Questo pezzo è la prima parte di due articoli correlati. La seconda parte uscirà lunedì 18 aprile.
Possiamo dire che la selezione naturale sottopone a esame, giorno dopo giorno e ora per ora, in tutto il mondo, qualsiasi variazione, anche la più piccola, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando ciò che è buono.[1]
Introduzione: …e Darwin formulò il principio di divergenza.
Se potessimo osservare il mondo dei viventi dall’alto e al contempo avere sott’occhio tutti gli organismi e le specie che esistono e sono esistite, probabilmente ci sarà qualcosa che subito risalterebbe alla nostra attenzione: la diversità dei vari organismi l’uno rispetto all’altro. Consideriamo il vespertilio bruno (Myotis lucifugus) e il capodoglio (Physeter macrocephalus), rispettivamente, un pipistrello e un cetaceo. Sono due animali diversissimi l’uno dall’altro: il primo è un mammifero volatile dalle dimensioni contenute che si nutre per lo più di coleotteri, moscerini, falene e vespe, mentre il secondo è un enorme mammifero acquatico che si alimenta a base di calamari, polpi e altre specie di pesci come razze e squali. Le loro misure corporee, la loro forma esteriore, le strutture anatomiche e le funzioni organiche specifiche sono estremamente diversificate. Questo fatto è anche detto “divergenza dei caratteri” e indica la relazione di diversità che le parti anatomiche e funzionali degli organismi delle varie specie intrattengono tra loro. Ma perché sono così diversi? Il primo che tentò di fornire una spiegazione scientifica di questo divergere reciproco fu il grande scienziato, nonché fondatore della teoria dell’evoluzione, Charles Darwin (1809-1882), che nel capitolo IV de L’Origine delle specie si occupò in maniera puntuale della questione della diversità.
Com’era sua abitudine, Darwin considerò un esempio di variazione di tratti caratteristici selezionati allo stato domestico. Supponiamo che vi siano due appassionati di colombi e che al primo piacciano i colombi con becco lungo, mentre al secondo quelli con becco corto. A poco a poco, ognuno permetterà solo alla varietà che preferisce di accoppiarsi con il partner designato, al fine di ottenere pulcini il cui becco tenda sempre più all’estremo: o molto corto, o molto lungo. Ora, se l’uomo può, attraverso un programma di controllo degli accoppiamenti, selezionare domesticamente gli individui i cui tratti più gli aggradano, allora perché ciò non potrebbe essere fatto anche dalla natura? Secondo Darwin, è il medesimo principio che agisce sia per la selezione operata dall’uomo, sia per quella che si verifica naturalmente.[2]
Procediamo, però, con ordine, facendo qualche precisazione. Innanzitutto, si tenga presente che per Darwin valgono le seguenti condizioni: (i) se i discendenti di una specie si differenziano per costituzione e abitudini, allora essi saranno in grado di conquistare nuove nicchie ecologiche – con la nicchia ecologica che rappresenta, grossomodo, l’habitat ideale affinché una certa specie prosperi;[3] (ii) se la differenziazione conduce all’opportunità di occupare nuovi ambienti, allora essa sarà favorita dalla selezione naturale – con quest’ultima che è la conservazione delle variazioni favorevoli e la cancellazione di quelle dannose.[4]
Occupando nuovi ambienti, la popolazione diverrà sempre più numerosa, per cui la sua fitness evolutiva, cioè il numero di prole che un singolo individuo riesce a generare e che, poi, riesce a sopravvivere, tenderà ad aumentare di conseguenza. La competizione tra due organismi o specie è la riduzione della fitness dell’una a causa della presenza dell’altra.[5]
Entra in gioco, ora, il concetto della competizione.[6] La competizione, infatti, rende migliore un organismo rispetto al suo ambiente e rispetto agli altri individui. Com’è possibile che la competizione sia un bene per l’organismo? Darwin dice che in un ambiente con risorse limitate e piuttosto densamente popolato, la diversificazione di un tratto o della struttura dell’organismo sarà un vantaggio, perché così gli individui differenziati potranno accedere a nuove forme di sostentamento, allentando la pressione competitiva originaria. Detto altrimenti: dove la competizione è più dura, lì ci si potrà aspettare anche una maggiore diversificazione.[7] La competizione è, perciò, un bene, in quanto favorisce, seppur indirettamente, la divergenza dei caratteri. Gli organismi, poi, diversificandosi grazie alla competizione che attua una spinta verso nuovi caratteri, si liberano della pressione competitiva degli altri organismi che dipendevano dalle stesse risorse.
L’argomento di Darwin, sciolto nelle sue parti costitutive e reso maggiormente intelligibile ed evidente, sembra essere il seguente:
- La selezione naturale conserva i tratti favorevoli.
- In un ambiente densamente popolato con risorse limitate, molti individui competono duramente per tali risorse.
- In competizione, alcuni tratti sono favorevoli per la vittoria e altri meno favorevoli.
- La selezione naturale conserva i tratti favorevoli alla vittoria della competizione.
- Se si verifica una variazione favorevole, allora la selezione naturale la conserverà.
- Quindi, c’è una tendenza degli organismi in competizione a differenziarsi e tale differenza, se aumenta le probabilità di sopravvivenza nella lotta per l’esistenza, sarà favorita dalla selezione naturale.
Avendo giustificato la necessità di ipotizzare una certa tendenza alla differenziazione, diretta o controllata dalla selezione naturale, Darwin può enunciare il principio della divergenza dei caratteri:
Nell’economia generale di qualsiasi regione, più gli animali e le piante sono differenziati per diverse abitudini di vita, maggiore sarà il numero degli individui capaci di trovarvi sostentamento. […] Possiamo ritenere che i discendenti modificati di una qualsiasi specie avranno tanto più successo quanto più diversificata diventerà la loro struttura, riuscendo così a invadere i posti occupati da altri esseri.[8]
Possiamo riformulare il principio così:
(PD) La selezione naturale favorisce la divergenza dei caratteri, se tale divergenza rende disponibili nuovi habitat all’organismo portatore di tali caratteri diversificati.
Sebbene questo sia un principio che è entrato da tempo nel novero degli attrezzi di lavoro del biologo e dell’evoluzionista, solo recentemente esso è stato messo in discussione. In particolare, si è cercato un modo per trovare una spiegazione alternativa per la divergenza dei caratteri che faccia poco o nessuno appello alla selezione naturale. La selezione naturale, infatti, nella prospettiva del principio della divergenza dei caratteri, gioca un ruolo essenziale. Un ruolo che, però, alcuni evoluzionisti non sono più disposti a riconoscerle.[9]
Secondo la teoria recente, che è detta ultradarwinista, la selezione, ed essa soltanto, è la spinta propulsiva all’evoluzione. È la selezione – e sempre la selezione naturale – a indurre una certa variazione a proliferare e diffondersi nella popolazione e tra gli organismi. Questa tesi, che è spesso chiamata all-sufficiency thesis[10], o tesi dell’assoluta sufficienza della selezione naturale, è stata, però, contestata da eminenti accademici e scienziati del settore. I più celebri critici sono, ad oggi, i filosofi ed evoluzionisti Robert Brandon (docente alla Duke University al dipartimento di Filosofia) e Daniel McShea (docente di Biologia al Trinity College e professore associato di Filosofia presso la stessa istituzione). È della teoria e delle critiche alla teoria darwiniana mosse da questi ultimi che ora ci occuperemo.
Il principio di divergenza è empiricamente adeguato?
Come si diceva nella prima parte, la formulazione darwiniana prevede che il principio di divergenza spieghi perché gli organismi che si differenziano, presentando un nuovo tratto evolutivo, riescono ad aprire alla loro disponibilità nuovi ambienti, abbassando la soglia della pressione competitiva che erano costretti a subire. Per rendere meno evanescente questa nozione, pensiamo al seguente esperimento mentale. Supponiamo che in uno stagno siano presenti due specie di pesci: pesce rosso e pesce azzurro. Entrambe le specie si nutrono di alghe presenti sul fondo del lago, ma non di quelle presenti in superficie. Le alghe, però, sono risorse limitate, mentre sia i pesci rossi sia i pesci azzurri sono demograficamente popolosi. Per cui, la competizione tra i pesci rossi e quelli azzurri e quella tra i pesci rossi e gli stessi pesci rossi, così come quella tra pesci azzurri e gli stessi pesci azzurri diventa sempre più serrata. Tuttavia, supponiamo che i pesci azzurri inizino a sviluppare una variazione del tratto digerente che permetterà a questi individui di cibarsi di alghe in superficie. Questi individui saranno sempre più popolosi, dando vita alla specie dei pesci verdi. La selezione naturale favorirà i pesci verdi, perché questi avranno dimezzato la pressione competitiva, aprendo nuovi ambienti in cui predare e in cui riprodursi. In altre parole, pesci rossi e azzurri continueranno a lottare fra loro in modo feroce e alternativo per accaparrarsi le risorse, cioè le alghe al fondo del lago, mentre i pesciolini verdi potranno occupare nuove aree del lago, quelle in superficie, e nutrirsi di risorse maggiormente disponibili rispetto a quelle sul fondale.[11]
Ma il principio di divergenza, che operava nell’esperimento mentale precedente, è empiricamente valido? Cioè, il modo in cui gli organismi effettivamente divergono è coerente con quanto il principio prevede? Secondo Robert Brandon e Daniel McShea, non è valido.[12]
Chiediamoci: quant’è importante la competizione nella diversificazione delle specie? La risposta è: “non molto”. Ora, vedremo perché. È ampiamente accettato che, almeno attualmente, vi siano circa 8 milioni di specie eucariote.[13] Ci sono, quindi, almeno 32 trilioni di coppie fra queste specie.[14] Di queste 32 trilioni di coppie, solo 4 milioni hanno subìto un processo di divergenza dei caratteri dovuto alla competizione. Se una specie A va incontro a speciazione, allora ci sarà una specie B, che è la specie sorella di A. Se A compete con B, in quanto condividono, almeno inizialmente, il medesimo habitat, allora A e B entreranno mutualmente in competizione per le risorse. Ma se A compete inizialmente con B, allora A non compete al contempo con alcuna specie sorella C, perché le condizioni di sovrapposizione e sovrappopolazione in un dato ambiente e di vicinanza parentale non saranno soddisfatte affinché tra A e C vi sia competizione per le risorse. In altre parole: la competizione farebbe evolvere nuovi caratteri a ritmi troppo lenti. Ciò significa che il principio di divergenza di Darwin può spiegare soltanto perché alcune specie si siano differenziate, ma non può essere una spiegazione valida per tutte. In particolare, il principio darwiniano può rendere conto della divergenza solo dello 0,0000125% di tutti i possibili casi fra le sole specie eucariote (sic!), cioè solo di 1 su 10 milioni di coppie. Questo lascia una percentuale troppo alta di divergenza dei caratteri priva di una spiegazione.[15] Che fare, dunque? È chiaro si necessita di una nuova legge che possa spiegare perché tutte le specie si diversifichino.
[1] Darwin, C., 1859, L’Origine delle specie, a cura di G. Pancaldi, 20164, Milano: BUR, p. 94.
[2] Ciò che distingue la selezione domestica da quella naturale è che nel secondo caso il discrimine è fondato sul concetto di competizione.
[3] Darwin 1859, pp. 123-124.
[4] Darwin 1859, p. 91.
[5] Si veda Begon, M., Harper, J., & Townsend, C., 1989, Ecologia. Individui, popolazioni, comunità, Bologna: Zanichelli.
[6] La competizione può essere interspecifica, oppure intraspecifica. La competizione interspecifica è quella competizione che si verifica tra organismi appartenenti a specie differenti, i quali entrano in rotta di collisione per fruire di un numero limitato di risorse. Un esempio è la lotta che caratterizza il rapporto tra leoni e iene per la conquista delle prede o delle carcasse (spesso uccise dai leoni). La competizione intraspecifica è quella che, invece, avviene tra organismi appartenenti alla medesima specie. Un caso tipico di competizione intraspecifica è quello della selezione sessuale, in cui i membri dello stesso sesso di una data specie entrano in lotta per accaparrarsi l’accesso all’accoppiamento con un membro di sesso opposto. Entrambe le modalità saranno un motore catalizzante per la diversificazione, lavorando la selezione in una direzione o in un’altra per favorire (sfavorire) un certo tratto che migliori (peggiori) le prestazioni di una data specie o di un dato organismo sottoposto alla pressione della competizione.
[7] Darwin 1859, pp. 125-127.
[8] Darwin 1859, pp. 127-128.
[9] Per la più feroce critica al programma ultradarwinista si veda Gould, S. J., & Lewontin, R., 1979, “The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm”, Proceedings of the Royal Society of London, 205, pp. 581-598.
[10] Per un’introduzione al dibattito in merito a tale tesi si veda Borghini, A., & Casetta, E., 2013, Filosofia della biologia, Roma: Carocci editore, in particolare cap. 3, pp. 79-91. Si faccia riferimento anche al classico riferimento per la tesi in ultradarwinista, ovvero Dawkins, R., 1989, The Selfish Gene, Oxford: OUP, tr. ita. di G. Conte e A. Serra, 1992, Il gene egoista, Milano: Mondadori. Le radici della tesi ultradarwinista sono già recuperabili in Wallace, A. R., 1899, Darwinism, Londra: MacMillan.
[11] Secondo i coniugi Grant, questo è il motivo per cui i fringuelli di Darwin hanno iniziato a differenziarsi sulle Galapagos: si sono aperte nuove possibilità nutritive e nuovi habitat, sicché la selezione naturale ha incentivato le variazioni favorevoli che hanno alleviato la pressione competitiva per la conquista delle risorse rese disponibili. Per ulteriori informazioni, si veda Grant, P., & Grant, B., 2006, “Evolution of character displacement in Darwin’s finches”, Science, 313, pp. 224-226.
[12] Brandon, R., & McShea, D., 2020, The Missing Two-Thirds of Evolutionary Theory, Cambridge: CUP; pp. 50-52.
[13] Mora, C., Tittensor, D., Adl, S., Simpson, A., & Worm, B., 2011, “How many species are there on Earth and in the ocean”, PLOS Biology, 9, e1001127.
[14] Il calcolo che genera questi 32 trilioni a partire dagli 8 milioni è una semplice operazione di insieme potenza, in cui da un insieme dato si ottiene l’insieme di tutti i sottoinsiemi di tale insieme dato.
[15] Brandon & McShea 2020, pp. 51-52.