Nell’occhio del ciclone “Spaziani”

La poesia non è un’arte di arrangiare fiori,
ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.
Erri de Luca

Nel 1970 esce, per la prestigiosa collana Lo Specchio di Arnoldo Mondadori, un libro preziosissimo nel panorama della poesia contemporanea. Si tratta de L’occhio del ciclone. L’autrice è la Volpe di Montale, Maria Luisa Spaziani (Torino, 7 dicembre 1922 – Roma, 30 giugno 2014), una delle voci certamente più alte e affermate della seconda metà del Novecento.

L’intenzione di questa breve riflessione non è, beninteso, quella di tracciare un resoconto, ancorché schematico, della grande produzione e della vasta ricerca artistica ed esistenziale del poeta (come prediligeva farsi chiamare) Spaziani, quanto piuttosto di considerare, a volo d’uccello, la sua opera quinta, se così può dirsi, facente seguito cioè, in ordine cronologico, a Le acque del Sabato (1954), Luna Lombarda (1959), Il gong (1962) – in cui la critica ha unanimemente riconosciuto l’ormai conquistata maturità lirica della Volpe – e L’utilità della memoria (1966). Tra i lavori successivi, mi limito invece qui a menzionare, appena, Transito con catene (1977), La geometria del disordine (1981), il poemetto in ottave Giovanna d’Arco (1990), ancora I fasti dell’ortica (1996), La radice del mare (1999) e La traversata dell’oasi (2002).

La tessera d’oro del grande mosaico Spaziani che L’occhio del ciclone rappresenta tradisce già dal nome la forma e il motivo del suo contenuto. Com’è per la gran parte dei titoli del poeta, si tratta, infatti, di un’espressione ossimorica (e quindi, in un certo senso, assieme serissima e ironica) che intende definire analogicamente la poesia e la vita: «Tutti i miei titoli sono state immagini o metafore per poesia»[1]. A ben vedere, tuttavia, la polirematica occhio del ciclone designa, già di per sé figurativamente, la suprema stasi atmosferica che vige al centro dell’uragano, il presentimento strano di un imminente caos. Non si tratta, beninteso, della proverbiale quiete prima della tempesta, ma di un concetto assai più profondo e complesso.

Oltre che definire il “bilico mobile” di un moto giratorio, infatti, la catacresi occhio del ciclone evoca la geometria miracolosamente circolare dell’orto conchiuso e pone in sé, soprattutto, il corollario della visione, cioè di uno sguardo offerto (d)a un grande occhio polifemico quale privilegiato punto d’osservazione (verso entrambi i poli dell’archetipo alto vs. basso, naturalmente). È l’“occhio interiore” del poeta-oracolo, del profeta, medium tra cielo e terra a cui è dato di cogliere una verità latente e nascosta ai più per rattenerla nell’equilibrio e nel nitore dei versi (dal respiro endecasillabo) e così poterla rivelare (Nigredo I, vv. 1-5):

Se il veggente s’inebria, scrivano,
sii cauto per lui. Incatena i venti
se troppo gli scompigliano la chioma
perché il veggente è donna, e ben lo seppe
l’ultimo dei profeti. […]

Dell’ultimo dei profeti Spaziani intende raccogliere, in effetti, il testimone incandescente, identificandosi essenzialmente nella voce di Rimbaud (Nigredo IV, 8-11): «io che stasera accumulo messaggi / che mi giungon da te, folle vestale / che registra ed inventa, che ti presta / bestemmie e profezie». Collocandosi nel solco del Simbolismo, quindi, il poeta anela a una unità cosmica che può darsi soltanto attraverso la rêverie, il sogno e il linguaggio poetico, come già rivelava Spaziani stessa in Utilità della memoria (Colle Oppio, vv. 3-6):

Io cerco il verso unico, lo stelo, il sortilegio
che ogni franta immagine ricostituisca in una.
Dammi il tuo crisma, baciami, cuore della parola,
amami come solo tu m’hai saputo amare.

Nella sua infinita ricerca, il poeta è allora come lo stregone «[…] che macera le foglie / di tamarindo nell’orina, e varca / foreste sconfinate sulla traccia / fitta di liane aperta da un suo avo, / […]». E l’afflato visionario de L’occhio emerge di fatto fin dalla prima lirica, che inscena, come un arrochito Fregoli in un teatro dismesso, il dramma spettrale delle foglie morte vorticanti sui pavimenti di una casa vuota, spalancata ai venti (vv. 1-8):

La casa è aperta, battono i porteli,
oblò contro il ruggito delle onde.
La casa è stata sempre aperta, e i chiodi
che reggono cornici ormai svuotate,
s’intaccano di lebbre rugginose
che scardinano il mondo. Solo il vento
traversa stanze e androni, narra fiabe
sfilacciate che il camino risucchia.

Così come la casa deserta, in cui ogni presenza è ridotta alla mera traccia di un’assenza (cornici ormai svuotate), allo stesso modo il poeta si riaffaccia con la memoria alla furia degli elementi, «[…] onde che s’infrangono / […] / contro scogli giganti alla cui vetta / non si leva nemmeno per scongiuro / mai la mano dell’uomo. […]». Va detto che L’occhio del ciclone, che vede la luce negli stessi anni in cui l’autrice insegna lingua e letteratura francese all’Università di Messina, è interamente ambientato in Sicilia (l’isola che ha la scienza degli azzurri) e nelle calde atmosfere dell’estremo Sud, che il mito vuole presidiato da perigliosi vortici e abitato dai mostri di Scilla e Cariddi:

Lo vedi come l’isola si torce
nei suoi venti stasera, con che furia
tende a disancorarsi dalle boe
profonde del terziario, come anela
al volo sparso delle sue cortecce
e foglie e sabbie nei vortici caldi?

Conformemente al suo titolo, il libro è composto di tre momenti, o movimenti, consistenti cioè in due sezioni in versi, Il mare e La terra, inframmezzate da un interludio di sei petits poèmes en prose intitolato, appunto, Intermezzo, dove il turbinoso sconvolgimento degli elementi trova quiete in un’accalmia meditativa e ironica, nel distacco del poeta dalle forze universali con cui pure si trova a misurarsi,

[…], come quei meriggi sottomarini in cui germoglia in calme estreme, fra vegetazioni di corallo, la progenie dei pesci, mentre alla superficie rugge il fortunale e il mare si rotola in spume bianche come in una furia di divorare se stesso e urla come un istrione impazzito forse per nascondere, a chi lo guardi, il prodigio senza storia del suo segreto, laggiù.

Prevale, su tutta l’opera, il campo metaforico della navigazione e del mare già emergente in Utilità della memoria. Anche La terra è, infatti, definita come spazio ambiguo, se non liquido, sotto cui covano gli oceani del magma profondo o abissi pronti a riprendersi le città, come Roma, che ha mille fontane, «[…] e a maggio cantano / e scrosciano, pontificano e tuonano / quasi che il mare non lontano irrompa / per le bocche segrete. […]».

Forse la verità, sempre taciuta,
è che ogni strada, piazza o vicoletto,
pur con palazzi, erme ed obelischi
e cattedrali e stadi, sia una crosta
sottilissima, un mare di sargassi
quasi sul punto di smembrarsi e cedere.

Anche sulla terra incombe l’imminenza della catastrofe. Anche nella superficie del suolo affiorano presenze sotterranee, ricordi, fuochi fatui e necropoli – ultrasuoni che, dai mari di Mortelle o di Ganzirri, stando alla leggenda, i pescispada lanciano «quando le tozze e lugubri lampare / li chiudono in un cerchio disperato / di furore e di morte», tenui segnali di una mattanza a fronte di cui, in terra, un vasto

silenzio invade la collina. Tacciono
in lutto gli usignoli, solo i cani
lanciano rauchi ululi di orto
in orto, come scolte che l’allarme
spingano oltre il limite marino,
oltre i Peloritani. […]

Ma sul contrappunto degli opposti impeti della vita e della morte, sul campo di forze inconciliabili eppure convergenti in un’unica e barocca corrente ascensionale, dominano la calibratura e la nitida compattezza della forma, modellata sulla corrente fluida degli endecasillabi che si susseguono in partiture sintattiche ampie e distese, calme. Analogamente, il lessico, pur vario e arricchito di saltuari forestierismi, è abilmente lavorato dalle mani del poeta in un amalgama plastico, in una sostanza unica. Sotto l’egida del rigore formale e del metro, peraltro, l’incontro-scontro universale della vita e della morte coinvolge e sussume in sé altre sublimi turbolenze, nate, per esempio, dalla dialettica tra la civiltà umana (urbana) e una natura primordiale e prelapsaria che il poeta torna a identificare nel paesaggio siculo e nei suoi simboli:

[…]. Allora,
come ragazzi intenti ad un meccano
giocheremo, se vieni, a costruire
quel borgo o una metropoli o Babele.
Sarà fatta a collage. Dietro le vele
pigramente agganciate ad un canale
d’Amsterdam, forse, si alzeranno irsute
guglie di municipi bavaresi,
merli guelfi toscani, vetri e specchi
di banche della city. E un groviglio
geometrico, occhiuto in primo piano
scompiglierà ogni logica: ché poco
si fonde a tutto il resto (a chi non sappia)
un ficodindia siciliano.

Assolutamente visionaria ed evocativa sarà l’immagine offerta, per esempio, nei due tempi di Via del Babuino dal palinsesto di epoche, culture e civiltà che la città di Roma, cronotopo carissimo a Spaziani, offre al viandante. Ancora, attualissimo e degno di rilievo è il contrasto tra i cunicoli del sogno e i miraggi della quotidianità diurna, nelle cui potenti e immaginifiche rappresentazioni il poeta scova cifrati messaggi e frammenti oracolari:

I nostri occhi, ciechi per troppa polvere,
saturi di apparenze, esautorati
ormai dalla menzogna di altri occhi,
guardano solo quando nella terra
scende la notte, e funebri coperchi
di palpebre li premono nel buio.
Di colpo si risvegliano in quell’attimo:
fissano in dentro, tràpanano il suolo
fino al magma profondo, con burelle
più lunghe di quei viscidi cunicoli
con cui mina la tèrmite il pianeta.
[…]

È qui il doppio velo delle tenebre notturne e del coperchio delle palpebre che, imprigionando lo sguardo, ri-vela al poeta inediti e profondissimi scenari in una visione rovesciata e interna, oltre che interiore, in una visio, cioè, inferica, tipica della catabasi. Nondimeno, la voce di Spaziani avverte altresì come la dimensione della veglia non sia essa stessa meno illogica, franta e onirica del sogno:

Quando l’aurora i suoi ventagli stende
d’acquarello sui bordi del tappeto,
naufraghi deliranti d’allegrezza
salutiamo la patria, la luce,
l’isola che riaffiora. Astutamente
quest’altra vita ci riafferra, folli
complici del miraggio, idioti, incauti
a pensarla più semplice, più chiara.

Nella vorticosa, magmatica e incontenibile materia de L’occhio del ciclone, in ogni caso, miracolosamente tutto tiene e l’intera silloge si chiude proprio nel sigillo del sogno (Il sogno che mi tenta…) dove ancora s’impone lo scampolo di un ultimo contrasto, sebbene attenuato nelle immagini da un velo di leggera ironia, tra il dominio del caos e la vitalità dell’edera che si avvince ad alberi stranieri o del sangue che «[…] mai discorse / dalle mie vene (strano!) ad altre vene / quanto in quell’ora che un vento maligno / mulinava i rifiuti – o forse i volti».


[1] G. Pontiggia, Profili delle raccolte e note di commento, in P. Lagazzi, G. Pontiggia, Maria Luisa Spaziani. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2012, p. 1552.

Andrea Macciò

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