Stefano Tarquini, I giorni furiosi
Transeuropa, 2021

E poi ci sono I Giorni Furiosi di Stefano Tarquini, ed. Transeuropa finito di stampare nell’Agosto 2021.
Le date sono importanti non sono annotazioni a margine, segni da trascurare, perché I Giorni Furiosi sono contrassegnati dal tempo, sono sottolineati e sono determinati da quella furia del vivere e del non vivere, tra le apnee a cui furiosamente e ostinatamente si frappongono brevi profondi respiri.
Stefano Tarquini è l’autore di una poesia che possiede un background culturale ben definito che è quello metropolitano, della città, del centro e della periferia, si può sicuramente far rientrare in quella enorme riflessione del grande Pier Paolo Pasolini sulla scrittura poetica, ovvero quella scrittura che diviene un gesto tra la vita e la morte, una manovra per risistemare l’esistere.
Una poesia metropolitana che invade e pervade il pensiero creativo quando si è nel traffico, davanti un semaforo rosso, in una sala d’ attesa , in fila, in città, nella folla o per assurdo nell’assenza di tutto questo, nella sospensione forzata di una nevrosi quotidiana che d’improvviso si spezza e paralizza il mondo intero per una maledetta pandemia.
Allora il tempo involve dietro una finestra da dove guardare la realtà messa in pausa e che improvvisamente diviene liquida come le gocce di pioggia che scivolano sulla superficie del vetro.
Qui non c’è gravità stiamo fluttuando/ questa è la realtà o stiamo sognando?
Lo avverte il moderno aedo , ma forse non è giusta la definizione, moderno è già tagliato fuori dal tempo.
E’ una lirica quella espressa nei versi di Tarquini in cui l’emozione pervasiva è quella degli “apolidi marinai” certe goffaggini di albatros di baudelairiana memoria di noi …aggrappati alla fine della notte / dove tutto è rosso/ di un blu abisso…di noi che vediamo in alto se tira vento …
E il vivere tra queste goffaggini di voli non voli, atterraggi sospesi e sogni che non sono mai finiti e che diventano il sogno di un altro, il mio, il tuo o un sogno che non hai finito, che continua, non smette, ricomincia nella testa di un altro.
Ha lo stesso peso specifico dell’acqua un sogno e come il tempo scorre inesorabile/ cancella il ricordo di una non nascita o forse è proprio quella facoltà di sognare irrazionale, inconscia, che ci dà la misura del vivere, la consapevolezza del nascere, del rinascere, dell’essere.
E’ solo allora che il poeta, il menestrello metropolitano, o meglio l’aedo trovatore, l’uomo che chiude le finestre ad una ad una /poggiando la fronte al vetro/per vedere la luna…ma guardare la luna è poesia antica, antichissima fa pensare a questi apolidi marinai e a quell’albatros dalle ali esageratamente grandi.
Finirà questo tempo atroce lo sussurra il poeta in questo tempo sospeso e tremante di infiniti giorni furiosi, ce lo siamo chiesti tutti noi nei momenti più incerti, da marzo 2020 in poi. “ Finirà questo tempo insoluto? Finirà questo immobilismo che ci ha velato persino il respiro?
Stefano Tarquini se lo chiede come fermo davanti ad un semaforo rosso ad attendere che scatti il verde, ma “lo volete realmente sapere/ quello che ci aspetta dopo il verde?”. In tanta incertezza, in tanta stanchezza dell’essere sospesi, in tanto assurdo letargo, Tarquini afferma: “ Cerco una risposta oltre me/ negli oggi che corrono a nascondersi dentro le maschere di domani”.
E’ in questo tempo rarefatto , tempo di attese e di profonda inquietudine, in questo tempo atroce che il poeta intraprende il sentiero dei Larici, alberi verso cui forse spesso ha alzato lo sguardo “Ricordami di quando avevamo gli occhi ancora aperti / e guardavamo svanire il futuro fra i rami…”.
E’ in questo preciso momento che le parole diventano ancore di salvezza, si riaffacciano alla memoria, vibrano di echi e di sussulti, di parole che non ci si è mai detti e si riversano sulla carta virtuale o reale, parole che rimangono in piedi di fronte alla porta aperta e si guardano di rimando come un uomo debole e una donna di lana.
E il moderno aedo, nel tempo sospeso, rimane al cospetto delle parole come quando ti passano davanti e le aspetti come uno schiaffo in faccia che vedi partire ma non arriva mai.
Uno schiaffo che si vorrebbe sulla guancia, che ti fa prendere coscienza della realtà ma che non ti tocca mai e che provoca lo stesso crepitio dell’ incendio che hai dentro. Tarquini aedo ne è cosciente perché vivere è tremare e non può essere come per un esercito di formiche… drogate abitudinarie di routine.
Ecco, i giorni furiosi sono come quella routine, come la nausea , come la stanchezza del vivere , la nota e inesauribile inquietudine dell’esistere senza sapere cosa davvero scatterà al semaforo con il verde, se si avrà un’accelerazione in avanti o in dietro, perchè in ogni caso muovendosi o rimanendo fermi la rivincita dei vivi ha lo stesso sapore della sconfitta.
Il pensiero allora si riappropria delle parole, delle metafore, si tramuta in sogno, il sogno è ancora in fondo al vaso dove i venti non hanno soffiato.
“Vatte a fidà de li poeti ! Delle rose de brughiera Jè piacciono le spine”.
I poeti non sono simili agli uomini che danno cento nomi diversi allo stesso mare, i poeti sono diversi, essi hanno un nome per ogni cosa e con quel nome preciso riconoscono ogni metafora, ogni nascondiglio per le parole, e le parole tornano come un boomerang e si cadenzano nei versi con quel ritmo che genera poesia,“la poesia” che “è specchio di vita” .
Si comprende tutta la manovra per riequilibrare la vita che esercita la poesia di uomini e aedi, apolidi marinai,sono quelle manovre che si compiono quasi in apnea dove ci si barcamena in poco spazio, sull’orlo di un precipizio e che servono a tornare alla vita, perchè certe routine metropolitane, certe pause di tempo , certe finestre accese come un rullo di tamburi sono come un’assenza di vita, come morte e quando arriva la sera non si sente più niente neanche lo sbattere / tin delle forchette.
Il consenso delle palpebre…
I giorni furiosi di Stefano Tarquini hanno il sapore di questa poesia che si cela come i segreti nel cuore, una poesia che a guardare l’uomo dal di fuori è un oracolo muto, mentre dentro è come il vino rosso che colora i bicchieri di carta con su scritto come ti chiami e tu hai scritto “Tempesta”.
Ma la poesia che sembra sparire negli attimi di concitazioni, negli “sleeding doors” delle nostre esistenze è presente , viva e vegeta in quel nostro sottolineare di parole non dette, o di parole pensate che non hanno mai conosciuto il mondo della sonorità ma che si sono tramutate in gesti o immagini, in rose o in spine, in lampioni, in finestre, in gocce di pioggia, in attese, in tintennii di forchette, di metalli, di sogni non finiti, in immagini nel caleidoscopio dell’esistenza.
Vatte a fidà de li poeti…aggrappati alla fine della notte.
E’ in questa poesia che si rispecchia il firmamento , lo stesso cielo contemporaneo, antico e moderno, che si porta dentro gli occhi degli uomini che sono sempre esistiti, dalla notte dei tempi, di noi che vediamo in alto se tira vento
il firmamento.