Nel 1979 il filosofo Hans Jonas, con strabilianti lungimiranza e lucidità, individuava i prodromi di quelli che oggi sono questioni incalzanti del nostro tempo: il problema dell’insostenibilità di certe fonti energetiche, gli sviluppi del nucleare, l’innalzamento delle temperature globali. Tutto questo, secondo il filosofo, era strettamente connesso a un modello di etica che andava, e va, necessariamente sostituito. Già quarant’anni fa, Jonas proponeva un’etica che ponesse al centro l’interesse per le generazioni future, che, anzi, adottasse come propria guida l’imperativo: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»[1].
Ciò che il nostro autore vide è oggi uno dei temi più scottanti – e certo anche divisivi – dell’attualità: da una parte, vi sono il calo delle nascite, l’environmental anxiety[2] e le schiere di teenagers e giovani adulti che protestano contro lo sfruttamento intensivo e sconsiderato delle risorse naturali; dall’altra, il gotha composto dagli imprenditori a capo di multinazionali che non sono disposti a mettere in gioco il proprio profitto in favore del benessere, o quanto meno della conservazione, del pianeta.
Il principio responsabilità e l’insufficienza dell’etica tradizionale
Ne Il principio responsabilità, Jonas introduce un problema: l’etica, così come la si è sempre considerata, non basta più. I tratti principali dell’etica tradizionale vengono così riassunti dall’autore: 1) si tratta di un’etica che guarda alla natura umana come qualcosa di stabile e definito; 2) questo funge da presupposto per identificare un bene umano altrettanto fisso; 3) quest’etica si basa sul postulato che il campo d’azione umano, sia a livello temporale che spaziale, sia decisamente circoscritto[3].
Tutto questo non vale più, e Jonas riprende il Coro dell’Antigone di Sofocle, in cui l’uomo è detto essere deinon, tremendo – anzi, il più tremendo tra gli esseri –, per avviare il discorso sul radicale cambiamento che l’etica deve intraprendere per fronteggiare i nuovi atteggiamenti e le moderne potenzialità (anche distruttive) dell’umano.
In rapporto al tema che si vuole approfondire è, però, un’altra l’osservazione da fare riguardo l’etica tradizionalmente intesa; scrive Jonas: «Ogni rapporto con il mondo extraumano […] era neutrale sotto il profilo etico»[4]. Ogni rapporto di natura poietica che l’uomo intratteneva con la natura non veniva, dunque, ritenuto bisognoso di alcuna regolamentazione etica.
Oggi, chiaramente, le cose non stanno più così: oltre alla nascita di comitati etici per ogni sfera dell’agire umano, si sprecano i protocolli, le leggi, le regole che sono tenuti a disciplinare qualsivoglia intervento antropico sull’ambiente e sul patrimonio naturale della Terra[5].
I quesiti che, con Jonas, ci si deve porre sono i seguenti: regolamentazioni, comitati, sentenze giuridiche e conseguenti sanzioni…tutto questo è sufficiente a imprimere un cambio di rotta all’atteggiamento deviato con cui l’uomo si relaziona all’altro da sé? Come deve caratterizzarsi la nuova etica?
La risposta del filosofo tedesco è la seguente e si struttura in due momenti: 1) la nuova etica deve occuparsi del futuro, dei diritti delle future generazioni, perché anche loro abbiano la possibilità di condurre un’autentica vita umana sulla terra; 2) una linea guida di natura coercitiva che venga imposta dall’esterno non basta a responsabilizzare l’uomo. E qui varrà la pena che ci soffermiamo in particolare sulla seconda parte della proposta di Jonas.
La necessità di una risposta emotiva: l’euristica della paura
Soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana – e di forme assolutamente specifiche di minaccia – per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo. Finché il pericolo è sconosciuto, non si sa che cosa ci sia da salvaguardare e perché[6].
Questa è la formulazione compiuta che Jonas dà della nozione di euristica della paura[7]. Il presupposto di questa concezione risiede in un evento di ordine per lo più psicologico: nel fatto che è ben più facile riconoscere il male piuttosto che il suo contrario e, inoltre, si è più consapevoli di ciò che non si vuole, piuttosto che di ciò che si vuole; la conclusione dell’autore è che sia, dunque, necessario per la filosofia morale rivolgersi ai timori covati dall’animo umano anziché ai suoi desideri.
Non può sfuggire la forte coloritura emotiva delle parole di Jonas, che si rafforza, anzi, con l’avanzare del discorso: egli, infatti, indica i doveri cui la nuova etica deve adempiere. Il primo passaggio da compiere è la previsione delle conseguenze e degli effetti a lungo termine dell’azione umana; un’azione che viene definita collettiva-cumulativa-tecnologica e che non è più definibile eticamente neutrale.
In un secondo momento, è necessario, invece, «mobilitare il sentimento adeguato a ciò che viene immaginato»[8]. Sorge allora, però, un problema: poiché il male immaginato, che si prevede che affliggerà la natura e le prossime generazioni, non tocca da vicino colui che, nel presente, se lo prefigura soltanto come ipotesi, il timore generato non è sufficientemente potente. Jonas aggiunge che questo timore va provocato[9] e che, sempre per fini euristici congiunti all’intento etico di salvaguardare la possibilità di una vita degna per i posteri, è necessario prioritizzare la profezia di sventura e la previsione cattiva rispetto a quella di salvezza.
In conclusione, l’euristica della paura, così come presentata dall’autore, è una tonalità emotiva non necessariamente spontanea, ma che va indotta tramite la previsione di minacce in grado di annichilire l’intera umanità al fine di trasformare un malum lontano e soltanto prefigurato in un evento che imprima nell’animo umano l’urgenza del cambiamento.
Jonas nel 2021: la riproposizione dell’euristica della paura applicata all’emergenza climatica
Se traslata nel 2021, l’euristica della paura non perde la sua validità, anzi, ora che i segnali individuati da Jonas sono effettivamente la nostra quotidianità, l’idea di consapevolizzare gli uomini del presente riguardo alle conseguenze catastrofiche del loro agire è diventata una modalità di comunicazione piuttosto diffusa.
Tutti conosciamo le ricorrenti manifestazioni indette, per una più attenta e cauta conservazione dell’ambiente, dalla giovanissima Greta Thunberg nel 2018, e che tutt’oggi portano ragazzi e ragazze ancora in età scolare a protestare nelle piazze di tutto il mondo armati di striscioni e cartelli. Proprio su questi ultimi, solitamente, i giovani si sbizzarriscono con moniti e slogan perfettamente inscrivibili nell’ottica di un’euristica della paura. Si pensi a “There’s no planet b”, “Il clima sta cambiando, perché noi no?”, “Questa è la nostra ultima chance”, “Act as if your house was on fire, because it is”, e alle centinaia di migliaia di altre frasi utilizzate durante i cortei.
O ancora, si pensi all’Orologio del Clima, nella Union Square di New York, che proietta costantemente su uno dei grattacieli del centro il conto alla rovescia che indica quanto tempo rimane, nell’ordine di anni, giorni, ore, minuti e secondi, per ridurre le emissioni di CO2 in modo da mantenere l’aumento della temperatura globale sotto 1,5°C.
Di nuovo, l’euristica della paura è la scelta comunicativa di un nutrito gruppo di uomini di scienza e studiosi che da anni si occupano della divulgazione di questo problema senza ottenere l’attenzione che meriterebbero. Ma non solo uomini di scienza e climatologi, anche parecchi dei contemporanei content creators che popolano i nostri social network sono impegnati in modo attivo nella diffusione di informazioni e contenuti legati al benessere del pianeta e alla eco-sostenibilità.
L’esperimento comunicativo più interessante, secondo chi scrive, è la scelta di raccontare il mondo del futuro a partire da una prefigurazione del futuro stesso: è facile imbattersi oggi in video, articoli, racconti o documentari che abbiamo come punto comune il fatto di essere ambientati nel 2050 o nel 2100. Questi esperimenti narrativi non riservano, però, mai niente di consolante a chi ne fruisce: cibi liofilizzati, maschere antigas, paesaggi desolati e città fantasma.
Anche David Attenborough, celebre naturalista britannico, nel suo più recente documentario A life on our planet, non risparmia una rapida previsione delle catastrofi cui andremo incontro se non agiremo concretamente in termini di salvaguardia della biodiversità, di prioritizzazione di un’alimentazione più sostenibile e di utilizzo delle fonti energetiche meno inquinanti.
Tutti gli esempi sinora enumerati si inseriscono nel filone di pensiero che oggi chiameremmo catastrofismo, tendenzialmente evitato e disprezzato in quanto ritenuto un modo di vedere il mondo che ne iperbolizza in modo infruttuoso le criticità, ma che, come dimostrato da Jonas, in una situazione storica come la nostra viene legittimato dall’urgenza e dall’irruenza con le quali è necessario convincere della gravità del malum che ci attende anche chi fatica a vederlo, o più semplicemente si rifiuta di farlo.
Agli antipodi: il “vabbé” come metodo di approccio alla realtà
Il titolo di questo paragrafo è provocatorio – forse si può definire addirittura blasfemo utilizzare il termine colloquiale “vabbè” in un articolo di approfondimento filosofico –, è vero, ma riassume in due sillabe la tipologia di approccio alla realtà che sta agli antipodi rispetto all’euristica della paura proposta da Jonas.
Se, da una parte, c’è la volontà di sovvertire lo stato di cose vigente tramite uno sforzo collettivo che abbia come fine il miglioramento generalizzato della condizione della vita sulla Terra, dall’altra, c’è un tacito accondiscendere allo status quo, accompagnato dal rifiuto di un qualsivoglia invito al cambiamento.
I principali motivi dell’adozione del vabbé, per ciò che riguarda l’argomento in questione, sono due: la mancanza di tenacia e risoluzione, qualità necessarie per modificare le proprie abitudini e il proprio modo di pensare per conformarlo a un orizzonte di valori diverso rispetto a quello corrente[10], oppure – e questo è il caso che si applica ai grandi imprenditori del nostro tempo – l’assenza di interesse economico e profitto nel cambiamento che si prospetta.
Il “vabbé”, preso al modo di una lente attraverso cui osservare la realtà, è la volgarizzazione di un’idea filosofica che Pascal qualche secolo fa ebbe cura di indicare come divertissement. Letteralmente de vertere, deviare, distrarre; un qualcosa di assolutamente necessario per riuscire a vivere, poiché l’uomo farebbe fatica a condurre la sua esistenza costantemente intriso nell’angoscia provocata dalla consapevolezza di essere in una posizione mediana tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo: per questo motivo, tramite il divertissement, mette distanza tra sé e questa estenuante inquietudine attraverso l’adesione ad attività mondane, interessi frivoli e impegni che tengano la mente distante da quelle domande e quei pensieri deleteri che la sprofonderebbero, di nuovo, in una crisi esistenziale.
Il rovescio della medaglia, però, per ciò che concerne il divertissement, è che questo atteggiamento – che, come si è detto, è in certa misura funzionale a una serena continuazione della vita umana –, quando portato all’estremo, annichilisce ogni tendenza al giudizio critico di sé e del mondo circostante. A qualsiasi problema affiori all’orizzonte, specialmente se di natura pubblica e sociale, l’uomo che abbia reso il divertissement la sua modalità di approccio al reale risponderà con un sonoro e qualunquista «vabbé!»; un vabbè a cui in una canzone pop francese ben nota e tornata in auge di recente viene aggiunto «…on danse».
L’idea è proprio questa : « alors on sort pour oublier tous les problèmes ». Il vabbè è un chiudere forzatamente gli occhi di fronte alle questioni che richiedono un impegno che non si è disposti ad assumere, per pigrizia, per mancanza di interesse (personale o economico) o per scarso senso civico…e fingere di non vedere.
Conclusioni
Per chi scrive, le conclusioni tranchantes non sono mai la soluzione, eppure in questo caso, con le immagini di un mondo che agonizza costantemente impresse nella mente, si vuole dare ragione a Jonas, e alla necessità di intimare al cambiamento anche chi sembra non essere disposto a farlo.
Se per risvegliare il senso di responsabilità necessario a uscire da questa situazione si deve fare ricorso all’evocazione di sentimenti fortemente angoscianti e scenari minacciosi e tragici, che si faccia[11]; che si renda la collettività consapevole, anche e soprattutto a livello emotivo, del destino tragico cui sta andando, anzi, correndo, incontro.
E tutto questo non in nome di un macabro sadismo che voglia un’umanità costantemente attanagliata dalla paura di un’imminente estinzione di massa, bensì in nome della responsabilità che l’uomo di oggi ha, deve avere, nei confronti dell’uomo di domani e del fatto che «non si deve mai fare dell’esistenza umana o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire»[12], come, beninteso, si è fatto finora.
Sebbene Jonas sostenga egli stesso di non voler proporre il principio “paura”, ma il principio “responsabilità”, continua affermando che la paura, che fa parte della responsabilità tanto quanto la speranza[13], «è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici»[14].
In conclusione, scrive Jonas in un felice tentativo di rivalutazione della paura, «non intendiamo la paura che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla»[15]. La paura, infatti, è l’oggetto della responsabilità; è, di nuovo, «già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità»[16].
Questa ultima riflessione di Hans Jonas chiarisce in modo efficace il perché, in definitiva, non è sempre sbagliato essere catastrofisti.
Bibliografia
HANS, J., Das Prinzip Veratnwortung, 1979, tr. it. a cura di P. P. Portinaro, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002.
[1] Jonas, H., Das Prinzip Veratnwortung, 1979, tr. it. a cura di P. P. Portinaro, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002, p. 16.
[2] Definita nel 2017 dall’American Psychological Association come «a chronic fear of environmental doom» («angoscia cronica di una catastrofe ambientale»).
[3] Ivi, p. 3.
[4] Ivi, p. 7.
[5] Jonas scrive: «[…] la natura dell’agire umano si è de facto modificata e [che] un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili», Il principio responsabilità, p. 10.
[6] Ivi, p. 35.
[7] In maniera analoga, nella storiografia di Sallustio si propone l’idea del metus hostilis. L’autore indicava con questa espressione il fatto che la consapevolezza della presenza di un nemico esterno era benefica per lo spirito dei romani in cui, in questo modo, si generavano due spinte: una verso l’esterno, che ambiva alla difesa dal nemico e una diretta invece verso l’interno, che aveva per risultato il rafforzamento del vincolo comunitario tra i cittadini.
[8] Ivi, p. 36.
[9] Ibidem.
[10] In riferimento alla questione dell’abitudine e a quanto questa sia legata al problema dell’antropotecnica si veda il densissimo volume di Sloterdijk, P., Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Raffaello Cortina, Milano 2010.
[11] Come già sta accadendo diffusamente nei prodotti mediali e non, quali documentari, spot pubblicitari, ecc.
[12] Jonas, H., Il principio responsabilità, p. 47.
[13] Questa riflessione si inserisce in una serrata critica al principio speranza e all’utopia di Ernst Bloch (Spirito dell’utopia, 1918; Il principio speranza, 1953-59).
[14] Ivi, p. 284.
[15] Ivi, p. 285.
[16] Ibidem.