Intervista a Demetrio Marra, autore di “Non sappiamo come continuare”

Demetrio Marra ci parla delle tematiche del suo ultimo libro “Non sappiamo come continuare”, un’opera a metà tra una raccolta poetica e un saggio.

L’autore è riuscito a intavolare un dialogo non solo riguardante i contenuti – che puntano a contribuire alla costruzione di una narrazione contemporanea sia personale che generazionale – ma anche sul metodo, scegliendo l’autopubblicazione. Una volontaria provocazione al sistema editoriale odierno.

Demetrio Marra si è laureato all’Università di Pavia con una tesi in Filologia Moderna su Luciano Bianciardi. È direttore editoriale di lay0ut magazine, rivista di Letteratura, Traduzione e Cultura visuale. Ha esordito con la raccolta di poesie Riproduzioni in scala (Interno Poesia, 2019). Collabora con diversi editori.

IX

In coda a quella serie

Si chiede se è solo l’ambiente che cambia,

camminando dentro camminando fuori,

perché una volta fuori e dentro gli era sembrato uguale

e poi riesce dall’anello,

e attraversa le strisce pedonali,

e dà un occhio alla ciminiera,

e legge il cartello di un deposito Only authorised,

ed evita la merda di cane,

ed evita il sole,

e controlla che sia tutto a posto,

e poi sorride alla portiera rumena 

e poi salendo le scale A

di quel palazzo a maggioranza islamica.

Sull’ascensore ha già le chiavi in mano,

trattiene il respiro per abitudine,

entra dalla porta con ancora le chiavi attaccate,

scioglie i lacci delle scarpe, si libera dalla mascherina,

va in bagno si / mi guardo allo specchio

e mi guardo come guardo un unghia rotta e dico è rotta.

(Dalla sezione Tautoromanzo, p. 48)

Come è nato “Non sappiamo come continuare”? Interessante la scelta di autopubblicare.

I motivi per cui ho scelto l’autopubblicazione sono diversi, da un lato l’irriverenza e una lotta più ampia che vorrei emergesse, dall’altro hanno influito questioni personali. Il libro è nato, posso confessare, soprattutto per una saturazione emotiva e forse è incompiuto. Sapevo che pubblicare un libro sugli ultimi quattro anni mi avrebbe permesso di liberarmi, avere la possibilità di fare cultura e conoscere persone, banalmente: di distrarmi. Forse, dal punto di vista poetico, avrei potuto aspettare di più ma ho voluto affrettare la pubblicazione, era una necessità.

Come è stata recepita l’autopubblicazione? 

Il risultato editoriale è stato molto buono, specie se confrontato con lo standard dei libri di poesia, che spesso arrivano intorno alle cento copie vendute. Sono uscite diverse recensioni, tra cui diverse molto interessanti (anche questo è molto raro). 

Sono invece piuttosto deluso dal fatto che nessuno abbia colto lo spirito di contestazione. Penso che questo sia anche connesso a un problema legato ai mezzi utilizzati, infatti ho fatto un’operazione di contestazione soprattutto simbolica. Purtroppo la rivolta simbolica è facilmente decontestualizzabile dal sistema dominante e assimilata. Faccio un esempio molto noto: La vita agra di Luciano Bianciardi, romanzo uscito nel 1962, fu un’accusa violenta allo stile di vita di Milano ai tempi del boom economico. Questo libro lo comprarono soprattutto i milanesi (dopo un elzeviro del pessimo Indro Montanelli sul Corriere), ne discussero durante l’aperitivo, si divertirono, lo trasformarono in un inside joke, depotenziando così il messaggio che voleva portare. I gesti simbolici, senza risvolti pratici, vengono assimilati dal discorso neoliberale con molta facilità.

Positivo, invece, è che il mio libro abbia dimostrato come è facile autopubblicarsi, anche senza l’aiuto di Amazon. In molti mi hanno chiesto suggerimenti. La mia pubblicazione ha messo in luce, per contro, quanto sia pessimo il lavoro di molti editori di poesia.

L’autopubblicazione ha provocato pregiudizi e ritrosie da parte dei lettori?

Non ho avuto questo problema perché anche prima dell’uscita del libro ho impostato una narrazione su di esso, spiegando per prima cosa le ragioni dell’autopubblicazione. 

Già mi si conosceva nell’ambiente editoriale, e anche questo è stato d’aiuto per evitare il pregiudizio che c’è solitamente verso i libri autopubblicati. Mi sono anche affidato a dei professionisti per ogni fase della produzione del libro.

Ho tentato di esporre l’inutilità dell’editore di poesia, ma mi spiego. Non sono contro l’editoria di per sè, sarebbe ovviamente assurdo, ma ritengo che, per com’è strutturata oggi, risulti praticamente inutile. La maggior parte degli editori di poesia non cura il libro, non fa editing, non fa bozze, non impagina professionalmente, non si preoccupa del prodotto dal punto di vista materiale, ma soprattutto non distribuiscono né promuovono decentemente. Va da sé che retribuire equamente il lavoro è un miracolo. Sogno un sistema diverso. 

Spesso all’editorie di poesia rimane solo il capitale simbolico: il nome.

Ritieni che nell’editoria di narrativa ci siano prospettive diverse?

Il problema dell’editoria in generale è che questa si poggia sul meccanismo perverso della distribuzione e della promozione. Cerco di riassumere brevemente il meccanismo dietro alla distribuzione di un libro. L’editore manda una scheda libro al promotore, che attraverso il distributore la fa arrivare a tutte le librerie d’Italia. Poi viene raccolto il numero di copie prenotate, e in base a quello l’editore decide quanti libri andrà a stampare. I prenotati vengono subito pagati dalle librerie all’editore, di solito a un costo minore del 30-50% rispetto al prezzo di copertina.  Dall’incasso per quelle copie dobbiamo ricordarci di sottrarre i soldi spesi per la stampa del libro, lo scrittore e tutti i numerosi altri professionisti coinvolti. 

Dopo alcuni mesi, anche anni, i librai possono restituire le copie rimaste invendute, chiedendo all’editore i soldi anticipati inizialmente. Spesso le copie invendute sono moltissime, con il risultato che librario ed editore non guadagnano, l’unico a trarre un profitto è il distributore che li movimenta. 

Di conseguenza l’editore può sopravvivere solo pubblicando una grande quantità di libri ogni mese, perché fa affidamento al continuo gettito “finanziario” da parte del distributore, un gettito che abbiamo visto è difficile rimanga effettivo Funziona così per narrativa e poesia, solo che per la poesia la questione è più drammatica perché i prenotati sono pochissimi. Si distinguono, a parte le tradizionali Mondadori ed Einaudi, alcune case editrici come per esempio Crocetti (che adesso però è dentro Feltrinelli) o Interno Poesia. Esistono numerosi editori, di prosa e di poesia, che cercano di cambiare le regole o di lavorare bene all’interno del sistema, ma sono una netta minoranza. 

Leggendo il tuo libro si nota un rapporto ambiguo con il lettore, che ogni tanto si sente rivolgere un tono colloquiale e intimo mentre in altri momenti questo diventa più distaccato, lasciandolo quasi tagliato fuori. Da cosa deriva questa discontinuità? Mi sono immaginata che prima ancora che pensare a un lettore, siano pezzi scritti in maniera intima, per tua necessità.

Forse sì. Nel senso che io provo a scrivere esattamente come parlo, mi aiuta senza dubbio che io scriva per “saturazione” psicologica (e non per ispirazione). Ma, come ho detto in un’altra intervista, una parte di questa “spontaneità” è ricostruita, è un lavoro molto lungo. Ad esempio Tautoromanzo, il lungo poemetto centrale, ci ho messo un anno e mezzo a scriverlo. Avevo in mente un percorso scuola-casa a cui aggiungevo episodi a mano a mano. C’era anche un aspetto terapeutico in questo. 

Alcuni testi sono esplicitamente rivolti ai miei genitori: loro sono sempre stati i miei primi interlocutori. Forse sono il paradigma di quello che desidererei come lettori, prontissimi a connettersi emotivamente a quello che scrivo. Ovviamente il loro giudizio è parziale, fin troppo positivo.

Gli ultimi due testi invece sono esplicitamente politici, rivolti alla collettività. Qui c’è un tentativo di creare una mitologia della precarietà. 

La domanda a chi debba essere indirizzato il mio libro, quindi, me la sono fatta solo a posteriori.

Quindi c’è stato una funzione terapeutica in senso stretto per una parte delle tue composizioni?

Sì, anche se sembra una banalizzazione. Dopo la pandemia mi è partito un pensiero, un pensiero intrusivo riconducibile allo spettro dei pensieri ossessivi. È durato un anno. Il pensiero intrusivo lo riconosci subito perché in qualche modo ti è esterno, non lo senti davvero tuo ed è difficile da gestire. 

La mia terapeuta mi diceva che l’ansia è un semaforo verde in ogni lato dell’incrocio, fidandosi dell’indicazione andrà sicuramente male. Facendo l’esempio dell’ansia ipocondriaca che avevo durante il Covid, il pensiero intrusivo ti dice che, nonostante il test negativo e nessun sintomo, tu possa comunque averlo contratto, e pone in rassegna le ragioni. Il pensiero di aver contratto il virus non è semplice, poi: è implicato. Nel senso che si inserisce in un meccanismo di colpa ed è ancor più difficile da sciogliere. In altre parole, l’ansia trova sempre un modo per auto-nutrirsi. L’ansia non è nel contenuto, ma nella forma del pensiero, come suggerisce Ottiero Ottieri in Il pensiero perverso.

Certo, la scrittura può funzionare come terapia, ma non è quello il mio obiettivo. Funziona per accerchiamento. Sul tema del crollo ansioso identitario ci ho scritto due libri, Non sappiamo come continuare e un romanzo non ancora pubblicato, che forse uscirà nel duemilaventisei. Rispetto alla prosa però con la poesia posso concentrarmi sul livello formale, sul ritmo, sul senso musicale direbbe Caproni, quindi sul pensiero. Di fatto nei miei testi non parlo mai dei contenuti che avevano i pensieri ansiosi di quel periodo, ma indago l’aspetto formale. 

Come in molte produzioni contemporanee, anche nella tua raccolta la città ha una grande rilevanza, e in particolare Milano.

Come tutti quelli che nascono al Sud, mi è stato insegnato che emigrare è necessario: che si studia fuori e poi, al massimo, si ritorna. Provengo da Reggio Calabria, una città particolare, apparentemente apolitica (ma negli anni ’70 ha vissuto una rivolta popolare di direzione neofascista e più avanti una guerra di mafia), di grande immobilismo. Questo immobilismo è favorito da uno strano fenomeno: è la città in cui l’occupazione è soprattutto nel terzo settore e precisamente nei servizi. Ha un altissimo tasso di persone laureate, nonostante abbia poche facoltà, le più importanti sono di Giurisprudenza e Architettura.  L’immobilismo forse dipende da questi due fattori, da un lato la migrazione dei giovani e delle giovani; dall’altro dall’assenza di una classe “operaia” (ricordo forse una sola fabbrica “a vista”, quella della Coca Cola, poi dismessa). È vero però che negli ultimi anni qualcosa sta muovendosi, soprattutto attorno alla lotta contro il Ponte sullo Stretto o, sempre, contestando la ‘Ndrangheta. 

Sono passato per Pavia, dove ho studiato, e adesso vivo a Milano, dove lavoro.  La migrazione ti porta a riflettere profondamente sul rapporto con le città. Ottiero Ottieri diceva, da qualche parte: «Roma è il mio essere, Milano è il mio dover essere». Chi è migrato per studiare o per lavorare credo rimanga sempre in un punto equidistante, non appartiene più a casa, non appartiene ancora al luogo di approdo. È sempre straniero, spatriato di là.

Il fatto che noi “non sappiamo come continuare” lascia intendere un divario, una spaccatura tra i millennial e le generazioni precedenti che invece avevano più possibilità…

Anche la vecchia generazione ha faticato e vissuto il precariato. Noi però affrontiamo qualcosa di diverso; loro hanno attraversato delle complessità ma almeno con la promessa di un futuro: lavorativo, personale e politico. La precarietà della nostra generazione non riguarda solo il mondo del lavoro, è ontologica. Ad esempio ci troviamo a pensare a fenomeni climatici estremi, dal punto di vista politico viviamo in un governo fascista con la consapevolezza di essere in una costante crisi economica, per non parlare delle guerre in Ucraina e della guerra genocida di Israele in Palestina. Non immagino il futuro, non immagino di avere una famiglia, una casa o una relazione stabile. 

Quello che del mio libro è stato frainteso è il “non sapere come continuare”. Non è una rinuncia, ma il fondamento della nostra agency. È la base per un discorso politico. Stare bene in un mondo del genere sarebbe un’allucinazione. Come ha detto Bifo, depressione e ansia sono solo “iper-intuizioni” del collasso del capitalismo. Non vogliamo continuare, vogliamo distruggere un sistema che non funziona.

Sei stato molto attivo nel mondo delle riviste. Pensi che questo ti abbia aiutato nella tua pubblicazione e nella scrittura in generale?

La dimensione delle riviste ti consente di aver un’idea laboratoriale della scrittura, ti dà modo di trovare un confronto più serrato. Come Torquato Tasso, per scherzare dico, che inviava i suoi scritti a venti persone per avere le loro opinioni. Come altrimenti creare questo scambio permanente?

Nelle riviste nascono scuole e movimenti, ognuna si distingue per carattere e stile, così è stato all’interno di lay0ut magazine. Ha sicuramente significato molto. L’ultima poesia è dedicata proprio alla famiglia elettiva di lay0ut.


Giulia Zoratti

Redazione

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