“A quanto pare, nella mente o nel cervello non vi è alcun meccanismo
per garantire la verità, o almeno la veridicità, dei nostri ricordi.”
(Oliver Sacks, ‘Il fiume della coscienza’)
«Funziona, Dottor Caroli.»
«Funziona, sì. Fin troppo bene. Fin troppo.», rispose il medico con un tono agrodolce, leggendo il tracciato, mentre nella sua testa si mischiavano dubbi e soddisfazioni. Più i primi che le seconde, ad esser sinceri. Il direttore di neuro-tecnologia era appena rientrato a Boston, la camicia sgualcita per il lungo viaggio aereo dall’Italia; a richiamarlo negli Stati Uniti era stata una telefonata entusiasta, riassumibile nelle parole appena pronunciate da Ute, la sua assistente. Se Giovanni Caroli riusciva a trattenersi dal camminare agitato per la stanza, era il suo sguardo che faceva un incessante andirivieni tra gli altri due personaggi lì presenti: una donna di quasi novant’anni, e un apparecchio di appena tre.
La donna si chiamava Olga ma le infermiere preferivano appellarla “paziente zero”. Dava una certa aura di sacralità, inoltre era stata l’apripista per il progetto più folle e ambizioso del neuro-tecnologo: rendere visibili i ricordi delle persone, codificandoli dai segnali elettrici cerebrali. A ciò competeva l’altro attore in scena, un piccolo marchingegno dall’acronimo utile a sintetizzare concetti ben più ostici: Rem.In.Der, ovvero onde del sonno R.E.M. trasdotte in una derivazione elettronica, ma erano tecnicismi troppo duri da masticare, quindi l’acronimo faceva la sua sporca figura anche così com’era.
Un giorno sarebbe forse diventato un brand commerciale, si era detto il dottore nei suoi interminabili viaggi tra l’Italia e gli Stati Uniti, già vedendosi novello Steve Jobs in camice bianco, e raffigurandosi l’apparecchio in dimensioni tascabili. Al momento, poggiava sulla testa dell’anziana come fosse una corona: da lì partivano elettrodi e cavi collegati a uno schermo televisivo, un guscio di chip e sensori e quant’altro. Per anni, quello schermo aveva trasmesso senza sosta una specie di nebbia e un flebile fruscio, come le vecchie Tv del passato; tutto questo fino al giorno prima, quando era successo qualcosa di leggermente diverso. Qualcosa per cui Giovanni era stato chiamato con estrema urgenza.
“Adesso sono qui. Vediamoci questo film, dunque.”, pensò mentre premeva un pulsante e delle forme, dapprima indistinte e via via più nitide iniziarono a fare la loro comparsa. Era un po’ come trovarsi in un cinema di periferia: il buio in sala, le poche persone, il silenzio assoluto. Audio e immagine andavano a sprazzi, sembravano provenire da un altrove molto, molto lontano.
Quando tutto si assestò meglio, apparve il viso di un ragazzo, sullo sfondo una larga finestra da dove si vedeva la Terra; dietro di lui l’arredo tipico di una stazione spaziale.
«…Ciao mamma!» Fzz. «Scusa se non mi sono fatto sentire molto in questi ultimi tempi, ma…gli impegni quassù non lasciano un secondo libero, e il progetto va a rilento, purtroppo.» Fzzz. «Per il resto tutto bene, ti salutano anche Elettra e i nipoti. Ora si trovano al lavoro nello spazio, ma non appena rientreranno ti vorrebbero parlare. Volevano chiederti se…» Fzzzz. «…comunque ho anticipato loro che…» Altra interruzione. Altro fruscio. A Giovanni sarebbe venuta voglia di tirare una botta all’apparecchio, in un gesto automatico dall’esito abbastanza scontato nella sua inutilità. Se ne astenne. Quasi l’avesse percepito, la scena si fece più coerente e nitida: «…ho anticipato loro che tu e papà verrete a trovarci presto. Sì, lo so che siete impegnati sul lavoro, soprattutto Giovanni, ma ci farebbe tanto piacere ci raggiungeste quassù. La vista della Terra è mozzafiato, provare per credere.» Quindi, così come si era acceso, di botto lo schermo si spense tornando a quel suo tipico colore grigio nebbia. Un’infermiera attraversò il corridoio, con passi felpati da gatto.
«È da ieri che va avanti questa scena, a nastro. Lo stesso ricordo. Le stesse parole.» sussurrò l’assistente del dottor Caroli. Lui annuì. «Dopo tutti questi anni, ne è valsa la pena.», continuò Ute. Il medico annuì una seconda volta.Non era granché convinto, aveva fatto caso a un errore tale da lasciarlo perplesso. Era un dettaglio di non poco conto. Per il momento, le uniche cose di cui aveva bisogno Giovanni erano un po’ di ristoro e… «Va bene, Ute, la ringrazio davvero per avermi contattato. Adesso devo uscire, ci vediamo più tardi.»
…una boccata d’aria fresca. Se ne appropriò avido sgusciando fuori, sul terrazzo. Raggiunse il suo studio all’ultimo piano; una musica del secolo precedente impregnava l’ambiente. Si sedette alla scrivania e la liberò da una selva di fogli. Si fece un caffè e chiese all’assistente vocale di mettergli musica più energizzante. Stropicciandosi gli occhi, capì di essere davvero stanco: valutò se ingollare altra caffeina, ma il vero problema era rappresentato dal jet-lag e dalla tensione in corpo. “L’unica incongruenza è che ho conosciuto troppo bene Olga…”, ragionò a denti stretti, “…e posso dire con certezza che no, non ha figli.” Non ne avevano, nessuno dei due. Certo, ne avrebbero voluti, questo lo ricordava bene: una volta si erano amati. Si erano fatti promesse importanti. Un giorno… Forse quei ricordi non erano esattamente ricordi. Un giorno io e te faremo un figlio, Giovanni. Questo le aveva ripetuto Olga, più e più volte. Quel giorno poi non era mai giunto. Troppi ostacoli si erano frapposti: la lontananza, il lavoro di entrambi che li costringeva ad essere sempre in movimento e sempre di corsa, la loro giovane età di allora, la senescenza di adesso. E la malattia di Olga aveva dato il colpo di grazia, facendo breccia, sfregiando tutti i loro sogni. Quando poi era giunto il disastro, apparentemente irreparabile, il luminare Giovanni Caroli non ci aveva pensato due volte. Il loro progetto non era andato in porto? Bene, si facesse il possibile per salvare il salvabile.
Riflettendo, si disse che quei ricordi dovevano essersi trasformati in desideri, a vagare lassù tra gli astri, fino a quella stazione spaziale dove si trovava un ragazzo dalla faccia simpatica, un satellite, qualche pianeta, una stella fissa. Fino al colpo di scena: lì, in quell’Universo e distretto temporale le cose erano andate in un certo modo: ma altrove? Se il tempo e la malattia li aveva divisi per sempre, la tecnologia poteva avvicinarli. Per sempre. Era una speranza cui doveva aggrapparsi. Crederci con una fede cieca, alternative in fondo non ve n’erano. Prese qualche rapido appunto, scarabocchiando velocemente uno schema raffazzonato: SOGNI à DESIDERI à DISASTRI à SOGNI. Ne veniva fuori un cane che si mordeva la coda, un uroboro. Alla fine, non voleva dir niente. Appallottolò il foglio, gettandolo lontano. Contasse qualcosa…
Basta, era davvero stanco. Si guardò attorno nella stanza, cercando punti d’appiglio.
Si domandò che cosa avrebbe potuto dire alla stampa, l’indomani. Già se la immaginava, a piombare sulla notizia come un nugolo di mosche. Gli avrebbero chiesto tante cose e lui sarebbe rimasto con un’infinità di dubbi. Dov’era l’inghippo, il busillis…? Quale assurdo viaggio con la mente stava facendo la vecchia Olga? Quale formidabile scoperta stava facendo lui, Giovanni? Si addormentò con quei dubbi appiccicati addosso come una maglietta sudata.
The future is now, gli urlarono nelle orecchie gli Offspring.
Fuori, la notte avanzava inclemente su tutti loro.
*In informatica, per “versione beta” si intende una versione software non ancora definitiva, messa a disposizione di un numero maggiore di utenti; confidando nelle loro azioni imprevedibili, queste potrebbero portare alla luce nuovi bug o incompatibilità del software stesso (N.d.A.)
Luca Cassarini è nato nell’estate del 1987. Suoi racconti sono stati pubblicati in un’opera collettiva (“Il cielo sopra Ravenna”, Fernandel), in antologie (“Storie a quattroruote”, Rudis Edizioni e “Novelle Giapponesi”, Idrovolante Edizioni), su riviste online (Il Diario del Riccio, Smezziamo, Coye, Salmace, Il Foglio Letterario). Da Novembre 2019 scrive sotto pseudonimo sul proprio sito: scrittureartigianali.wordpress.com