Silvia Tebaldi scrive di umanità, bellezza e memoria

Silvia Tebaldi, Il lettore dell’acqua
zona42, 2023

A Bologna si è verificato il Guasto, un evento che ha gettato la città nel caos in un’estate molto calda. A Bologna c’è Elia, un lettore dei contatori dell’acqua, che cerca aiuto per la sua amica Mara, affetta da una strana malattia: occhi infuocati, viso pieno di peli, vertigini, angoscia. Nella stessa città c’è anche Rita, specializzata in medicina del lavoro, in servizio in un ambulatorio che sembra un consultorio di periferia; c’è Paola, un’infermiera nell’unico ospedale pubblico ancora in piedi, che aggiorna Rita su insoliti ricoveri di donne con gli stessi sintomi di Mara. E poi, a Ferrara, Reba e la misteriosa Regina Lipschutz.

La città, ciò che ne rimane, si snoda intorno a canali d’acqua nera, chiuse e grate posticce, e in seguito al Guasto è sbigottita, disorientata. Ex teppisti, gente sorvegliata che non può lasciare la città, vengono ingaggiati per assicurare il nuovo ordine: nessuno spiega, nessuno racconta, tutti si adattano come possono all’isolamento digitale, al deterioramento di edifici, allo smantellamento dei servizi. Gli anziani depositari di memoria e mestieri si adattano con facilità; i giovani sono i più penalizzati ma si organizzano in un luogo, l’Università delle Moline, in cui si riparte dal baratto, dalla banca del tempo e dalla convivenza solidale;  le donne si ammalano, vengono ricoverate, tenute in isolamento in attesa di qualche dato clinico che possa aprire spiragli, strutturare ipotesi. Tutte tranne Mara che viene accompagnata da Rita a casa di Reba e Regina e lì, custodita in una cantina che vibra, scalda e si contrae come un grembo materno, guarisce.

Silvia Tebaldi ha scritto una storia distopica che porta avanti sin dal titolo, una pagina dopo l’altra, significati e simbologie affascinanti. La sua scrittura evocativa, a tratti poetica, in certe pagine tagliente e asciutta, crea un incanto cui è difficile sottrarsi.

L’acqua dei canali di Bologna diventa un liquido amniotico torbido che culla la morte; la città, un grembo tossico. Le donne che, depositarie di doveri e fatiche, a un tratto collassano e si ammalano, sono il germe fecondo di un’energia che muore e rinasce da capo; come i misteri e la chimica dell’acqua che reca con sé traccia di tutte le cose che tocca, erode e scioglie, in un’eterna metamorfosi fra la vita e la morte. È una memoria liquida, quella che investe Bologna dopo il Guasto, che tocca rive, porte, soglie, s’infila negli anfratti, inonda canali, rimbalza sulle chiuse e scorre fra le maglie delle grate. Il lettore dell’acqua ha uno sguardo prezioso sul mondo, la sua residua bellezza e i suoi guasti, sugli occhi infuocati di Mara e le sue lacrime di guarigione.

La casa di Reba, con i corridoi e le cantine seminterrate, è rifugio e nascondiglio perfetto, luogo di cura e guarigione. È il posto in cui Mara recupera le energie e guarisce, ma anche quello in cui Reba, artista sorda, ha illuminato il cammino dipingendo l’acqua su una delle pareti sotterranee. Tutto nella casa s’intreccia, così come nel corpo delle donne che sono al tempo stesso madri, amanti, amiche, sorelle e figlie; luminose come il sole e misteriose come la luna, che sanno “portare il lutto e cantare”. E fra l’acqua e il cielo, un disvelamento: la luna femmina celeste, arcano antico dei tarocchi, significatore delle cose oscure, si afferma sul sole. In quel momento nella casa dell’affresco una donna che è stata ogni cosa, “ragazza e ragazzo, levatrice e archivista (…) un’anfora e un grido, un muto pesce nel fondo del mare”, racconta l’Apeiron, svela ogni cosa che è e non è mai stata, che di continuo si trasforma, muore e rinasce, si distingue e si sovrappone: la paura e il coraggio, l’istinto e la ragione. Come tutte le cose umane e come il moto incessante dei pianeti.


Giusi D’Urso

Redazione

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