Maid, non chiamateci vittime

C’è questa storia che è successa a una mia amica. Lei non ha un cazzo voglia di parlarne, per quanto le persone coinvolte e le stesse circostanze siano ormai lontane. Raccontare questa storia significherebbe per lei riconoscere e concretizzare qualcosa che per anni ha cercato di tenere separata da sé stessa. È questo che succede a chi è sopravvissuto a un abuso. Chi ha subito un abuso desidera un sacco di cose, ma su tutte desidera che l’abuso non arrivi a fare parte della sua identità. Vuole rimuovere quell’esperienza e la componente estranea con essa introiettata per ricostituirsi alle proprie condizioni. Per questo so per certo che la mia amica ha subito un abuso. Per questo, e per il desiderio di rivalsa che questa brutta storia le ha lasciato.

Come molte storie dello stesso tipo, anche questa comincia dalla fine, ovvero nel momento in cui qualcosa che lei stessa non saprebbe definire la spinge ad alzarsi dal letto durante la notte e a scappare in silenzio per non svegliare il compagno. Non andrà molto lontano, perché lui ha avuto cura di chiarirle già da tempo quanto fosse inadeguata alla gestione economica e con ciò si è fatto carico di tutti i suoi risparmi dopo averli dirottati sul proprio conto bancario. In tasca ha pochi spicci e la macchina è in riserva (macchina che, naturalmente, è intestata a lui). Per quanto lo vorrebbe non può andare da sua madre, che a differenza sua non è mai riuscita a trovare il coraggio per sganciarsi dal controllo dell’ennesimo fidanzato-padrone e anche quando si è sentita trascinare sul limite della salute mentale ha continuato a passare da un uomo all’altro in cerca di quella protezione che si è presto trasformata nell’ennesimo ricatto.

Quello che la mia amica sta per fare è un atto eroico e lei lo sa. Da qui in avanti tutti coloro a cui è mancata la sua forza saranno pronti a negarle il sostegno di cui ha bisogno, accusandola con rabbia che per lei è sempre stato tutto così facile. Ancora peggio, non sarà in grado di chiedere aiuto, perché non ha alcuna evidenza di abuso da documentare. Lei per prima respinge la definizione ed è contraria a coniugarla col suo caso, avendo il cervello spaccato a metà da un amor proprio che le impedisce di visualizzarsi nel ruolo di una vittima, mentre nell’altra metà rimbalzano e attecchiscono le ripetute accuse che la sua infelicità non sia nient’altro che un capriccio. Perché nessuno, in nessun luogo civile di questo mondo civile, potrebbe negare che con lei lui è sempre stato buono.

Tanto per cominciare, non l’ha mai picchiata. Le ha procurato un appartamento comodo e l’ha affrancata dal lavoro, con la sola condizione che fosse lei a occuparsi delle faccende domestiche. L’ha sollevata dalle incombenze burocratiche, di cui si è assunto il controllo totale. L’ha privata della conoscenza dei propri diritti e di qualsiasi prospettiva che non fosse vincolata a lui, finché (la conseguenza più profonda e più sottile) lei stessa non si è sentita più in grado di muovere un passo da sola, cominciando a nutrire il sospetto che nonostante i suoi sforzi non avrebbe mai raggiunto niente nella vita, dal momento che la sua sola abilità era far risplendere un fornello. E perfino su questo lui aveva qualcosa da obiettare. «Non lo dico per criticarti, ma per aiutarti a migliorare» era il leitmotiv con cui le rendeva evidente che niente di ciò che faceva era abbastanza. Ma non l’ha mai picchiata. Per questo le è difficile spiegare a chi è stato deputato ad aiutarla per quale ragione dovrebbe prestarle assistenza.

Se questa storia ha un lieto fine è solo perché la mia amica ha trovato il coraggio di fare la cosa più difficile di tutte: assolvere il proprio carnefice e lasciarlo libero di andare; restituirgli la macchina e farsi a piedi il resto della strada. Ancora oggi non mi capacito di come sia riuscita a congedarsi con sole quattro firme e due marche da bollo, senza reclamare nulla di ciò che le spettava, senza mai arrabbiarsi davvero neppure una volta. Ci sono molti modi in cui sarei potuta intervenire per spingerla a considerare quello che ai miei occhi appariva come follia – lui che se ne andava impunito dopo averla privata di tutto – ma lei è stata così brava a mostrarmi come niente di ciò che aveva perso valesse il prezzo della sua felicità che ho deciso di darle fiducia. Mi sono insegnata a capire quanto fosse importante per lei fare affidamento sulle sue stesse forze, dal momento che questo costituiva al contempo la terapia e la cura. Così, quando ancora le chiedo come ha fatto ad affrontare tutto questo, lei risponde sorridendo che ha avuto accanto un angelo, e che quell’angelo l’ha aiutata a non sentirsi una vittima. Una sopravvissuta, piuttosto: questo è il nome in cui si riconosce.


Sara Mazzini, scrittrice e editor freelance, è redattrice di In allarmata radura. Ha pubblicato il romanzo Centinaia di inverni. La vita e le morti di Emily Brontë (Jo March, 2018) e partecipato all’antologia Ritorno a Hanging Rock (Arcoiris, 2021).

Redazione

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