però, mi resi conto che ero io e solo io a spingere sull’acceleratore, a pensare alla porta chiusa dietro di noi una volta vestiti, all’odore del corpo dell’altro che pian piano svaniva e si colorava di tinte scure, come di un film bianco e nero in cui però le emozioni diventano superbamente a colori.

Si era fatto tardi, lo sapevano entrambi ma sembravamo indissolubili: le pelli erano mischiate l’una con l’altra, in una specie di panino esotico uscito dal film “Il silenzio degli innocenti”. La catenina gli incorniciava un sorriso a metà, imbarazzato perché era nudo, ma orgoglioso perché sapeva di essere bellissimo, (eccome se lo era).

Combattevo tra il desiderio di non farlo tornare da chi lo stava aspettando e la voglia di spingerlo a rinnovare quell’amore che si sarebbe dovuto consumare tra quelle pareti ma invece lì era nato e rimaneva acceso.

Ci rivestimmo. Amanti tra quelle lenzuola ed amati a distanza fuori. Aveva alla mano destra, all’anulare, un anello di metallo puntinato, un vero capolavoro dei banchetti di cartone sulla strada. Glielo rubai.

– Come io sarò pieno perché avrò te addosso, tu sarai vuoto e penserai a me.

Andai via da solo, non aspettandolo all’ingresso. Mi avrebbe fatto troppo male vederlo al cellulare con qualcun altro. Sapere che sarebbe tornato a casa da qualcuno mi mortificava troppo. Volevo prendesse una decisione perché volevo vederlo felice, nonostante tutto. Perché l’amore per me significava soprattutto lasciare andar via, anche se siamo porti sicuri cui tornare.

Sarebbe stato facile per me lasciare quel gingillo scadente alla reception ma mi rifiutai: volevo assaporare a lungo quel senso di pienezza che mi dava il suo corpo poggiato al mio. Volevo la prova tangibile del suo passaggio nella mia vita.

Era passato un anno da quella pienezza indisturbata dal chiacchiericcio della gente. Tante cose erano successe, tanti errori erano stati commessi e la geografia aveva di nuovo messo lo zampino nella nostra vita, mettendo tra me e l’ex proprietario di anelli tanti chilometri quanti non ne avrei mai voluti. Col tempo le emozioni cambiarono connotati, diventando quasi abitudini, voglie camuffate da preoccupazioni e agende confrontate nel vano tentativo di creare un qualcosa che andasse oltre a quella camera d’albergo, oltre a quella notte.

Durante quelle ore in cui il mondo davvero sembrava non esistere più, gli avevo promesso di restare, di non interessarsi a ciò che questo comportava. Ero così fiero di quella promessa di stabilità e lealtà che mi stupiva quando giorno dopo giorno ancora la mantenessi. Poi la doccia fredda.

Dopo quel Natale, ebbi infatti la possibilità di lavorare all’estero: curavo la rubrica di Storia di un famoso mensile internazionale e il tema della mia dodicesima rubrica era “Da Cleopatra a D’Annunzio: l’amore e la passione durante i secoli”.

Comparve all’improvviso, dai ricordi di un me studente pieno di brufoli, una lezione su Aristotele che avevo distrattamente ascoltato al liceo anni prima: la storia è un ordine casuale di fatti, uniti dal filo invisibile della menzogna.

Mi resi conto che la nostra storia era identica a quella descritta dal filosofo: una serie di fatti bellissimi ma sconnessi tra loro erano stati uniti da un filo rosso di bugie nate per caso, senza che nessuno dei due volesse davvero mentire.

La menzogna nella vita reale è un po’ come una coperta messa di traverso: non ti copre mai i piedi. La mia coperta di Linus poteva ridursi a due frasi, dette da lui in momenti diversi:

“Non diamoci etichette” come a mettere in chiaro il mio mancato diritto ad avere pretese emotive nei suoi confronti e “Noi siamo amici”, barlume lieve di una speranza destinata a crollare.

Due frasi sconnesse: da un lato un richiamo feroce a una realtà, la sua. di uomo volitivo e che sembrava non riguardarmi, dall’altro il mio sogno destinato ad infrangersi.  

Si scopre così la menzogna, che miseramente crolla: fatti prima uniti come nella più romantiche delle telenovelas di quart’ordine diventano semplicemente eventi accaduti a due persone.

Se le bugie avevano retto la trafila di emozioni che avevo provato, aveva senso restare ed aspettare?

Mi venne in mente una strana risposta; la definizione di “testimone” della Arendt, donna profondamente innamorata e per questo malinconica: il testimone è colui che non è coinvolto nell’azione ma la contempla, assumendo di volta in volta un profilo estraneo o attivo all’interno dell’azione stessa per la comprensione del punto di vista altrui.

Mi accorsi che a lui non interessava applaudire alla fine dello show ma che voleva essere protagonista e allo stesso tempo costumista: dentro, dentro e un po’ fuori, per essere testimone ancora una volta e però modificare il corso degli eventi. In fondo quegli avvenimenti non avevano catarsi, non avevano alcun tipo di finale se non quello già scritto, con cui mi sarei ritrovato a dover fare, alla fine, i conti.

Indossavo ancora quell’anello, simbolo di tutto quello che era stato, chiedendomene il motivo. Ricordare la pienezza della sua assenza. Spesso infatti, l’assenza ti assicura una vicinanza che la presenza non ti dà. Resistevo, aspettavo e speravo e combattevo per vincere una lotta che sapevo persa in partenza. E se l’amore non è una battaglia, allora restare quale accezione aveva? Guardavo l’anello e attendevo, invocando risposte.

Aspettavo, pazientemente, mettendomi al lato della mia stessa vita. In fondo siamo un po’ tutti l’altra donna: paziente accanto alla cornetta, comparsa nelle soap, antagonista occasionale di passati ingombranti. Ma siamo anche in ricerca continua del ruolo da assoluta protagonista. E l’amore è il film candidato agli Oscar con la vittoria in tasca: ad un passo. E allora ci prepariamo alla maratona, nonostante tutto.

Il tempo passava, le emozioni cambiavano aspetto, come un blocco d’argilla lavorato al tornio: la percezione degli altri, le tentazioni che prima erano dettagli superflui della vita diventano all’improvviso problemi da gestire, muri che sembrano insormontabili. 

Era nata la peggior paura che ci possa essere in una coppia: quella che l’altro vada via. Non importano infatti le rassicurazioni, i gesti di affetto spropositato, parole dolci buttate a caso come quando fai un frullato dai mille gusti, perché alla fine saprà sempre di fragola: un sapore persistente, acidulo e che non vorresti mai sentire troppo, anche se ti piace da impazzire.


Roberto Della Rovere, classe 1990, originario di un paesino del Cilento ma trapiantato a Milano per gli studi universitari di Interpretariato. Attualmente vive tra Milano e Madrid, dove si sposta per lavoro. La passione per la scrittura è nata leggendo i romanzi d’amore della mamma durante le lezioni di nuoto, quando era piccino.

Redazione

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