
Il figlio delle sorelle, Leonardo G. Luccone
Ponte alle Grazie, 2021
Un protagonista mentalmente e narrativamente instabile, senza nome né caratterizzazioni fisiche – soltanto di natura psicologica – cerca di ricostruire la sua storia personale mescolando un passato confuso e frammentato, un presente dubbioso e un futuro di conseguenza incerto, senza più alcuna misura del tempo e restituendo una narrazione inaffidabile persino a se stesso.
Il figlio delle sorelle, l’ultimo lavoro di Leonardo G. Luccone, edito da Ponte alle Grazie, ricostruisce una storia non lineare, sprazzi di vita di un uomo con problemi mentali, che nei primi anni Novanta, in una Roma di cui si accenna appena – non abbiamo praticamente nessuno sfondo geografico/sociale, nessun punto di riferimento, come del resto non sembra averlo il protagonista – tenta tutte le strade possibili per avere un figlio con la moglie Rachele.
La narrazione si interrompe a un certo punto per riprendere soltanto più di quindici anni dopo dove scopriamo che il protagonista in seguito a una crisi psicotica si è andato a curare in una clinica psichiatrica, ha lasciato la moglie e la tanto agognata bambina che alla fine erano riusciti ad avere insieme – seppure in circostanze misteriose – e si ritrova ora con una nuova compagna e una figlia, Sabrina, che è riuscita a rintracciarlo e vuole a tutti i costi riallacciare i rapporti con lui per capire, oltre la malattia, cosa lo abbia spinto alla decisione di non crescerla e di andarsene.
Sabrina si lancia nella vita del padre con l’impulsività dei suoi diciotto anni e crea con lui una “stanza delle parole”, uno spazio intimo in cui parlare liberamente e far fluire le parole necessarie a far luce sulla situazione. Ma tanto Sabrina è avida di conoscenza quanto suo padre è scettico e sembra faticare a far riemergere i ricordi sepolti tanti anni prima. Che poi, viene da chiedersi leggendo, è veramente possibile parlare con sincerità senza ferire l’altro? È veramente possibile raccontarsi la verità quando i non detti si sono accumulati e incancreniti nel tempo fino a diventare una solidità, la sola certezza, un muro dietro il quale nascondersi e difendersi? Sabrina e suo padre a ogni appuntamento preparano Moscow Mule con dovizia, un’attività che li aiuta ad avvicinarsi ma permette anche loro di offuscare la mente, lasciar fluire i pensieri, trattenere i ricordi che fanno male in uno strato della mente non troppo vicino, o al contrario, far emergere più vivide quelle emozioni così a lungo represse, far scorrere le parole con più spavalderia.
“«Come cos’è papà. La stanza delle parole».
«Come ci andiamo?»
«È facile.»
«Mi ci porti tu?»
«Sì.»
«Quando ci andiamo?»
«Quando vuoi, papà. Se ti concentri ci entriamo subito.»
«Non funziona, Sabrina, le voci ci sono sempre.»
«Funziona papà.»” (p. 43)
I dialoghi fanno da padroni per tutto il romanzo, sembra quasi di assistere a una pièce teatrale con una scenografia scarna. Con personaggi fisicamente anonimi, vestiti tutti di nero che hanno lo scopo di far emergere nient’altro che il loro lato psicologico e le loro emozioni attraverso le parole che si scambiano e anche attraverso i loro silenzi. L’analisi che viene fatta dall’autore non è quella della malattia mentale ma piuttosto quella dei rapporti familiari, soprattutto quando sono complicati, riallacciati, mescolati, smembrati. I dialoghi sono spesso intervallati dai silenzi degli interlocutori. Quei tre puntini sulla pagina possono voler dire molte cose ma Luccone riesce a dare loro significati precisi, ogni volta diversi e puntualmente riconoscibili a seconda della conversazione. Sembrano essere più eloquenti delle parole, che a volte sono vane, a volte solo compiacenti o pacificatrici. Nei silenzi ci stanno i pensieri, le voci che il protagonista sente e che il lettore legge e vive con lui. Voci che mescolano le storie e il tempo e la realtà dai sogni. Voci di donne da cui è circondato, che cercano risposte e che mettono il protagonista, ancor di più, in una posizione subordinata rispetto a quello che si avvicina a essere – vista la presa di posizione femminile di Rachele all’inizio e Sabrina poi, in contrasto con l’inezia del protagonista – un matriarcato.
Lo stile di Luccone è molto particolare. Lirico e sperimentale nel suo accostare le parole per rimandare a un suono, una nenia che serve a obnubilare la mente del protagonista, a cullarlo nei propri pensieri. Le assonanze e le ripetizioni delle parole rendono il ritmo delle frasi ossessivo e questo fatto sembra proprio ricalcare i pensieri del nostro personaggio, la sua paranoia.
“Violentato dalle voci. Lobotomizzato dalle voci. Vocinfuriate. Vocinfoiate.
Vocirapito. Vociato.
Quando i gigli copriranno tutto il campo sarò libero.” (p. 136)
Un romanzo “diverso” quello di Luccone, non di facile lettura, che spiazza il lettore e può non catturarlo superficialmente per la scelta stilistica. Allo stesso tempo giocare con le parole è certamente l’arte di questo scrittore e non si può che restarne affascinati.
Veronica Nucci