L’alba schiantò dentro la finestra come un tiranno. Dove la ragazza s’era accucciata la luce la sfiorava appena, il divano addossato alla parete, il tavolino di cristallo ancora pieno d’impronte della sera avanti, il vuoto delle camere al di là del corridoio e un quadro che giace negli artigli cadenti dei colori. La ragazza si premeva i palmi sul grembo gravido. Attese un po’ di tempo, tanto sarebbe passato, come il giorno prima, come qualche tempo fa. Lui non era presente, al momento viaggiava per costruire il futuro, per rendere certezza il presente, ma alle volte basta soltanto lo sguardo di un momento, il silenzio tra dita intrecciate. Alle volte basta soltanto questo. Cosa significa sopportare?
Allora resistette ancora per qualche tempo, trattenendo il respiro, espirando come le avevano insegnato, controllando l’equilibrio precario del diaframma. Nel frattempo distese un braccio verso il telefono poggiato di fianco alla mensola dell’acquario. Restò sospesa fissando il pesce pulitore, avvinghiato a una pietra porosa e per la gran parte ancora ricoperta di muschio, avido, cercatore del nulla, inconsapevole del proprio liquido tramestio. Quindi ritrasse la mano. Il dolore sembrò essersi acquietato. Si appoggiò al cuscino del divano e chiuse gli occhi, la mano adagiata sul grembo, il dito che seguiva l’impulso improvviso proveniente da dentro. Si assopì per pochi minuti. Nel sogno corvi neri svolazzano stridenti in un alba che stenta a sciogliersi dalla notte, mani tese verso il buio del giorno, come ragni colti da una sincope improvvisa. Strigi che gridano nell’ansia dell’attesa. Si svegliò di soprassalto con una mano sulla fronte, stai calma, non è nulla, adesso andiamo.
Non è necessario, è solo il solito spasmo, è ancora troppo presto. Che colore ha l’attesa? Se si potesse, tingeremmo di luce ogni nostro rimpianto?
Alla fine la donna la ficcò in macchina, le strinse la cinta sull’addome con premura e rapidità, come di chi è abituata a dominare certe situazioni. Lei la guardò con gli occhi sottili, una domanda la tormentava, come il rumore dell’auto che partì sibilando.
A un certo punto cominciò a piovere. L’aria si fece pesante, faticava a filtrare nei polmoni, cosa c’è piccola?, niente, ho solo bisogno d’aria. Cos’è l’anima? Non è forse il respiro di Dio? Cosa c’è piccola?
Breve il tratto di strada che imboccarono per accorciare. L’auto sobbalzò, la donna alla guida si voltò, non è niente, disse l’altra con la mano sul grembo, non è niente. La pioggia adesso si fece insistente, i tergicristalli spazzavano le gocce spiaccicate sul vetro, ho paura disse la ragazza seduta di fianco, non devi, rispose l’altra guidando come una freccia lanciata verso il bersaglio, è il miracolo della vita, poi disse voltandosi verso la sorella, quanto distano il cielo, le stelle, quanto è buio lo spazio tra le stelle?
Venti minuti dalla partenza per svoltare sulla sinistra e trovarsi di fronte alla barra abbassata, altri due per parcheggiare sul rialzo del pronto soccorso, altri dieci secondi sulla barella per capire che le cose non si fermano mai. La ragazza fissava le intermittenze delle luci sul soffitto, respirava a fatica, l’ago conficcato nel braccio, le voci confuse, mormorii ovattati, disposizioni rapide, inquadrate, precise, come a voler immaginare un senso oltre la bruma dei pensieri.
Si abbandonava e a tratti si riprendeva, e in questi frangenti udiva alcune parole stagliarsi dalla nebbia, scelte, domande. Sogni caduti in un barattolo. L’infermiera le stringeva la mano, lo sguardo compassionevole da sopra la mascherina. La ragazza cercò di dirle qualcosa, scuoteva la testa come per impedirlo, poi gli occhi tornarono pesanti. Quando li riaprì sembrò improvvisamente lucida. Quelli le stavano intorno come in una cornice di foglie chiuse. Capì con chiarezza le parole, allora le foglie si schiusero, un girasole al mattino, anche se non riusciva a realizzare perché mai fuori la tempesta infuriava così potente.
Qualche giorno dopo a una certa ora della sera, la ragazza sedeva di fronte la finestra di casa, il gomito poggiato sulla mensola, qualche lama di luce rossastra attraverso le nuvole sullo sfondo, le antenne sulla vetta lampeggiavano opache. La ragazza estrasse una sigaretta dal pacchetto e l’accese, aspirando qualche boccata e soffiandola sul vetro. Socchiuse le palpebre. Quando sentì aprire la porta d’ingresso si voltò verso il carrozzino. Gli sguardi s’incontrarono lì sopra nel silenzio. La ragazza tirò un’altra boccata alla sigaretta e si voltò di nuovo verso la finestra. Sentì sbattere la porta. I passi rimbombare per le scale, la sagoma scomparire nella sera.
Danilo Di Prinzio, nato nel 1972 a Guardiagrele, antico borgo alle pendici della Majella, Danilo dice di aver bruciato una laurea in filosofia prima di iniziare a lavorare per un’impresa di costruzioni, lavoro durante il quale approfitta delle pause per scrivere racconti e poesie. Amante della musica, di Scarface e di Modigliani, nei periodi travagliati legge Faulkner, in quelli quieti McCarthy e negli altri corre in moto.