Il senso della Moore per la tenerezza

Il peso, Liz Moore (trad. Ada Arduini)
NN, 2022

Fra i libri letti alla fine dell’estate, “Il peso” di Liz Moore, edito da NN editore con traduzione di Ada Arduini e prefazione di Andrea Donaera, è quello che più di tutti ha continuato a tornarmi in mente anche dopo averne terminato lettura. Già mentre lo riponevo sullo scaffale il gesto mi è parso manchevole di qualcosa; ho sentito la necessità di un’ulteriore riflessione, il bisogno di confrontarlo con altre storie, anche reali, che per lavoro mi capita di ascoltare ogni giorno. Storie sul peso, sul corpo e sul dolore, cose che spesso coincidono.

“Il peso” è un romanzo che affronta molti argomenti e che a molti altri allude. È la storia di Arthur Opp, ex insegnante di letteratura, che a un tratto decide di licenziarsi e ritirarsi a vita privata e solitaria nella sua casa di Brooklyn, rinunciando a ogni relazione con l’esterno, tranne che a quella con la ragazza delle pulizie, e con Charlene, una sua ex studentessa con la quale ha intrattenuto un rapporto epistolare e vissuto una storia delicata e fragile.

“Il peso” racconta anche la storia di questa donna, Charlene, e di suo figlio Kel, irrequieto e diviso fra la sua modesta condizione socioeconomica e il desiderio di diventare un campione del baseball. Ma è anche la storia di Yolanda, la ragazza inviata a casa di Arthur da un’agenzia di pulizie e che a un certo punto si trova ad affrontare una gravidanza non prevista.

Nel romanzo c’è un “nord” che sembra orientare tutte le storie: è l’abbandono. Arthur Opp è stato abbandonato dal padre quando era bambino, Charlene ha perso la fiducia in sé stessa e nella sua capacità di costruirsi un futuro solido, Kel è stato abbandonato da Charlene che si toglie la vita, Jolanda dalla sua famiglia che non accetta la gravidanza.

Orientandosi nella storia si arriva a un altro punto cardinale: la “casa” quale luogo di cura e protezione, ma anche di rimpianti, mancanze e nostalgie.

Quella del protagonista è allo stesso tempo simbolo di accudimento e affetto, nel ricordo della madre alla cui memoria è fortemente legato; e di abbandono, nel disordine delle poche stanze abitate e nella chiusura del piano di sopra ricoperto dalla polvere e cristallizzato nel passato.

Sentire di appartenere a qualcuno che ci ama e che ha cura di noi, abitare un luogo in cui ritrovare nel tempo eco di voci e orme di passi sono i sentimenti che accumunano tutti i personaggi del romanzo. Mentre leggevo, l’abitazione di Arthur Opp mi si è sovrapposta a quella immaginata da Giovanna Zoboli: Casa sprangata, porta sul mondo, orto e giardino, parco di re. Oggi, seduta qui sulla soglia, guardo i tuoi muri e vedo me (Casa di Fiaba, Topipittori, 2013). Significativa, in tal senso, la scena in cui Arthur, convinto da Yolanda a uscire dopo molto tempo, una volta fuori si gira a guardare la facciata e i gradini della sua casa e pensa che meriterebbero una ristrutturazione, nuovi gesti di cura.

La “cara casa” in cui arrivano le lettere e le rare telefonate di Charlene è la stessa che accoglie scorte enormi di cibo e Yolanda col suo bambino, anzi la sua bambina, in grembo; è la trappola, ma anche lo spazio della custodia e della metamorfosi che Arthur, volente o nolente, si troverà ad affrontare, accogliendo l’amore per sé stesso e in seguito un’idea di legami e famiglia. Lo farà con una forza che non sa ancora di avere, “la forza del bruco”, per dirla con Emanuele Coccia, quella che permette alla fine di “volare invece di strisciare. (…). Passare da un’esistenza all’altra senza dover morire e rinascere (…). La vita più simile alla morte” (Metamorfosi, Einaudi 2022).

La grande, vera casa di Arthur è in effetti il suo enorme corpo. La Moore mostra un vero talento nel descrivere il protagonista tratteggiandone il grave sovrappeso e le conseguenze sociali e individuali che l’obesità produce. L’uomo è molto severo con sé stesso, si disprezza e si colpevolizza, in quanto incapace di controllo nel suo rapporto col cibo, incapace di mantenere relazioni e raggiungere obiettivi che la comunità in cui vive ritiene normali; consuma le sue giornate annaspando nel fallimento, con il continuo rimpianto per le occasioni e il coraggio mancati. È così che l’autrice ci parla di una questione attualissima: lo stigma sul peso e la sua interiorizzazione, cioè l’applicazione impietosa degli stereotipi sociali su sé stessi. Quel sentimento devastante che fa della persona con obesità la sabotatrice di sé stessa e la rende facile bersaglio del pregiudizio e della discriminazione.

Leggendo questo romanzo che racconta di fragilità, progetti falliti e rapporti disfunzionali, si assiste alla trasformazione di ogni incrinatura della cosiddetta normalità in materia degna di tenerezza. È il modo in cui la Moore sollecita il sentimento di empatia nel lettore e lo fidelizza fino alla fine del romanzo. Il dolore di Arthur, così come quello di Yolanda e di Kel, diventa il nostro. Il loro cibo, – Arthur se ne colma per riempire il suo vuoto, Yolanda ne chiede per la sua bambina che nascerà e Kel ne fa dono amorevole alla madre malata, – è la premura di cui ognuno di noi ha, o ha avuto, bisogno per sentirsi consolato da un dispiacere o un abbandono. Poiché nutrirsi è, da sempre e per tutti, accordarsi amore e cura, concedersi l’appagamento di un piatto gradito e il rassicurante calore interno che ne deriva.

Giusi D’Urso

Redazione

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