Andrea Pinto e il descensus ad inferos generazionale

Andrea Pinto, Senza titolo, tempo, senso e soluzione
Nulla Die, 2019

Chi, come me, è nato in Italia – nel Sud – a ridosso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, non può non sentire come propri e particolarmente drammatici i versi che Andrea Pinto, giovane musicista e poeta avellinese, ha raccolto nel libro Senza titolo, tempo, senso e soluzione, edito da Nulla Die nel 2019 – in età, dunque, antepandemica. La lettura dei componimenti, che nelle pagine del volumetto si alternano appunto senza soluzioni di continuità, né partizioni di tipo metrico o tematico, si mostra apparentemente “facile” e induce subito chi legge ad abbandonarvisi inerme. La stessa musicalità di una versificazione che a tratti può ricordare le lunghe strofe di Vittorio Sereni contribuisce all’idea di un canto, per così dire, spontaneo, o comunque non eccessivamente chiuso o mediato dalla tradizione. Tanto più sconcertante risulta quindi, fin dai primissimi versi, lo scenario che di colpo si apre al lettore, o che meglio gli si spalanca – letteralmente – sotto ai piedi, perché è di una voragine che si tratta, più che di un’aperta linea d’orizzonte.

Il descensus ad inferos che il poeta ci chiama a intraprendere insieme con lui, infatti, conduce diritto nei penetrali di un abisso interiore che non mina soltanto l’autore, ma coinvolge irrimediabilmente e consuma la sua intera generazione, che è anche la mia. Chi infatti, come Andrea, è nato in Italia – nel Sud – durante l’ultimo ventennio del Novecento, ha assistito in prima persona (e, soprattutto, sulla sua pelle) alla peggiore delle crisi, consistente nella progressiva e inarrestabile destrutturazione del sistema socio-economico e democratico del proprio paese, per la quale non si è potuto né si può attualmente trovare, malauguratamente, un rimedio che ne impedisca la triste prosecuzione nel futuro prossimo e remoto. È la dura e disperata condanna a un disfacimento senza fine che coinvolge universalmente la vita degli italiani (soltanto?) della generazione Y e che unicamente gli espedienti – al ribasso – dell’emigrazione o della rinuncia (I nostri amici partono, / lasciandoci soli) riescono, minimamente, a controbilanciare e a compensare. Se la mia interpretazione è lecita si tratta, di fatto, di una tematica sempre presente, insistente, benché sottesa e di fatto mai esplicitata nella scrittura di Pinto:

Perché tutto questo?
Ritorneremo alle origini un giorno?
Riposeremo le nostre spalle su una nuvola dorata?
Enigma…
Comunque credo che continueremo a bruciare
ovunque saremo mai catapultati.

A quanto considerato è da aggiungersi il fatto che il senso di smarrimento, impotenza e frustrazione a cui noi cosiddetti millennials siamo chiamati a convivere quotidianamente è acuito ancor più ed esacerbato dal costante e annichilente confronto col grande successo dei padri, che promuove definitivamente l’autoidentificazione dei figli in quanto scarti di un’irripetibile età dell’oro, in quanto residui sopravvissuti in un mondo che rovescia specularmente il mito di un passato davvero troppo condizionante e talvolta opprimente:

Questo e altro ancora c’inaridisce sempre più…
Siamo piante secche, cactus di nuova generazione,
MUTAMENTI GENETICI CONDIZIONATI,
Le rimembranze di un passato ormai lontano
Lo STIVALE ROTTO di un GIGANTE POTENTE.

Non a caso, i componimenti dell’autore avellinese scaraventano il lettore in un cosmo assieme distopico e dispotico, che ricorda dappresso l’oscuro pannello infernale del famoso trittico di Hieronymus Bosch, facente seguito (anch’esso) al sogno di un Eden andato perduto nel vizio. È l’Aldilà che dà il titolo alla prima poesia della raccolta, in cui è tratteggiata la deserta geografia di una terra maledetta, una Wasteland di eliotiana memoria, moltiplicata all’infinito dal doppio specchio di un lago di bronzo e del disco lunare, e dove la neve e il gelo si alternano ad altri laghi fuoco. Ma l’universo di Pinto è abitato da figure cangianti, angeli, lucciole, aquile (benché senz’ali), foglie, incendiate dal marciume della morte, esseri instabili e indefiniti, errabondi fantasmi privati di un loro ubi consistam, larve, letteralmente anime in pena. E assieme alle sue creature, che in certo modo tendono a rifletterne il tormento interiore, anche il poeta rimane sospeso sul filo di un’incerta frontiera, tra l’incubo e il risveglio (come in L’acida rugiada o in Senso, dove il confine si fa strofico ed è segnato dai versi monosillabici ma…, e, ecc.) ma anche tra passato e presente, essendo il futuro precluso alla prospettiva dal velo di una foschia impenetrabile.

A tratti, l’ampiezza degli spazi e l’enigmaticità di alcuni dettagli, come i numerali, contribuiscono a un tono che in certe pericopi tende al vaticinio o, meglio, all’apocalisse:

Novembre di passione
bagnato di stupore
vede il cielo bruno
e ventidue teschi ammuffiti
Dagli occhi scorrono dieci lacrime
che diventano stalattiti
Le nuvole volteggiano intorno al cuore
I passeri cantano senza ardore.

Ma la Geenna che circoscrive tutto l’universo dell’autore è semplicemente, a ben vedere, la facies del Simbolico. È, in superficie, il linguaggio di‑Pinto di un Reale (malcelato) che vi si nasconde disotto e che resta perciò tabuisticamente interdetto, inconoscibile: l’infernum inferius della Verità (una verità altra, che si scava nel fondo):

Moriamo ogni giorno dentro la verità…
La verità è orrore – Dio come vorrei non capire!
Il rifiuto del silenzio ne crea uno più grande
e la paura annega nel sangue infetto dell’angoscia
Ho scavato più volte nella terra e ho trovato solo verità…

L’arido vero del punto morto, di una vita inchiodata e prigioniera di sé elicita così la reazione uguale e contraria di un cupio dissolvi: «Vorrei tanto annegare nei miei ricordi / e confondermi nelle acque cristalline, / perché qui sto male, molto male…». Allo stesso modo, l’urgenza della fuga da un sole che non scalda, ma che anzi acceca con i suoi raggi malati, si declina nel sogno di un viaggio «nei bagliori di un deserto statico. / Terre arabiche, isole greche, fiordi nordici / mi nascondono e mi allontanano / dal triste nulla», o ancora si realizza in un’esistenza vampiresca, votata alla dimensione notturna: «Sono un Vampiro, un cantore della notte e dell’oscurità / Un viaggiatore notturno che esplora la sua mente / e si lascia guidare dai raggi lunari». Ai temi fin qui esposti s’intreccia però inestricabilmente, e per tutta l’estensione della raccolta, il motivo di una spinosa relazione, foriera di un dolore che diventa, tuttavia, l’ulteriore diversivo alla condizione di un’esistenza di fatto irrisolta e in cui la voce poetica sembra insistere a indugiare, abulicamente, stancamente. L’altro del rapporto è dunque un’altra sirenica, è un’Afrodite che imprigiona la voce poetica sotto un cielo, giustappunto, venusiano, da cui può riversarsi soltanto, sul volto ustionato del poeta, un’amara pioggia solforica:

Il silenzio del mondo
Ci affoga nella cenere
E silenti piogge
Mi bruciano il viso
Con l’acido del tuo respiro…

Nel deserto cosmico dell’incompiuto non c’è spazio per amori finalmente realizzati, per relazioni pienamente felici (= feconde), perché tutto è sospeso nell’universo acquitrinoso che dà il titolo a una delle liriche più ficcanti e riuscite dell’intera raccolta: La palude, in cui il presente immobile di un’inerzia stagnante è popolato da forme sinuose e splendenti, da orpelli di diamanti e di perle sotto cui si nasconde la peggiore delle sporcizie… È il triste tempo dell’io, cioè, a cui nessun valore positivo che non sia illusorio o transeunte può realmente essere opposto, a cui soltanto ci si può abbandonare nell’eterna ciclotimia delusione-speranza-delusione. Lo stesso tema ritorna incessante:

Falce, sorrisi e fantasmi
Non legano bene
Al mattino, il sole è già trafitto dal peccato
Gli sguardi si disperdono
Nei vetri d’un volgare nulla…
Grattacieli sfolgoranti di luce opaca,
Latrine decongestionate,
Metaboliche indiscusse dottrine,
La legge del potere
Sono solo il riflesso di quest’era
In cui è tutto bello e luminoso, eccetto la nostra anima.

Sopraggiunge, allora, la sensazione nettissima di trovarsi, noi tutti, prigionieri di un vetro, come immagini riflesse e chiuse nel perimetro di uno specchio (come ne Il fungo), sembianti o fantasmi non-vivi a cui la vita è un incubo, un’immagine mostruosa da dimenticare, e nella cui esistenza si determina il passaggio fatidico di una catena evolutiva (involutiva) dall’umanità alla disumanità:

Umanoidi dai volti ghiacciati
regaleranno alla terra i loro ricordi umani
mentre respiri alieni soffocheranno l’erba
e ci marcheranno col soffio del cianuro

Tra i due poli del decadimento si colloca perciò la voce di Andrea Pinto, la cui cifra poetica credo possa essere “felicemente” compendiata nella formula di una entropia esistenziale – o di un esistenzialismo dell’entropia – lucidamente e allucinatamente descritta nella perfetta metafora di un vortice inattivo (in Silenziosamente umani): «in un eterno divenire incompiuto / Affolliamo le finestre del tempo / con le nostre ambizioni», che ci portano, come in una colonna di ciechi, ad avanzare verso il nulla. Alle dolorose istanze sollevate dal materiale magmatico del poeta, quindi, può sicuramente andare tutta la compartecipata attenzione e la profonda comprensione non soltanto di un lettore che, come me, ne è colto in prima persona, ma pure di un’intera generazione, che è la nostra, “la presente e viva”. E se al verseggiatore potrà essere casomai rimproverato il punto debole di una scrittura poetica eccessivamente disinvolta e davvero assai poco elaborata (poco lavorata, cioè, sul versante eminentemente formale), l’urgenza dolorosa della sostanza lavica che così copiosamente straripa dalle pagine di Senza titolo, tempo, senso e soluzione motiva appieno lo scarso impegno di lima da parte dell’autore. D’altronde, il titolo stesso della silloge – che altro non è, a ben vedere, se non la definizione della vita di un’intera generazione – dimostra, coerentemente, l’impossibilità di dare forma alla materia laddove è proprio di ogni forma che si vuole denunciare la mancanza. A una lettura complessiva, pertanto, i componimenti si susseguono senza schemi fissi ricorrenti, ma con una grandissima abbondanza di immagini e, soprattutto, di andature e refrains che faciliterebbero, peraltro, la musicazione eventuale e auspicabile dell’intera raccolta.

Andrea Macciò

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