Puoi leggere qui la prima parte dell’articolo.
In questa seconda parte del nostro approfondimento su Philippa Foot, ci concentreremo sulla “svolta aretaica” e sulla centralità assunta, all’interno della sua nomenclatura etica, da virtù e vizi.
Nell’opera intitolata per l’appunto Virtù e vizi (2008), Foot evidenzia come le virtù posseggano tre caratteristiche essenziali: a) sono benefiche; b) sono disposizioni della volontà; c) sono correttive. Proprio il secondo punto ci obbliga a considerare le virtù tra i concetti specifici dell’etica secondo la filosofa inglese.
Le virtù sono benefiche, ossia il loro possesso implica che la persona virtuosa sia anche una persona buona. Senza di esse, infatti, gli esseri umani non vivono bene, basti pensare a sistemi politici squallidi come i regimi totalitari del XX secolo presso i quali le virtù della giustizia, della temperanza e della carità erano avversate in ogni modo e in ogni scelta. In questi luoghi le libertà umane basilari e i diritti civili venivano continuamente calpestati, rendendo un paese intero servo di un singolo capo che senza saggezza assecondava i suoi desideri. Si può davvero sostenere che in quei paesi totalitari si vivesse bene?
Si pensi anche ai rapporti interpersonali: la capacità di mantenere le promesse ed essere leali verso il prossimo – un amico, un partner o un familiare – sono decisamente virtù che rendono buona la nostra condotta. Di più, sono tratti caratteriali necessari per il corretto funzionamento della società. Se non si fosse capaci di essere leali verso gli amici, ma si fosse invece sleali, allora non sarebbe possibile costruire e mantenere un rapporto serio e solido con l’altro, in quanto le attese sarebbero costantemente disattese e, infine, sorgerebbero motivi insanabili di conflitto tra i presunti amici. Le virtù, pertanto, sono benefiche almeno nel rendere possibile nel modo migliore la vita umana, ed essendo l’uomo animale razionale e sociale, allora avrà una vita imperniata su rapporti ragionevoli e sociali con altri uomini. Scrive Foot:
Se ci chiediamo se Geach avesse ragione ad affermare che l’uomo ha bisogno delle virtù come l’ape del pungiglione, la risposta è certamente sì. Gli uomini e le donne hanno bisogno di essere industriosi e tenaci nei loro obiettivi non solo per riuscire a trovare un alloggio, per nutrirsi e coprirsi, ma anche per raggiungere fini tipicamente umani, che hanno a che fare con l’amore e l’amicizia. Hanno bisogno della capacità di formare legami familiari, rapporti di amicizia e relazioni speciali con il prossimo, così come di codici di comportamento. Ma come potrebbero avere tutto questo, senza virtù come la lealtà, l’onestà, la gentilezza e, in certe circostanze, l’obbedienza?[1]
Bisogna chiedersi: se le virtù sono benefiche, a chi è che apportano un beneficio? Consideriamo la tradizionale lista di quattro virtù cardinali: saggezza, coraggio, temperanza e giustizia. Si nota quasi a colpo d’occhio che mentre saggezza, coraggio e temperanza procurano un beneficio sia a chi le possiede sia agli altri, l’essere giusti sembra essere un beneficio più per gli altri che per se stessi (Foot 2008, p. 5). La giustizia, per esempio, ha a che fare con ciò su cui gli altri possono esercitare un diritto, quindi tratta di ciò che agli altri è dovuto. A volte, la persona giusta deve addirittura rinunciare a un proprio tornaconto pur di agire in modo imparziale e dare a Cesare quel che è di Cesare. Al contrario, se una persona è temperante, allora dinanzi alla possibilità di lasciarsi andare a un eccesso o a una tentazione, potrebbe trovare la forza di contenersi e non assecondare quel desiderio. Se, per esempio, potesse mangiare più del dovuto ma riuscisse a moderarsi, allora farebbe sicuramente un beneficio a se stessa: il colesterolo sarebbe entro i valori normali, così come il suo stomaco non sarebbe appesantito e non correrebbe il rischio di sviluppare il diabete sul lungo periodo. Allo stesso modo, saggezza e coraggio sembrano essere più virtù del modo di vivere del singolo piuttosto che atteggiamenti proficui per la vita sociale.[2]
Appurato che le virtù sono benefiche per sé o per gli altri, bisogna chiedersi: anche essere forti e in salute può essere un beneficio, ma che cos’è che differenzia l’essere in salute dall’essere, diciamo, saggi? Ciò che è buono in una persona virtuosa è la volontà, mentre nella persona in salute è il corpo.[3] Ma in che senso la virtù riguarda la volontà? Le disposizioni morali vengono giudicate sulla base dell’intenzione di essere buoni. Non si può essere davvero buoni per fortuna, è necessario che vi sia l’intento di fare del bene ed è principalmente questo che la virtù assicura all’uomo saggio: egli ha intenzione di essere eccellente nella condotta morale verso sé e gli altri. La volontà, intesa come ciò che desidera e ricerca un certo fine, è buona nella misura in cui è connessa alla saggezza. Perché proprio la saggezza? Perché essa è conoscenza pratica di ciò che è buono.[4] Scrive Foot:
La saggezza, così come la intendo io, consiste di due parti. In primo luogo, la persona saggia conosce i mezzi per raggiungere certi fini buoni; e, in secondo luogo, sa quanto valore hanno i fini particolari. […]. L’intelligenza è la capacità di fare i passi giusti per raggiungere qualunque fine, mentre la saggezza è collegata soltanto ai fini buoni.[5]
Sembra evidente come Foot ritenga che la saggezza abbia un ruolo primario e dirigente rispetto alle altre virtù, specialmente rispetto al rapporto che essa tesse con la volontà. Senza la saggezza, infatti, non si potrebbero volere fini buoni, ma si potrebbe volere qualunque fine, anche quello cattivo, che cioè danneggia sé o gli altri. La persona saggia, pertanto, non saprà solo come raggiungere i buoni fini, ma li desidererà anche. Senza volerli, infatti, come potrebbe mai raggiungerli? Resterebbe ferma a contemplarli. Inoltre, la persona saggia sa anche quale valore attribuire ai fini, non correndo il rischio di formarsi dei falsi valori come “uccidere è sempre sbagliato”, o “non si deve mai mentire”. In certi casi, infatti, uccidere può essere la sola cosa da fare, come nei casi di legittima difesa. Ugualmente, mentire a un generale delle SS naziste dicendo che una famiglia di ebrei non è nascosta nel nostro scantinato è un atto onorevole e coraggioso. È la saggezza, quindi, che rende buona la nostra volontà in quanto la dirige verso fini buoni.
Infine, Foot fa notare come le virtù siano correttive:
Ora passerò a un’altra tesi sulle virtù, che potrei esprimere dicendo che esse sono correttive, perché ciascuna si trova dove c’è qualche tentazione cui si deve resistere o qualche carenza di motivazione da compensare. Come diceva Aristotele, le virtù riguardano ciò che è difficile per le persone.[6]
Le virtù sono difficili da praticare. In molti casi è più semplice fare il male che il bene. Per esempio, costruendo una casa senza coibentarla è sufficiente a renderla una cattiva abitazione. Ma coibentarla non è sufficiente a renderla una buona abitazione, perché dovrebbero essere richieste molte altre condizioni quali un buon orientamento per massimizzare la fonte di luce solare, un soffitto sufficientemente alto, una disposizione razionale dei vani interni, un arredamento esteticamente appagante oltre che funzionale e così via. Allo stesso modo, essere viziosi, ossia cattivi, può risultare semplice in quanto lasciarsi andare alla tentazione di mangiare di più del dovuto, di non essere fedeli al proprio partner, di procrastinare un impegno, oppure ignorare ciò che sarebbe bene fare come il letto a prima mattina, lavare i denti, non rispondere a un messaggio vecchio di due o tre giorni sono tutte tentazioni o mancanze di motivazioni che facilmente hanno presa sul nostro naturale istinto a risparmiare energie o a procacciarci il maggior numero di risorse possibili. Qualcuno potrebbe dire, appunto, che il vizio è connaturato alla forma di vita umana. Ma per Foot, sebbene le virtù siano difficili da rispettare dal punto di vista performativo, esse lo sono esclusivamente rispetto a chi è virtuoso in modo imperfetto, non rispetto a chi lo è in modo perfetto.[7]
La volontà buona, guidata dalla saggezza, non è sufficiente a rendere gli uomini davvero virtuosi. Anche se si possiede tale volontà, per poter essere davvero virtuosi ci si deve abituare ad agire in un certo modo e con una certa disposizione. Una persona che abbia la tentazione di rubare, ma si trattiene dal farlo, è certamente virtuosa, però, non lo è in modo perfetto. La persona davvero buona non è neanche tentata da questa possibilità. Della persona onesta diremmo che “non le è neanche mai passato per la testa” di poter derubare qualcuno. Lo stesso vale per l’esempio dell’uomo imperfettamente caritatevole di poc’anzi: egli è stato virtuoso nelle azioni ma non nell’intenzione. Egli è stato moralmente inautentico, perché ha eseguito solo un’azione conforme alla virtù ma il suo animo non è stato guidato dalla volontà buona. Un uomo moralmente autentico, invece, non ha di queste dissociazioni etiche proprio perché su un unanime livello di coerenza agiscono la sua volontà, la sua abitudine e la sua azione.[8] Le virtù, dunque, sono sì correttive, ma solo per chi è ancora moralmente inautentico, o virtuosamente imperfetto.
La filosofia morale di Foot si configura, in conclusione, come una riscoperta del “naturalismo etico” di influenza aristotelica.[9] Infatti, ciò che è buono per l’uomo è strettamente determinato dalla sua forma di vita, ovvero dalla sua specie di appartenenza. E qual è la forma di vita umana se non quella che consiste nell’esemplificare socialità e razionalità? Scrive Foot:
Pensiamo ancora una volta alle piante e agli animali e interroghiamoci sulla relazione che intercorre fra la bontà e il difetto di un individuo e ciò che conta come pieno sviluppo per un membro della specie a cui appartiene. Svilupparsi pienamente qui significa esemplificare la forma di vita di quella specie, e per sapere se l’individuo è o non è come dovrebbe essere occorre conoscere la forma di vita della specie.[10]
Se si può stabilire cosa sia il bene di piante e animali, allora si potrà stabilire – fatte le opportune correzioni di forma – anche ciò che è bene per l’essere umano sulla base delle caratteristiche e dei tratti specie-specifici. In altre parole, qui si introduce apertamente il tema del bene naturale. Siamo buoni se e solo se realizziamo ciò che siamo per natura. Esistono elementi oggettivi relativi alla specie cui si appartiene che, se posseduti, rendono buoni l’individuo che appartiene a quella specie. Per esempio, un’aquila reale che non avesse una vista tanto efficiente da poter scrutare una preda anche da cento metri di altezza non sarebbe una buona aquila. Ugualmente, un albero i cui rami non fossero abbastanza alti da poter arrivare a carpire molta luce solare anche rispetto agli altri competitori della stessa specie non sarebbe un buon albero. Allo stesso modo, un uomo che non fosse socievole, razionale, intelligente, saggio, disposto a comportarsi in modo giusto, curioso rispetto al mondo che lo circonda e sempre pronto a conoscere nuove verità non sarebbe una persona buona, data la sua natura di animale sociale e razionale.
Appare evidente come per Foot il bene consista in una tensione verso il perfezionamento di sé, come realizzazione di ogni individuo rispetto alle caratteristiche essenziali della sua specie. Nel nostro caso, l’esercizio delle virtù si confà all’eccellenza che per Homo sapiens sarà imperniata sulle caratteristiche fondamentali di razionalità e socialità.
Che cos’è che siamo? Che cosa significa essere umani? Secondo Foot, vuol dire essere felici. Ma viene qui impiegata una nozione di felicità diversa da quella del senso comune. La felicità non è un semplice stato mentale momentaneo molto simile alla gioia, bensì qualcosa di più profondo legato al concetto aristotelico di eudaimonia: il fiorire interiore secondo le proprie potenzialità. Tale nozione di felicità risulta inseparabile rispetto alla virtù discussa nel paragrafo precedente (Foot 2007, p. 112). Consideriamo gli innumerevoli casi di resistenza al nazifascismo durante gli anni ’43-’45 del secolo scorso. Molti uomini avevano molto per essere felici: una donna che amavano, dei figli da crescere, dei genitori cui tornare, degli amici da proteggere e così via. Tuttavia, essi misero a repentaglio la loro felicità per qualcosa di più profondo. Essi lottarono perché era onorevole, responsabile e coraggioso farlo. Qualora gli fosse stata data la possibilità di tornare alla loro vita prima della guerra, l’avrebbero certamente afferrata. Eppure c’è un senso chiaro per cui per loro quella vita non era più accessibile: quella felicità non era più possibile, ma una forma diversa di felicità sì, una forma che rende quegli uomini degli esempi di brave persone. È quella stessa felicità che attribuiremmo a chi, sacrificando la sua vita in nome della giustizia, direbbe che non sta sacrificando anche la sua felicità, perché per lui quella felicità non è più possibile. Sarà per lui possibile, invece, agire in maniera eccellente, in modo da realizzare la propria naturale propensione alla libertà, alla lealtà, alla difesa comune, al coraggio e alla ricerca del meglio. Concludiamo, pertanto, con le parole della stessa Foot:
Abbiamo un’interpretazione di «felicità» che si avvicina all’eudaimonia aristotelica, perché l’operare in conformità con le virtù è parte del suo significato. Nella mia terminologia «felicità» è provare gioia per le cose buone, cioè gioia nell’ottenere e perseguire fini giusti.[11]
Matteo Orilia
[1] Foot, P., 2007, La natura del bene, il Mulino, Bologna, p. 58.
[2] Foot 2008, pp. 5-6.
[3] Foot 2008, p. 6.
[4] Foot 2008, pp. 7-8.
[5] Foot 2008, p. 8.
[6] Foot 2008, p. 11.
[7] Foot 2008, pp. 11-15.
[8] Foot 2008, p. 17.
[9] Per Aristotele, la virtù è uno stato abituale dell’anima. Nel caso dell’essere umano, essa è stato abituale dell’anima razionale e, infatti, virtù come essere coraggioso o essere moderato sono “obbedienti alla ragione” quand’esse appartengono all’uomo veramente buono, che è per definizione animale razionale. Si veda Etica Nicomachea, I, 13 per approfondimento.
[10] Foot 2007, pp. 110-111.
[11] Foot 2007, p. 115.