Loreta Minutilli e i lati oscuri del male gaze con “Quello che chiamiamo amore”

Loreta Minutilli, Quello che chiamiamo amore
La Nave di Teseo, 2021

Ettore è un bambino, un ragazzo, un uomo tranquillo, senza particolari passioni a muoverlo, tranne una, una soltanto: Elisa, la bambina dai capelli bellissimi, la bambina che piange indifesa, la ragazza delicata e volgare insieme, la donna che mette al mondo i suoi figli, sua moglie. Ettore impiega tutti i suoi anni e tutte le sue energie a salvare quella che ai suoi occhi è ancora una bambina, che piange sconsolata dopo uno schiaffo.

Loreta Minutilli in Quello che chiamiamo amore, edito da La Nave di Teseo, mette in scena una storia d’amore in apparente stato di quiete. Dico apparente perché, la quiete della quale parlo, è tale solo agli occhi del protagonista.

Ettore è un uomo, figlio sano del patriarcato si potrebbe dire; questa sua “sanità” si estrinseca nel fatto che ne è del tutto inconsapevole: Ettore si dipinge come un uomo buono, affabile, conciliante, incline ad aiutare: un salvatore. Il protagonista trascorre gli anni della sua vita, l’intera trama del romanzo, a raccontarsi una parabola messianica nella quale lui è il protagonista e santo, senza rendersi conto della realtà che lo circonda, senza accettare la resistenza che le persone attorno a lui cercano di opporgli. Parlo di Elisa, ma anche e soprattutto sua sorella Arianna, donna forte e volitiva fin da bambina.

In sostanza, Ettore si racconta per anni la sua storia dell’ innamoramento, poi della coppia e infine del matrimonio, come se il suo fosse un monologo: Elisa ha lo spazio solo per assecondarlo, per rispettare i binari che Ettore ha ideato nella sua fantasia. Per quanto riguarda il resto – sogni, progetti, idee, contestazioni, fino anche i litigi – Ettore fa da sé, perché non è importante chi è Elisa, cosa vuole Elisa, perché Elisa faccia quello che fa e non faccia tutto il resto; Ettore ha già scritto il copione, Elisa deve solo recitarlo.

Quella che Loreta Minutilli tratteggia è una storia comune, tristemente troppo comune, ma con la capacità letteraria di far percepire – sotto la superficie di apparente tranquillità – il seme delle follia e del disturbo. La scelta di mettere Ettore come narratore privilegiato della narrazione è perfetta per lo scopo: è lui stesso a stanare sé stesso, è proprio Ettore – tra mille giustificazioni, motivazioni, piani e progetti – a far delineare al lettore il profilo dell’uomo debole, paranoico, dipendente, passivo-aggressivo. In altri termini, è il male gaze a smascherarsi da solo, proponendo la visione a-normale di un uomo normale.

Quello a cui il lettore assiste è praticamente un climax: un crescendo di inquietudine e fastidio da parte del lettore che poi, alla fine, trova sfogo in un piccolissimo, insignificante dettaglio, e tutto diventa lampante, chiaro: evidente per tutti, ma non per Ettore. La qualità massima del protagonista è la sua indiscussa capacità di mettere la testa sotto la sabbia, anche di fronte a sé stesso: è l’unico a non vedere il mostro.

Il romanzo è un testo polemico, sottile, intelligente e acuto, esattamente come è l’autrice. Questo non lo dico solo per via della mia personale amicizia con la Minutilli, ma anzi penso di essere oggettiva più che mai: Quello che chiamiamo amore è un testo sagace, che mette in luce le ombre della mente di una persona co-dipendente, che fa riflettere sullo squilibrio relazionale e affettivo di molte coppie, troppe coppie. È un romanzo femminista, intelligente e profondo senza essere didascalico, accademico, tautologico e neanche propagandistico.

Loreta Minutilli non spiega, mostra quello che accade, senza neanche il bisogno di pensare una trama ostentata. Anzi, credo che lo scopo del romanzo sia esattamente questo: il punto non è mostrare la violenza più dura e cruda, ché quelli sarebbero capaci di individuarla in tanti (anche se non tutti). No, Loreta Minutilli mostra quello che accade nei dettagli, nei piccoli pensieri, nelle minuscole ossessioni e manipolazioni quotidiane che si tende a tacere. Sono i dettagli che fanno la differenza, gli stessi dovrebbero dare l’allarme e, troppo spesso, restano incompresi.

Concludendo, Quello che noi chiamiamo amore è un romanzo sulla capacità di autoassolversi, di nascondere la propria essenza a sé stessi, sui dettagli che plasmano una psiche e una vita; ma è anche il romanzo che spinge all’interpretazione, a riflettere sui piccoli segnali dell’altro, che mettono in guardia. Un monito, quello di Loreta Minutilli, che mostra il dramma e non lo spiega, il che è sempre la tecnica narrativa più efficace di tutte.

Clelia Attanasio

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