“Sembrava bellezza” di Teresa Ciabatti, o del desiderio di esser visti.

Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza
Mondadori, 2021

Ci sono delle storie che vanno raccontate e me le immagino scritte al buio, con le serrande abbassate, per non lasciar trapelare troppa luce sul testo. Ecco, questo è un romanzo dal quale filtra poca luce.

Sembrava bellezza, di Teresa Ciabatti edito da Mondadori, è la storia di una scrittrice ormai all’apice – o forse già in un principio di declino – del successo, che ha ottenuto la sua rivalsa sull’ermarginazione, la povertà, la vergogna che furono gli anni della prima giovinezza: grassa, deforme, con i seni non pareggiati e invisibile agli occhi del sesso maschile, la protagonista ripercorre attraverso una serie di flashback – in uno stile molto fluido che riesce ad amalgamare il ricordo col presente, in un flusso di coscienza magistrale – che la ritraggono come personaggio secondario della sua stessa adolescenza, trascorsa con Federica a invidiare Livia, sorella maggiore dell’amica.

La storia inizia con un riavvicinamento tra la protagonista e Federica, la sua amica di infanzia dalla quale è stata abbandonata – o ha abbandonato? – verso la fine del liceo e l’inizio dell’università; anche Federica è tra le persone cui la protagonista proietta i suoi desideri di rivalsa, è l’ennesima persona che l’ha ferita, trattata male, emarginata, e ora lei ha l’occasione di riversarle tutto il suo successo in faccia. Le cose non vanno così: ciò che davvero stupisce la protagonista, qui, è che Federica non nutra alcun risentimento per lei, anzi, sembra essere fiera e orgogliosa della sua amica perduta. Da questo sconcerto iniziale, che farà da collante per una rinata amicizia, inizia la storia e l’incontro con Livia, sorella maggiore ormai ritardata a seguito di un grave incidente che aveva subito a diciassette anni, mentre Federica e la protagonista dormivano nell’altra stanza da letto.

Capire cosa sia successo a Livia, fare un passo indietro e rispolverare nella memoria, sembra essere quasi una missione per la scrittrice – che spesso si rivolge direttamente al suo pubblico di lettori, come se fossero un confessionale virtuale attraverso il quale scongiurare i propri demoni e ricevere un perdono definitivo – che finisce per concentrarsi su questa donna ritardata e eternamente ragazzina, addirittura accettando di farsela affidare dalla sorella Federica, quando lei le chiede un periodo di tempo lontana da Roma per “sbrigare delle faccende”.

Il romanzo sembra essere un tentativo di espiazione, un pubblico mea culpa che ha l’unica funzione di alleviare il peso della coscienza della protagonista, farla sentire risollevata della sua cattiveria e del suo essere un’eterna vittima. Nonostante questo, però, la protagonista non riesce mai davvero a fare ammenda né davvero a perdonarsi, perché lo stesso atto di mettersi a nudo e confessare la propria parte “marcia” ricade nello stesso meccanismo malato: la scrittrice ha bisogno del palco, del pubblico, che la guardi e la veda davvero, anche nel fare ammenda, e questo ovviamente non risolve il problema ma anzi lo alimenta ad infinitum. Non c’è espiazione vera davanti a un pubblico – e infatti bisognerà arrivare davvero alla fine della storia per assistere a un unico, sincero momento di autenticità: un momento intimo e solitario, che è l’unica vera condizione per un perdono autentico.

La storia ci porta nella parabola discendente della protagonista, nei meandri della mente di una persona tendenzialmente cattivella, che non ha fatto fiorire i suoi traumi per creare qualcosa di bello, ma anzi ha lasciato marcire il suo dolore e ha lasciato che la incarognisse. Lo si vede, questo, principalmente nel suo racconto – o non rapporto – con la figlia Anita: una ragazzina che la rifugge, addirittura si trasferisce a Londra per non dover parlare con la madre. In un moto di affetto che è a metà tra il senso di possesso e il dolore per il rifiuto e l’abbandono – dolore che sembra essere ricorrente nella vita della donna e che lei stessa sembra inconsciamente ricreare – la madre cercherà di raggiungere Anita e di comunicare con lei, grazie alla compagnia e all’aiuto di Federica.

Concludendo, il romanzo della Ciabatti ci parla di una mente fragile, emotivamente murata viva in sé stessa, che non riesce davvero a liberarsi dai mostri della gioventù; la vera vittima di questo infinito trauma che si ripete in loop nella memoria è la figlia Anita (le colpe dei padri ricadranno sui figli per sette generazioni, dopotutto), ragazza oggetto dell’ennesimo amore (non corrisposto) della donna che ci descrive la storia, ragazza così diversa e così tanto più sana di Livia, che invece è l’eterna bambina dell’adolescenza della scrittrice.

Quello davanti a cui ci troviamo è un romanzo profondo, che ci mostra i meandri delle ombre di una mente triste, depressa e ansiosa di essere vista – professionalmente o fisicamente poco importa – e che suscita empatia a tratti con una forte antipatia. Se non è questa la ricetta per un romanzo – o un personaggio, che in questo caso è come dire la stessa cosa – magistralmente scritto, non so cosa sia.

Clelia Attanasio

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