L’ultimo scalo del Tramp Steamer

«Molte facce e molte maschere ha l’amore, parola con cui nominiamo innumerevoli sentimenti».
Dal Baltico al Sud America, i vagabondaggi di un vascello fantasma e le tappe di un amore impossibile.

Ci sono persone che hanno una curiosità infinita, e del mondo esplorerebbero tutte le regioni, i deserti e i mari. Sono persone fortunate, lo sguardo affamato e insaziabile, il cuore vergine e bambino, e la presunzione folle che verrà dato loro il tempo per esaudire ogni desiderio. Io no, e me ne dispiace. Ho lo sguardo concentrato solo su poche pagine d’atlante, ho un cuore spezzato che seleziona, prende e respinge. E quanto all’avere tutto il tempo, poi, davvero non ci credo più.

Così, ho maturato una passione profonda per alcuni luoghi, mentre di altri non mi importa assolutamente niente. Sono luoghi da cui non mi sento attesa né voluta, e come per ripicca io stessa finisco per rifiutarli. Da cosa dipenda, non lo so. Uno di questi luoghi è l’America del Sud, tutta.

Sono consapevole della mia menomazione idiota, di tutto ciò che mi perdo per la mia cocciuta avversione, ma è una consapevolezza gelida che non mi smuove di un millimetro. Non posso farci niente.

Va da sé che non ho mai amato gli autori sudamericani e se qualcuno sbirciasse nella mia libreria coglierebbe al volo il misero vuoto che ne deriva. Tra i pochi nomi presenti, lo scrittore colombiano Álvaro Mutis, morto novantenne lo scorso settembre, a cui voglio rendere omaggio accennandovi al suo romanzo L’ultimo scalo del Tramp Steamer.

L’ho letto molti anni fa e da allora è rimasto presente nella mia vita. Quotidianamente (non esagero), in una qualche ora del giorno o della sera, ogni volta che guardo il mare, gli rivolgo un pensiero. Sottile, istantaneo, inevitabile, come capita con i chiodi fissi, i ricordi intimi, gli amori antichi, le vaghe nostalgie.

Che sia pioggia o sole, che sia inverno o estate, dalle rive, con i piedi a due metri dall’acqua, oppure da un balcone che consente solo una fetta rubata di golfo – che sia come sia, per un breve momento, ogni giorno succede…

Succede che vedo qualcosa, là in fondo all’orizzonte, qualcosa di cui non conosco il nome… Per me, che di cose di mare non so nulla, cargo peschereccio mercantile rimorchiatore o bastimento, sono bellissime parole dense di suggestioni e di odori, ma quanto alle differenze pratiche tra la forma dell’uno e dell’altro, il mistero mi rimane fitto…

Ma in quell’attimo, gli occhi stretti sulla linea lontana, succede che io veda un Tramp Steamer.

Con questa espressione, com’è noto, si definiscono i mercantili di scarso tonnellaggio, non appartenenti alle grandi compagnie di navigazione, che viaggiano di porto in porto cercando carichi occasionali da trasportare dove che sia. E così tirano a campare, trascinando la loro sagoma malconcia assai più a lungo di quanto potrebbero far prevedere le loro precarie condizioni.

Così, ci spiega la voce narrante del romanzo, un uomo che per lavoro viaggia molto e che per la prima volta vede il mercantile al porto di Helsinki.

Entrò all’improvviso nel mio campo visivo, con la lentezza di un sauro ferito a morte.

Per quel Tramp Steamer malandato e sudicio, per il ritmo sconnesso delle sue bielle, perla scia opaca delle sue pene, il narratore sente da subito una calda simpatia. Ne indovina persino il nome, Alción, anche se soltanto poche lettere finali sopravvivono alla rugginosa rovina dello scafo.

Ma quando lo rivede in altre tre occasioni, in opposti angoli del globo, gli corre un brivido lungo la schiena e il suo legame col vecchio mercantile diventa indissolubile e misterioso, un segno indecifrabile di quella cosa bellissima, forse generosa forse crudele, rozzamente detta destino.

Ancora più incredibile e significativo è che durante un ennesimo viaggio, su una chiatta fluviale, il narratore incontri il basco Jon Iturri, che proprio di quel mercantile fu capitano.

Tra i due uomini, peregrini in un mondo che sembra grande quanto un fazzoletto, nascono spontanee l’amicizia e la confidenza. Favorito dalle notti nella palude, sotto il cielo stellato, di una tiepida, palpitante fosforescenza, sui ritmi del fiume che scende lento e intimo come una confessione, il marinaio racconta la sua storia, la sua storia d’amore con la bellissima Warda, e soprattutto la storia dell’Alción (che, sì, davvero si chiamava così…).

Vicende di cui non vi dico nulla, perché questo breve romanzo va goduto, annusato e bevuto come una coppa di vino, ascoltato come una voce calda che narri all’orecchio una favola triste. E non sarebbe bene conoscerla già.

La morte di Mutis tocca Trieste in maniera particolare. Alcuni suoi personaggi sono passati da queste parti e Mutis stesso è stato qui, anche se tardivamente, solo nel 1999. Il piacevole libretto Mutis a Trieste (a cura di Gaetano Longo, Franco Puzzo Editore) ripercorre con affetto quella visita e mostra nelle fotografie un poeta rilassato e sorridente sotto i baffi, che scopre volentieri una città che lo stava aspettando adagiata come un’amante.

Mutis deve aver guardato il nostro mare, in quei giorni, lo stesso mare che guardo io e dove ogni giorno ritrovo l’Alción affaticarsi sulle onde, portatore di chissà quale tormento o speranza.


Simona Camplone

Redazione

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