Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario
Terrarossa edizioni, 2023

Io credo che la primissima malattia di uno scrittore sia la scrittura. Tutti i mali o malesseri che potrebbero affliggerlo non sono che un’ovvia conseguenza del suo destino di scrittore, un po’ come la solitudine (e invece Pamuk direbbe una condizione sine qua non). Dunque, per quello stesso principio dell’omeopatia – curare il male con il male -, la malattia dello scrittore si cura scrivendo. Potrebbe essere la stessa illusiva convinzione dell’adolescente che soffre pene d’amore per lui curabili solo con la causa che le ha scaturite: chi lo fa soffrire, perlopiù rifiutandolo. Principi senza fondamento scientifico, eppure affascinanti, o almeno consolatori.
Capita allora che nell’estate del 1996, Ezio Sinigaglia si ritrovi, sospinto dal suo dottore, a indagare le cause del suo male: una depressione o una tendenza alla tristezza e all’apatia. Nasce così Sillabario all’incontrario, pubblicato solo quest’anno da Terrarossa edizioni. Lo scopo è quello, ricalcato sullo schema dei romanzi gialli, di ricostruire, indizio dopo indizio, il motivo della malattia. Qui, però, l’inizio corrisponde alla fine, e cioè alla Z, e la fine corrisponde all’inizio e cioè la A. Un sillabario capovolto che parte dal presente compiendo, inaspettatamente, un ciclo di ritorno alla fine stessa. È il sillabario capovolto dell’infanzia dello scrittore, un esperimento magico e riuscito di letteratura come cura; egoistica eppure profondamente universale, e quindi riuscita. Ma, diversamente da un giallo, gli indizi che, lettera dopo lettera, Sinigaglia scorre come disossando un rosario di meditazione all’incontrario, non portano ad alcun disvelamento: il finale non esiste, o forse esiste fin quando esiste un lettore, che può solo dedurlo da sé.
La genesi e l’esperienza di costruzione del suo Sillabario ce la spiega Sinigaglia stesso in una puntata dedicata del podcast “Tra le pagine” di Terrarossa edizioni che consiglio vivamente di ascoltare. Rimane, tuttavia, sciolta e libera la possibilità lasciata al lettore di trovare la risoluzione a questo enigma. Un enigma esistenziale e che io, da lettrice che tenta di assolvere al proprio gustosissimo compito, rimanderei ancora alla scrittura stessa.
Questo “egocentrissimo” errare lungo la linea della propria esistenza, scandagliando i diversi strati dell’io, sembra però un lusso senza scopo: se non fosse ribadito da egli stesso, non apparirebbe così esplicito l’impegno indagatorio dell’autore. A guidarlo, sembra più l’impulso scrittorio, l’istinto di sopravvivenza che recita “scrivere o morire”, “scrivere per non morire”, ma anche il piacere estetico e narcisistico di sapersi scrittore: Sillabario all’incontrario inciampa così in divagazioni profonde e giocose, letterarie e superflue, dove ogni capitolo, corrispondente a turno a ognuna delle lettere dell’alfabeto, diventa una storia a sé, un frammento di storia indipendente e correlata, inutile e necessaria, inevitabilmente un frammento di Letteratura con la lettera maiuscola. La prosa volatile e leggera di Sinigaglia, fatta di molti punti e di frequenti due punti, ha una grande forza evocativa. Evoca immagini, e sensazioni. Ma soprattutto umanità. Questa storia (o queste storie) autobiografica svela uno e tutti gli uomini.
Il nettare che Sinigaglia succhia dall’operazione scrittoria è anche il suo modus operandi riflesso qui nel suo usus scribendi: la possibilità di mettere in atto, col mezzo che con maggior abilità sa usare, la giocosità acrobatica dell’umorismo. Lo scrittore si esplora attraverso le parole con quella che lui stesso definisce “occhiuta sorveglianza autocritica dell’ironia”: questo gli permette di affrontare con sfrontata leggerezza (senza censure) le curve “basse” ed “eroticamente peccaminose” della sua esistenza: quelle che lui chiama crimini o azioni cattive, quelle “brutalità” necessarie o animalesche che la società ci abitua a vivere come colpe. È all’altezza della lettera E, E di Eros, ma a intervalli cadenzati in tutti il libro, quando Sinigaglia fa i conti con la propria sessualità, che l’articolazione delle frasi, la ricerca delle metafore e/o delle similitudini, la forza delle descrizioni provocano vertigini di ammirazione per la sua prosa.
Sillabario all’incontrario corre, però, un rischio: agli occhi dei meno attenti o dei più pigri, può, secondo me, sembrare un libro sul nulla che porta a nulla. Pensare questo è, però, una grande occasione mancata più che un semplice errore. È plausibile chiedersi, ad un certo punto della lettura, quale sia la fine, dove voglia esattamente arrivare queto libro sviluppato intorno a catene di causa-effetto: da nessuna parte e ovunque, è questo il bello. L’arrivo non è infatti la fine, che è l’inizio, né la fine che è all’inizio. Il cuore del libro è il suo centro, è il suo essere un tentativo.
Individuo, approssimativamente, il centro dell’alfabeto intorno alla lettera I: I di “insuccesso”, I di “inedito” come scrive Sinigaglia. Essere uno scrittore inedito, come lo era allora Sinigaglia, era essere uno scrittore di insuccesso, nel mentre, la verità è che uno dei piaceri dello scrittore è essere letto. Deduco, con l’aiuto di qualche indizio del sillabario, che, dal centro, parta il raggio che tocca tutte le inclinazioni di questo circolo chiuso: la malattia di Sinigaglia era (è e sarà per sempre?) quella di uno scrittore hanté: i suoi inediti accumulati lo “occupano” e riverberano nei suoi circuiti mentali come voci che non si possono ammutolire. Nel dubbio, scrivere, ancora.
Presentato da Lorenza Foschini, Sillabario all’incontrario di Ezio Sinigaglia è tra i titoli proposti per la LXXVII edizione del Premio Strega.
Marica Gragnaniello