Philippa Foot. L’etica naturalistica e il ruolo delle virtù (Parte prima)

La persona che ha la virtù della giustizia non
è pronta a fare certe cose, e se viene tentata
troppo facilmente diremo che, dopo tutto, era
pronta a farle.[1]

Supponiamo che tu sia un uomo sperduto su un’isola abitata da nativi, pacifici ma superstiziosi, che ti accolgono e ti accudiscono con tutti gli onori possibili, riponendo in te grande fiducia, offrendoti un pasto caldo al dì, un letto dove riposare e un clan al quale dedicare le tue energie e i tuoi sforzi. Supponiamo che tu disponga di una fotocamera. Hai un’occasione unica: potresti essere il primo uomo a documentare la vita dei nativi, le loro usanze e le loro tradizioni religiose. C’è, però, un inghippo: i nativi non vogliono essere fotografati, perché credono che la fotocamera catturi una parte della loro anima che resterà, poi, per sempre bloccata nel mondo terreno una volta che il corpo sarà giunto alla sua fine. Per tenerti buono il clan, prometti a ciascuno dei componenti che non li fotograferai. D’altro canto, fotografarli potrebbe rendere un grande beneficio all’antropologia culturale e offrire ai nativi un ruolo di primo piano in questo settore di studi. Cosa fare? Fotografare o non fotografare?

Philippa Foot[2] (1920-2010) è stata tra i massimi esperti a occuparsi di questo tipo di problemi: problemi etici, che ci costringono a discutere intorno ai nostri valori e ai nostri princìpi per poter decidere come agire e quale fine perseguire. Ella rappresenta una figura da gigante nel cosmo della filosofia morale contemporanea, dal secondo Novecento, infatti, è stata la protagonista della svolta aretaica, cioè del rinnovato interesse intorno all’etica della virtù di stampo aristotelico; della proposta del dilemma del carrello, che pone un dilemma morale al suo interlocutore privandolo di valori guida fondamentali per offrire una risposta intuitivamente accettabile; della critica alle etiche non-cognitiviste, che hanno reso il discorso morale impossibile perché privato, soggettivo; del rinvigorimento della teoria naturalista del bene, che oggettivizza in qualche modo i nostri giudizi morali. Di tutto questo avremo modo di occuparci più avanti. Per il momento, concentriamoci sulla sua vita.

Tra i vari problemi trattati da Foot, è opportuno focalizzarsi sulla critica alle etiche non-cognitiviste, così come alla sua “riscoperta aristotelica” delle virtù.

Ma cosa sono le etiche non-cognitiviste? Grossomodo, sono quelle teorie etiche che, a partire dai Principia Ethica (1903) di G. E. Moore, consideravano i giudizi morali – quali “Socrate è buono”, “Socrate è lodevole”, “Socrate è cattivo”, “Socrate è stato rispettoso”, “Socrate è bugiardo” ecc. – che non attribuivano una caratteristica a Socrate, bensì palesano le nostre attitudini, i nostri desideri e i nostri stati mentali nei confronti dell’oggetto del giudizio. Secondo Moore, infatti, questo tipo di enunciati non può esprimere alcunché intorno a un oggetto, perché essendo espressione di pensieri o emozioni interiori non possono derivare dall’oggetto stesso, ma solo da noi. Per cui, Moore ricava la cosiddetta fallacia naturalistica: i filosofi hanno tentato di derivare dai fatti, quindi da giudizi descrittivi, dei valori che stanno solo nella nostra mente, cioè dei giudizi morali o valutativi appunto.[3] Questa tesi di Moore viene spesso chiamata emotivista, perché prende a fondamento della nostra morale i nostri stati mentali quali emozioni, desideri, attitudini e inclinazioni d’ogni sorta. Stati mentali del genere non sono strettamente razionali e, perciò, vengono anche detti conativi. In altre parole, se Socrate è buono è perché noi desideriamo che sia così o siamo inclini a crederlo tale. Questo significherebbe che i giudizi morali dicono molto più qualcosa su di noi che su chi viene giudicato.

Sulla stessa linea, il filosofo R. M. Hare ha proposto la tesi prescrittivista, che in qualche modo rafforza la teoria emotivista, in quanto il linguaggio morale viene trattato alla stregua di un meccanismo che incita ad agire in un certo modo o a frenare una certa azione. In parole povere, Hare si impegna a sostenere che quando facciamo uso del linguaggio morale stiamo soltanto esortando gli altri ad agire in un certo modo o noi stessi ad agire in quel dato modo e a scegliere ciò che chiamiamo “buono”. Di nuovo, dunque, i nostri giudizi valutativi non riguardano l’oggetto del giudizio, bensì la nostra propensione a fare o meno qualcosa nei suoi confronti, quindi, riguardano ancora le nostre attitudini interiori e niente affatto l’oggetto sotto giudizio.[4]

Dal non-cognitivismo etico deriva, quindi, anche una forma di soggettivismo morale: se i giudizi morali rispecchiano soltanto i nostri intimi desideri e le nostre disposizioni, allora non dicono nulla intorno all’oggetto del giudizio. Detto altrimenti, i giudizi morali non sono oggettivi, perché non vi sono proprietà naturali che si configurano come “essere buono” o “essere cattivo” se non in relazione a noi che giudichiamo.

La tesi non-cognitivista era la teoria etica dominante del primo Novecento. Poi, arriva Foot e le cose iniziano a mutare molto velocemente. In articoli fondamentali, quali Le argomentazioni morali e Le credenze morali[5], vengono poste le basi per la critica distruttiva rivolta alle teorie non-cognitiviste. Nel primo articolo, Foot si occupa della teoria di Hare, secondo il quale i nostri giudizi morali del tipo “è sbagliato rubare” sono conclusioni di un ragionamento sillogistico formato da una premessa valutativa maggiore e da una descrittiva minore. Per esempio:

  • Rubare è sbagliato.
  • Socrate ha rubato.
  • Socrate ha sbagliato.

Secondo Hare, la conclusione valutativa (3) si fonda sulla premessa valutativa (1), ma qualora qualcuno ci chiedesse perché (1) è vera, allora dovremmo necessariamente disporre di un altro sillogismo nel quale la premessa maggiore sia valutativa e la minore descrittiva e così via all’infinito per giustificare questo secondo sillogismo e poi tutti gli altri. Poiché questi sillogismi valutativi finiscono nell’impasse del progressus in infinitum, allora sono razionalmente infondati. Le decisioni e le valutazioni morali, dunque, non involgono ragioni, ma attitudini, desideri o stati conativi. Hare, poi, usa questo stesso ragionamento per ritenere valida la tesi secondo cui da nessuna premessa descrittiva si può derivare una conclusione valutativa, cioè, non vi è implicazione tra fatti e valori.[6]

Per Foot il ragionamento di Hare è viziato a monte, infatti, se avesse ragione, allora ogni termine morale sarebbe sostanzialmente privo di criteri pubblici per il suo uso.[7] Assumendo la tesi di Hare, affibbiare “buono” a Socrate dipende dalla mia disposizione nei suoi confronti. Ma, allora, potrei dire che Socrate è buono in maniera diversa rispetto a come gli altri parlanti competenti dicono che Socrate sia buono. Se tutti, però, usassero le parole un po’ come pare loro, allora non ci sarebbero più parlanti competenti!

 Per rafforzare questo punto, Foot ricorre all’esempio della persona scortese. Quand’è che possiamo dire che una persona è scortese? “Scortese” è sicuramente una parola valutativa, quindi morale, ed esprime una condanna di un certo comportamento, seppur in maniera abbastanza blanda. Tuttavia, per Foot, non è possibile usare questa parola un po’ come ci pare, cioè a seconda dei nostri soli stati emotivi. Anzi, possiamo dire di qualcuno che è scortese solo a certe condizioni di verità, ossia solo se valgono certe descrizioni. Per esempio, un uomo è scortese se entrando in casa di qualcuno non si toglie il cappello, oppure se per passare tra la folla inizia a spintonare le persone, oppure se risponde in modo irrispettoso al cameriere che gli serve un piatto in leggero ritardo e così via. Sembra che chi ritenga tali comportamenti offensivi non possa non affermare che quell’uomo è scortese. Questo significa che a partire dai fatti e da proposizioni descrittive (i comportamenti dell’uomo) si possa derivare un uso appropriato di un giudizio valutativo sulle qualità morali di tale uomo.[8] A fortiori, il sillogismo proposto da Hare può essere ritenuto un costrutto fruibile da parte dell’agente in situazioni moralmente rilevanti proprio perché non si richiede una giustificazione personalistica della premessa maggiore, ma è sufficiente un riferimento ai criteri pubblici d’impiego dei termini che figurano in suddetta premessa.

La critica al soggettivismo continua anche più duramente in Le credenze morali. Qui, Foot si pone una domanda di enorme peso concettuale, che guida l’intero saggio:

La domanda cruciale è la seguente. È possibile estrarre dal significato di parole come “buono” qualche componente, detta “significato valutativo”, che possiamo pensare abbia una relazione esterna con i suoi oggetti?[9]

Foot riprende la tesi secondo cui i termini morali, come ogni altro tipo di parola, debbano essere impiegati secondo criteri pubblici, altrimenti verrebbe meno l’intelligibilità dei termini stessi. D’altronde, non per ogni cosa possiamo dire che è buona. Se vi sono criteri pubblici per l’uso delle parole, allora vi è una relazione esterna tra queste e il mondo cui la parola si riferisce (Foot 2008, pp. 46-47). Consideriamo il caso dell’orgoglio: si può provarlo solo quando l’oggetto per cui lo si prova è proprietà di chi prova orgoglio ed è stato ottenuto attraverso una sorta di conseguimento o di vantaggio. Supponiamo, ora, che vi sia una signora che stringe le sue stesse mani l’una sull’altra per tre volte di seguito. Se Hare ha ragione, allora la signora potrà benissimo provare orgoglio per quanto ha fatto. Tuttavia, secondo i criteri di impiego della parola “orgoglio” sembra alquanto improbabile che un tale uso della parola sia corretto secondo la nostra competenza semantica. La prospettiva di stringere le mani l’una all’altra per tre volte, infatti, non pare neanche particolarmente sfidante per poter suscitare un senso di traguardo raggiunto o vantaggio conquistato.

Se una parola come “orgoglio” può, quindi, avere criteri d’uso, allora anche “buono” avrà dei criteri d’uso, così come “cattivo”. Quali sono questi criteri? Sono gli scopi delle azioni. Quando diciamo “questa è una buona azione” intendiamo, come criterio d’uso, che quella azione sia impossibile considerarla cattiva se è utile almeno a qualcuno. Allo stesso modo, un’azione è impossibile non reputarla cattiva se essa causa un danno – senza che da tal danno derivi qualche beneficio – a chi l’ha subita (Foot 2008, p. 55). Ma i termini morali non involgono soltanto l’utilità pura e cruda, essi riguardano anche la volontarietà degli atti buoni che vengono compiuti. Infatti, se un uomo fosse costretto dalla sua fidanzata a elargire l’elemosina a un clochard e non perché sia mosso davvero da un senso di carità verso il bisognoso all’angolo della strada, allora non per il solo fatto di aver fatto l’elemosina saremmo disposti a considerarlo buono. Questo dato ci conduce alla cosiddetta svolta aretaica, grazie alla quale la nozione di virtù viene reintrodotta nel dibattito etico contemporaneo.


[1] Foot, P., 2008, “Credenze morali”, in Virtù e vizi, tr. ita. a cura di L. Ceri, il Mulino, Bologna: p.66.

[2] Philippa Foot Bosanquet nasce il 3 ottobre 1920, dalla madre Esther Cleveland e il padre William, nello Yorkshire, Inghilterra. Apparteneva a una famiglia dell’alta borghesia, il padre, infatti, era un ricco industriale. Philippa venne educata privatamente in casa, finché nel 1939 decise di iscriversi al Sommerville College dell’Università di Oxford, ove studiò “Politics, Philosophy and Economics”, laureandosi nel 1942. Nel 1945 si sposa con lo storico Michael R. D. Foot, dal quale si separerà qualche anno più tardi. Tra gli anni ’60 e ’70 intrattiene rapporti d’amicizia coi filosofi oxoniensi G. E. Anscombe e P. Geach, dai quali sarà influenzata e influenzerà a sua volta, dando vita a quella prima compagine di filosofi morali che darà sostanza al rinnovato interesse per l’etica della virtù.

[3] La fallacia naturalistica è collegata alla legge di Hume, secondo cui non si deve mai derivare il dover essere dall’essere: si è sempre ucciso le balene per derivarne grasso, ma non è conseguenza di questo fatto che si debba continuare a farlo. Per questa e altre questioni sul non-cognitivismo si rimanda a Neri, D., 1999, Filosofia morale. Manuale introduttivo, Guerini Studio, Milano, cap. 7.

[4] Per la posizione di Hare si rimanda al datato ma classico Hare, H. M., 1952, The Language of Morals, Clarendon Press, Oxford.

[5] Entrambi nella raccolta del 2008, Virtù e vizi.                 

[6] Hare 1952, pp. 69-71.

[7] Foot assume la tesi di Wittgenstein intorno all’impossibilità del linguaggio privato. Non possiamo qui esplorarne la profondità, per ovvie ragioni di spazio. Per gli interessati si rimanda a Wittgenstein, L., 1999 (1953), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, parr. 243-315.

[8] Foot 2008, pp. 32-33.

[9] Foot 2008, p. 45 (corsivo mio).


Matteo Orilia

Matteo Orilia

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