Era primavera e il fotografo, con l’occhio incollato al mirino della reflex, pensava a quell’indomabile istinto che induce milioni di uccelli ogni anno a spostarsi dai luoghi temperati per raggiungere latitudini più settentrionali in cui nidificare. La sua maggiore ambizione era fotografare l’aquila reale, ma un certo fascino rappresentavano tutti i rapaci. Quel giorno, tuttavia, dovette accontentarsi dei passeriformi.
Mentre cercava di inquadrare un codirosso spazzacamino fermo su un ramo udì, tra i cespugli a pochi metri da dove era appostato, un rumore, simile ad un fruscio. Abbassò la macchina fotografica e guardò rapidamente tra i rami. Appena un secondo durante il quale non si mosse nulla, poi rialzò il capo e ripuntò il grosso teleobiettivo verso l’alto. Poco dopo, udì nuovamente un suono, come se qualcuno stesse spezzando dei ramoscelli, ma non vi diede peso, catturato com’era dal volo del codirosso. Quando l’uccello sparì negli anfratti di una roccia, il fotografo abbassò il teleobiettivo per controllare gli scatti e udì di nuovo, e in maniera inconfondibile, un rumore provenire dai cespugli. Ne era certo: c’era qualcosa che si muoveva all’interno. Indietreggiò con movimenti lenti fissando il terreno davanti a sé, intimorito dalla possibilità che qualche animale potesse spuntare all’improvviso. Poi si guardò attorno, sull’erba vicino al sentiero, c’era un ramo di un metro circa, curvo e sottile. Lo afferrò dopo aver lasciato la macchina fotografica a terra e si avvicinò al cespuglio con circospezione. Diede un colpo librando il ramo come un bastone, poi rimase immobile per alcuni secondi finché vide qualcosa muoversi; sembrava un animale incastrato tra i rami. Provò a frugare all’interno, infilando la punta del bastone quando, proprio in quel momento, vide uno zoccolo sbucare dalla pianta. Era piccolo e scuro, sotto una zampa ricoperta di pelo bianco.
«Una pecora che si è incastrata in un cespuglio!» Esclamò stupito il fotografo e, subito dopo, provò a scostare i rami con le mani quando scorse, proprio lì dove stava aprendo il varco, il viso di un uomo.
Il fotografo, sbalordito, fissò quel volto su cui campeggiava una smorfia ambigua, simile a un sorriso. Ad un tratto, l’uomo allungò una mano fuori dal cespuglio, poi un’altra e cercò di divincolarsi senza farsi male. A giudicare dall’altezza delle braccia, il fotografo immaginò che l’uomo fosse inginocchiato e stesse cercando, non senza difficoltà, di uscire da quell’intreccio di rami.
«Ha bisogno di aiuto?» chiese il fotografo ma non fece in tempo ad allungare la mano che l’uomo, con un guizzo, uscì dalle frasche allungando prima una gamba, poi la testa, un braccio e infine, contorcendosi, il resto del corpo.
«No grazie!» rispose con voce allegra.
Alla vista di quell’uomo il fotografo rimase pietrificato, appena qualche secondo, poi lo sbigottimento si tramutò in terrore. Si voltò e scappò via. Dopo tre lunghe falcate raggiunse il sentiero di terra battuta, un rapido sguardo dietro di sé, poi riprese a correre ancora più veloce.
«No aspetta! Ti prego non fuggire!» Supplicò l’uomo con voce stentorea, unendo i palmi delle mani in segno di preghiera.
Il fotografo continuò a correre, quasi d’istinto, con il viso rivolto all’indietro.
«Non voglio farti del male! Giuro!»
Solo allora il fotografo, con il cuore in gola, rallentò il passo ma sempre fissando l’uomo con il viso rivolto all’indietro.
«Non volevo spaventarti! Perdonami, ma sono fatto così. Non faccio del male a nessuno!»
Dopo quelle parole il fotografo smise di correre continuando ad allontanarsi, questa volta camminando all’indietro.
«Ti prego non andar via! Voglio solo parlare!» Esclamò l’uomo – vedi» disse indicando il suo corpo con un gesto delle dita dall’alto verso il basso «cosa vuoi che ti faccia. Ti prego avvicinati!»
Il fotografo si fermò. Aveva il fiatone e il cuore che martellava.
«Chi sei?» Chiese con voce ostile.
«È difficile da spiegare però, se hai un attimo di pazienza, posso chiarire tutti i tuoi dubbi.»
E dopo quelle parole si avvicinò con passo leggero e un’espressione benevola del viso.
Il fotografo rimase immobile. E più quell’essere si avvicinava, più non riusciva a credere ai suoi occhi.
«Cosa ti è successo? Alle gambe» domandò il fotografo «cosa hai fatto?»
«Ah nulla», replicò l’uomo con un sorriso, «sono sempre state così.»
«Sono come quelle di una pecora» aggiunse sgomento.
«Di una capra» lo corresse l’uomo.
Il fotografo rimase in silenzio col volto cinereo e il fiatone che sembrava non si arrestasse mai.
«Sono un satiro» ammise l’uomo socchiudendo appena le palpebre.
«Un satiro…» fece eco il fotografo.
«Già!»
«Non credevo… cioè sapevo cosa è… ma non che esistesse…»
«Sì, ti capisco! Questa è una delle ragioni per cui non mi rivelo mai. Suscito sempre delle reazioni eclatanti!»
«Posso farti una foto?»
«No no! Per carità!» Rispose il satiro apponendo il palmo delle mani «assolutamente no! Vivo nella foresta in gran segreto proprio per non farmi conoscere. Se quella foto si diffondesse sarebbe un disastro, inizierebbero a darmi la caccia ovunque. Senti amico, posso chiamarti amico, vero?»
Il fotografo annuì perplesso.
«Vedi io non mi mostro mai, però in questo caso ho dovuto fare un’eccezione. Ecco, avrei bisogno di un favore da te. Nulla di complicato, solo un piccolo favore.»
Il fotografo guardò quel viso così enigmatico che gli sorrideva sgraziato. Era un viso mellifluo, con gli occhi scuri e luccicanti come diamanti e il capo coperto da capelli ricci e voluminosi con un’attaccatura che occupava gran parte della fronte, quasi a toccare le sopracciglia, folte e scure. Aveva delle grosse basette che, separate in ciocche, gli incorniciavano il viso fino agli zigomi sporgenti. Il naso prominente, con larghe narici e una piccola bocca carnosa piena di denti aguzzi che gli conferivano l’aspetto da animale selvatico. Ma era il corpo, nella sua fusione tra bestia e uomo, ad apparire raccapricciante: era tozzo e sgraziato col ventre tondo, coperto nella metà inferiore da peli bianchicci e, nella parte superiore, costituita da pelle dalla tonalità olivastra.
«Che tipo di favore?»
«Il mio flauto… me lo hanno rubato, o meglio, l’ho perso e qualcuno l’ha trovato.»
«Chi?»
«Dei ragazzini, una sera.»
«E quindi?»
«Quindi ti chiedo la cortesia di prenderlo e riportarmelo.»
«Dove lo trovo?»
«È a casa di uno dei ragazzi, abita non lontano da qui, lo tiene su una mensola, nella sua camera da letto.»
«E come faccio a prenderlo?»
«Beh entri dalla finestra e lo prendi, abita al pianterreno.»
«No no, non posso proprio, non sono mica un ladro io.»
«Ma non si tratta di furto, il flauto è mio.»
«Capisco, ma non posso entrare a casa di un ragazzino e prendere una cosa anche se è tua. Non l’ho mai fatto e non avrei nemmeno il coraggio.»
«Ma è uno scherzo da ragazzi.»
«Vai tu se è così facile.»
«Io non posso!»
«Perché?»
«Perché non posso lasciare il bosco. È la legge!» Esclamò alzando l’indice verso il cielo.
«Allora credo che rimarrai senza il tuo flauto.»
«Non capisci, quello strumento è vitale per me. Se non lo suono ogni settimana le conseguenze sono disastrose.»
«Disastrose?»
«Già! Il flauto che ho perso è quello originale, inventato da Atena, se viene a sapere che l’ho perso sono guai, capisci?»
«No!» Rispose l’uomo perentorio.
«Beh ti dico solo che subirei punizioni che tu non potresti nemmeno immaginare. Comunque… io ho bisogno di quel flauto, è davvero necessario per me. Ecco se tu potessi aiutarmi io, in cambio, potrei predire qualcosa della tua vita.»
«Predire della mia vita? E come fai?»
«Ho doti premonitorie.»
«Ma scusa non potevi predire il furto del flauto?»
«Ehm… sì ma… vedi… accade che quando sono ubriaco io… perda le mie facoltà. Non capisco più nulla e… può accadere di tutto. Non bevo spesso, ma quelle poche volte ci do dentro e gli effetti dell’alcol sono deleteri. Mi succede che mentre bevo, vago per il bosco cantando prima di addormentarmi e proprio due giorni fa, dopo aver bevuto un paio di bottiglie di Lambrusco, forse tre… mentre cantavo e vagavo devo aver perso il flauto, mi è caduto da qualche parte poi mi sono addormentato. Al mio risveglio non lo avevo più alla cintura. L’ho cercato ovunque per ore poi ho sentito il suo suono. Proveniva da una casa qui vicino» aggiunse tentando di celare l’imbarazzo con un sorriso di diffidenza.
«Beh e perché non vai a prenderlo tu?»
«Non posso come ti ho detto e poi, se mi vedessero, sarebbe la fine.»
«Mi dispiace fauno, io non posso aiutarti.»
«Invece puoi! Prendimi il flauto e ti ricompenserò leggendoti il futuro.»
«E cosa dovrei farci con la lettura del futuro?»
«Ti può servire per non perdere delle occasioni, fare le scelte migliori, evitare gli errori.»
«Ok allora dimmi.»
«Cosa?»
«Il futuro! Predicimi il futuro.»
«No prima il flauto!»
«Non se ne parla!»
«Ti prego» implorò il fauno «sono disperato, non capisci? Non posso vivere senza quello strumento! Non posso, la mia vita è segnata» aggiunse con una voce bassa e tormentosa e gli occhi lucidi che imploravano aiuto.
L’uomo guardò quell’essere frignare, con il volto che pareva incastonato in quel corpo piccolo dalla raccapricciante conformazione animale e provò una certa diffidenza mista a compassione.
«Ok» disse «ci provo. Tenterò di prendere il flauto, ma non ti garantisco nulla.»
«Che Zeus sia lodato!» Esclamò il fauno saltellando sulle zampe caprine «non te ne pentirai vedrai, sarà vantaggioso anche per te.»
«E lì cos’hai?» domandò il fotografo.
«Qui?» rispose il fauno indicando un piccolo corno bianco attaccato alla cintura di cuoio «questa è la mia cornucopia.»
«A cosa serve?»
«Beh ci metto la frutta che mangio quando ho fame… ma veniamo a noi: vuoi sapere i dettagli per arrivare alla casa e prendere il flauto?»
«Sentiamo.»
Il fauno spiegò con precisione la posizione della casa, come arrivarci e la sistemazione del flauto su una mensola nella camera da letto del ragazzo. Gli spiegò che alle 17 e 4 minuti tutta la famiglia che abita la casa sarebbe uscita e l’abitazione sarebbe rimasta vuota per quasi mezz’ora. Il ragazzo avrebbe dimenticato una finestra aperta e questo gli avrebbe dato l’occasione di prendere il flauto.
«Dove ci vediamo poi?» Chiese il fotografo.
«Qui, in questo punto, appena hai il flauto portamelo e io ti rivelerò il futuro.»
«Non mi predi per i fondelli, vero?»
«Ti do la mia parola di fauno!»
«Non sono convinto» proferì l’uomo socchiudendo gli occhi e scuotendo appena il capo «poi se…» e lasciò in sospeso la frase facendo intendere gravi conseguenze quando si accorse che il fauno era sparito, come fosse svanito nel nulla.
In una frazione di secondo si era dileguato come se avesse avuto il dono dell’invisibilità. E mentre il fotografo cercava con lo sguardo in ogni direzione la figura del fauno, sentì una voce distante echeggiare: prendi il flauto e non te ne pentirai! Poi udì un lontano scricchiolio, come di ramoscelli spezzati e nient’altro.
Il fotografo tornò a casa. Non raccontò a nessuno del suo incontro, tuttavia la sera dormì un sonno inquieto. Quando si svegliò, alle sette del mattino, era in preda ad una strana inquietudine. Trascorse la giornata in balia del dubbio se andare o meno. Se le cose stavano come diceva il fauno, era uno scherzo da ragazzi: entrava da una finestra, prendeva il flauto ed usciva. Dieci, forse venti secondi e il gioco era fatto. Ma correva comunque un rischio.
Ancora indeciso, il fotografo arrivò davanti alla casa che gli aveva indicato il fauno. Parcheggiò di fronte alla finestra che gli era stata descritta con chiarezza e attese. Alle 17 e 4 muniti vide uscire di fretta una famiglia, padre madre e un ragazzo di quindici, forse sedici anni. Presero l’auto e in pochi secondi sparirono dietro il viale. L’uomo rimase alcuni secondi immobile all’interno dell’auto. Guardò in tutte le direzioni: la strada era deserta, le case che affacciavano sulla strada, silenziose. Uscì dalla macchina. Il cuore gli batteva forte e un sudore freddo gli bagnava le mani e la fronte. Con passo deciso attraversò la strada. Si guardò ancora attorno furtivamente poi scavalcò la piccola recinzione ed entrò nel giardino. Si infilò in casa dal balcone lasciato aperto e, una volta in camera del ragazzo, andò direttamente alla mensola che gli aveva indicato il fauno. Accanto ad un libro di chimica e un vocabolario di latino, c’erano un orologio con il cinturino di cuoio e il flauto. Il fotografo lo afferrò e uscì dalla finestra. Scavalcò rapidissimo la recinsione, attraversò la strada e corse in auto. C’era riuscito e tutto era filato liscio. Si calmò, il cuore riprese a battere come prima, respirò a fondo, poi accese l’auto e ripartì.
Arrivò all’appuntamento nello stesso posto in cui si erano visti il giorno precedente. Il fauno sbucò da dietro un cespuglio. Si fece incontro al fotografo danzando e sorridendo mentre quest’ultimo gli porse il flauto. Appena prese lo strumento tra le mani iniziò a suonare. Danzava e suonava con grandissima maestria. Il fotografo ne rimase incantato. Chiuse gli occhi e ascoltò quella melodia per alcuni minuti. Quando li riaprì si accorse che il fallo del fauno era in erezione e ciondolava in maniera ritmica a ogni passo di danza.
«Va bene, basta così!» gli intimò il fotografo.
Il fauno si fermò, attaccò il flauto alla cintura e si rivolse verso l’uomo:
«Beh cosa posso dirti, grazie mille! Ora mi tocca sdebitarmi.»
Il fotografo socchiuse gli occhi in segno di approvazione cercando di non guardare quel pene sproporzionato che si ergeva dal ventre caprino.
«Però… c’è un problema», disse il fauno.
«Che problema?»
«Io non posso prevedere qualunque cosa?»
«Che significa, cosa puoi prevedere?»
«Vedi, io posso prevedere solo alcuni aspetti della vita.»
«Non capisco.»
«Vorrei dirti cose più belle e utili, ma l’unica cosa che posso dirti è che non andrai in carcere malgrado la condanna a tre mesi.»
«Carcere?», fece eco l’uomo con una smorfia del viso.
«Ma quella è la tua auto?», chiese il fauno all’improvviso indicando con il dito un punto alle sue spalle.
L’uomo si voltò, non c’era nulla e quando si girò verso il fauno quest’ultimo era sparito.
«Grazie ancora» sentì pronunciare lontano ma della sua piccola figura non c’era più traccia.
«Sei un maledetto!» Urlò il fotografo «un impostore, un… un vile! Dirò a tutti dove ti nascondi e cosa sei, sapranno quanto sei spregevole» poi andò via continuando a maledire il fauno e l’ingenuità con cui si era fatto trarre in inganno.
***
Una mattina, dopo tre giorni da quell’incontro, dei poliziotti bussarono alla porta del fotografo. Lo portarono in questura e lo interrogarono. Gli spiegarono che era stato visto entrare in una casa attraverso la finestra da un vicino il quale aveva segnalato la targa dell’auto alla polizia. I proprietari di casa erano stati avvisati ma non avevano sporto denuncia in quanto, dopo un’attenta analisi, nulla mancava dall’abitazione. Ovviamente, il ragazzo aveva dimenticato quel flauto trovato per caso. L’uomo spiegò nei dettagli il suo incontro col fauno e quella richiesta così insolita. Gli inquirenti non gli credettero e lo derisero a lungo. Si procedette d’ufficio con l’accusa di violazione di domicilio.
Poiché non era stato rubato alcun oggetto, non c’era stata effrazione, nessuna forma di violenza o uso di armi, la pena fu particolarmente mite: solo tre mesi di reclusione convertiti in lavori socialmente utili.
Quando il giudice emise la sentenza, l’uomo non fu per nulla sorpreso, guardò solo il magistrato con i suoi capelli ricci, la barba brizzolata e il naso largo e prominente, così simile al viso del fauno che quasi provò un moto di odio.
Quando il primo giorno uscì di casa per scontare la pena, si chiese perché avesse accettato di aiutare il fauno. Capì solo che quel pomeriggio, dinanzi a quella finestra di una casa lasciata incustodita, aveva agito spinto da un moto quasi istintivo, un comportamento irrazionale di cui non credeva sarebbe mai stato capace. E questo lo fece sentire molto confuso. Rifletté a lungo, poi pervenne alle uniche spiegazioni possibili: capì, prima di tutto, di essersi piegato dinanzi all’impareggiabile capacità del fauno di usare la compassione quale leva persuasiva e, poi, di aver ceduto all’arcana soddisfazione che gli infondeva l’idea di poter aiutare una figura ancestrale e mitologica. Si convinse che era stato davvero uno sprovveduto.
Immaginò, poi, quanto sarebbe stato appagante un incontro con il saggio Chirone, a come sarebbe stata avvincente un’avventura con Eracle o Perseo, al piacere di conoscere la divina Afrodite o la bella Calipso; a come gli avrebbe fornito ispirazione incontrare Calliope o le Pleiadi, tutte insieme; oppure quale emozione sarebbe stata trovarsi al cospetto Zeus, sovrano dell’Olimpo. Invece, gli era toccato in sorte il Fauno che, tra tutte le figure mitologiche, gli parve la più odiosa. Poi immaginò Damaste col suo letto, le Gorgoni, il Minotauro infuriato e la Scrofa di Crommio. Allora, pensò che – tutto sommato – non gli era andata troppo male.
Angelo Lachesi vive a Milano dove insegna filosofia e storia presso un Liceo della provincia. Durante l’adolescenza sorge in lui la passione per la batteria e il metal estremo che coltiva tuttora con un’ebbrezza sinistra e insanabile. Nel 2015 pubblica una raccolta di racconti dal titolo Il naufrago presso l’Editore Leucotea e una serie di racconti, negli anni successivi, sulle riviste Alibi. L’altrove letterario, Rivista Online d’Avanguardia, inutile, Voci Marziane, La Nuova Rivista Letteraria, La Nuova Carne, diarioPop, Birò e nelle raccolte Oscure presenze (Le Mezzeane) e Short Stories (Edizioni Scudo). Il domatore di insetti (Le Mezzelane) è il suo primo romanzo.