“L’arte di legare le persone”: l’opera di empatia per corrispondenza di Paolo Milone.

L’arte di legare le persone, Paolo Milone
Einaudi, 2021

L’umanità ha a disposizione – quasi – ogni tipo di strumento per misurare la salubrità dell’atmosfera circostante: rilevatore di polveri sottili, misuratori del livello d’inquinamento nelle acque, scale di misurazione dei livelli di CO2, rilevatori di particelle e così via.

Come si misura la salubrità di una società? Da come tratta i suoi pazzi.

Lungi dal dare giudizi politici, etici o qualitativi, Paolo Milone ci regala un reportage intimo e reale, nel suo L’arte di legare le persone, edito da Einaudi. Il romanzo non ha la pretesa di un saggio, né di fornire una definizione definitiva su cosa sia esattamente la Psichiatria e cosa dovrebbe esser fatto per fare tutto sempre bene (cosa che, va da sé, è impossibile). Paolo Milone, che ha lavorato per anni in un reparto ospedaliero di Psichiatria d’urgenza (in questo romanzo: Reparto 77), ha un solo intento: dare voce all’esperienza della Psichiatria, da parte di chi la pratica e da parte di chi la riceve.

Attraverso una serie di frammenti, raggruppati per tematiche, l’autore ci porta con sé in un viaggio – estremamente personale e così umano – a conoscere pazienti, colleghi, infermieri, demoni interiori e demoni esteriori, della follia altrui e della propria, che ci si porta addosso come un vestito incandescente e che è difficile scrollarsi di dosso, poi, quando si tratta di ricordarsi di comprare il latte e buttar fuori la spazzatura.

La psichiatria come l’esercizio dei sensi

Se è vero che il suo punto di vista è esclusivamente quello dello psichiatra che cura, è pur vero che Milone – attraverso e grazie alla poetica – riesce a dar voce a chi la voce l’ha persa in una nebbia troppo fitta. Paolo Milone ci descrive i colori, gli odori, i sapori, i vestiti, le maniere dei pazienti che si incontrano in Psichiatria: ossessivi, schizoidi, caratteriali, nevrotici, depressi, isterici. Non ci dà definizioni mediche, ma ce li mostra attraverso dettagli comuni che forse nessuno accosterebbe alla pratica psichiatrica.

Leggendo Milone, appare invece più chiaro come avere a che fare con la follia sia un esercizio dei sensi, una sublimazione dell’istinto tattile, gustativo, olfattivo. Ed è in questa primordiale intuizione dell’altro, che la psichiatria dà al paziente dignità e comprensione. Lo dice Milone: “Marcello, la parola è impotente in Psichiatria […] La parola non è luce che scaccia i fantasmi nella notte, non è legna da conservare per il freddo inverno, non è cibo da tenere in dispensa, non è ninnananna che rincuora. La parola è paglia” (p. 169).

La poetica

Nicola Lagioia, nella sua recensione al romanzo, ha già parlato ampiamente del linguaggio utilizzato: un mix tra la prosa e la poesia, espediente utile per cogliere l’immediatezza di ciò che Milone voleva far percepire.

A tutto questo, che sicuramente basta e avanza, io aggiungerei una sola cosa: la poesia è lo specchio dell’esperienza di Paolo Milone. È come se l’autore avesse compreso che la poesia, il linguaggio sincopato, figurato, non lineare, sia l’unico vero linguaggio per poter parlare di follia nei termini giusti, per restituire la prospettiva di chi ha vissuto al fianco della malattia mentale per tutta la vita. La prosa descrive, forse sviscera, ma la poesia è l’unico mezzo per entrare in vera empatia con la follia.

L’empatia

Entrando nel campo dell’empatia, questa capacità così bella e così rara, è possibile fare un’altra considerazione sui frammenti di Milone: non è sempre come ci si aspetterebbe. Le considerazioni dell’autore a volte sono sconnesse, nebulose, dure, discutibili, imperfette. Ma è giusto così: non solo perché qui si parla di una quasi-autobiografia, ma anche e soprattutto perché l’amore perfetto non esiste, il medico perfetto che non si scompone mai ancora deve nascere e probabilmente uno psichiatra che riesce a non avere mai un pensiero impuro\scorretto\esasperato non fa tanto lo psichiatra (come il personaggio di Rufo).

La Psichiatria è fatta di persone che riconoscono il dolore di altre persone e che vogliono aiutarle, senza lasciarsi trascinare nella follia e senza lasciarsi invadere la vita. Per quanto duro possa apparire, l’empatia è proprio questo: mettersi nei panni di qualcuno con nessuna o scarsa partecipazione emotiva.

Le conseguenze dell’amore

Dall’empatia nasce amore, e anche questo – come tutto nel libro di Milone – non è come ci si aspetta. L’amore psichiatrico, come l’empatia sopra citata, non si riveste di belle parole, persuasioni verbali sempre di successo, rassicurazioni fasulle e pietismo infarcito da frasi come “Siamo tutti un po’ matti” o anche “La malattia mentale non esiste”. L’amore non è negazione, l’amore – psichiatrico in tal caso, ma questa sarebbe una regola generale – è vedere le persone per quelle che sono. Dire a chi soffre di una malattia mentale che la follia non esiste, significa dire che il suo dolore non esiste, relegando così la persona a una solitudine ancor più profonda: “Adriano, dire a un paziente psichiatrico che la malattia mentale non esiste è come dire al paziente che quello che prova non esiste, che lui non esiste” (p. 164).

Bisogna amare in modo da salvaguardare l’altro, non noi. Se si ama nella speranza di dispensarci da ogni senso di colpa, non stiamo amando l’altro. Le conseguenze dell’amore sono tante e molteplici, e questo Milone l’ha capito talmente bene che ci ha scritto un libro intero: fatto di frammenti, momenti di dolore, rabbia, collera, esasperazione, colpa, e ripensamenti. Ma l’amore è anche questo.

Nudismo

Negare non è Psichiatria, e nemmeno amare; volgere lo sguardo altrove, mascherando questo come compassione e progressismo, non serve all’altro ma a noi. “Negare l’esistenza della follia dicendo che siamo tutti uguali è annullare la diversità dell’altro, rendendo tutto grigio. […] Non bisogna dire che siamo tutti uguali, bisogna conoscere le differenze” (p. 175).

Milone non nega nulla, anzi mette in mostra tutto: l’osceno, il bello, il brutto, il privato e anche quello che – per buona creanza – forse non si dice. Questo nudismo contribuisce a creare dei frammenti che parlino all’unisono, che riescano a farsi amalgama omogenea e coerente, che parli al lettore e che spieghi l’esperienza della follia.

Concludendo, L’arte di legare le persone riesce, con delicatezza e fermezza insieme, a dipingere il lato comico, dolce, duro e fragile della Psichiatria e dei suoi abitanti. Non ci sono giudizi – forse solo qualcuno – e nessuna generalizzazione. Quello che si ha, alla fine della lettura, è la sensazione di aver partecipato di molte vite che altrimenti sarebbero rimaste silenti: Lucrezia, Chiara, Emilio, Carmelo. L’arte di legare le persone è un’opera di empatia per corrispondenza.


In copertina, scena tratta dal film “Risvegli”.

Clelia Attanasio

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