Lingua madre, Maddalena Fingerle
Italo Svevo Edizioni, 2021

Raccontare una storia è difficile, forse l’impresa più difficile di tutte: gli ostacoli sono molteplici e, all’inizio dell’impresa, non si vedono nemmeno tutti. Scrivere è come andare incontro a un iceberg: si vede la punta all’inizio e si può pensare: Ma sì, dai, si può fare; per poi scoprire, arrivati alla prossimità della punta, che c’era un enorme blocco di ghiaccio sotto il le profondità marine. Scrivere è difficile, ma scrivere della scrittura, delle parole e della lingua, è eroismo.
Lingua madre di Maddalena Fingerle, edito da Italo Svevo Edizioni, vincitore della XXXIII edizione del Premio Italo Calvino parla di Paolo Prescher, ragazzo di Bolzano con un padre che soffre di mutismo selettivo e una madre isterica, latentemente depressa e una sorella vuota e superficiale. Sin da piccolissimo, Paolo sembra avere una sensibilità intuitiva nel riconoscere le persone false, incoerenti, che parlando non arrivano mai a toccare il cuore nevralgico delle cose; lui le definisce persone che “sporcano le parole”.
La vita di Paolo prende una piega inaspettata quando a diciotto anni, al momento di firmare la dichiarazione di appartenenza alla lingua italiana, il padre si lancia dal balcone: Paolo Prescher da quel momento non non firmerà nessun documento e decide che non parlerà mai più italiano con nessuno; parte così per Berlino, per addestrarsi a non sporcare più le parole. Ci si ritrova improvvisamente, dopo una buona metà dall’inizio della narrazione, in un vortice discendente che trascina noi e il protagonista in un’ossessione fatta di pulizia, parole e significati.
Questo è un romanzo che viaggia, a mio dire, su due binari: uno sociale e uno teorico. A livello teorico, il protagonista propone un’analisi del linguaggio come ideale irraggiungibile: abbiamo le parole, abbiamo la grammatica, abbiamo la possibilità di parlare, ma la possibilità di comunicare davvero qualcosa a qualcuno sembra essere più un’utopia che una realtà effettiva. Paolo Prescher è in qualche modo l’incarnazione del grande dilemma di ogni scrittore: come faccio a dire esattamente le cose che penso senza minimizzarle o fuorviarle, una volta che saranno uscite dalla mia testa? Paolo però, a differenza di chi si lancia e inizia a scrivere, non riesce mai a correre il rischio di non essere fedele al suo pensiero al cento per cento: per Paolo, la distanza tra l’essenza e l’essere delle cose – distanza che il linguaggio e i suoi meccanismi rappresentano perfettamente – è insopportabile come una ferita aperta.
L’altro binario sul quale questo romanzo viaggia è il binario sociale: Paolo Prescher non è solo teoricamente tormentato – cosa che già sarebbe abbastanza per questa povera anima – ma lo è soprattutto socialmente: se è vero che Prescher non vuol che ci sia distanza tra ciò che pensa e ciò che dice, è altrettanto vero che gli è insopportabile assistere negli altri al totale disinteresse verso questa incoerenza di fondo. Paolo non cerca solo la pulizia del suo personale linguaggio, ma vorrebbe poter trovare chi, come lui, dice ciò che pensa in modo limpido, con un linguaggio “pulito”, che nella grammatica di Paolo Prescher significa “sincero”. Infatti, l’unica persona che non sporca mai le parole è il papà, che ha scelto la via del mutismo – forse proprio perché, prima di Paolo stesso, non riusciva a sopportare la profonda incoerenza tra linguaggio e significato.
È un libro di lotta, quello della Fingerle, una lotta intestina tra il voler essere, il voler dire, e il sapere di non poter essere totalmente, non poter mostrare fino in fondo la totalità dei propri significati interiori. È il rischio della comunicazione, dell’alterità: l’incomprensione. Questo, a Paolo Prescher, fa più paura di tutto il resto: l’incomprensione è una minaccia ontologica dalla quale scappare il più lontano possibile, eppure il nostro protagonista non riesce mai a liberarsi da questa ferita. Ecco che a tal proposito ricorre il terzo punto nevralgico del romanzo: Paolo Prescher è come vittima di una “maledizione linguistica”.
Paolo Prescher è l’anagramma di Parole Sporche; un nome che suona come una maledizione, una persecuzione. I medievali usavano associare il nome all’ontologia della cosa stessa: ad una res particolare corrispondeva un signum specifico. Paolo Prescher è il signum che si fa res, in un certo qual modo. Eppure, alla fine della narrazione, ci si chiede: come e quando è accaduto che le parole sporche sporcassero anche Paolo? Forse era stato sporcato da sempre, di uno sporco atavico e primordiale di cui nessuno ha colpa ed è come una macchia che ci si porta all’infinito – come le colpe dei padri (qui è proprio il caso di dirlo) che ricadono sui figli per sette generazioni – e dalla quale non si può scappare: anzi, più si scappa e più la macchia si allarga, come un’idra fatta di parole e segni.
Al contrario la sorella di Paolo, in un modo totalmente diverso e superficiale, è riuscita a sfuggire alla maledizione: per lei, semplicemente, le parole sporche non esistono, non è in grado di vederle. Perché? Perché le colpe dei padri ricadono sui figli per sette generazioni solo quando i figli le prendono in carico. Chi ignora non prende in carico niente, non ha peso. E vale la pena rinunciare al peso della propria res in cambio di una vita in-significante (senza segni)? Per quanto il romanzo e Paolo ci diano un quadro duro, carnale, ossessivo di cosa vuol dire prendere su di sé tutti i destini di tutte le parole, non me la sento affatto di pensare sia meglio rinunciare del tutto.
Concludendo, il testo di Maddalena Fingerle è un testo intelligente, oltre che scritto benissimo e con uno stile coerente fino alla fine – cosa difficilissima, vista anche la difficoltà di argomento – che sono sicura ricorderemo per parecchio tempo. È un testo importante, che affronta con leggerezza e profondità una teoria del linguaggio densa e profonda: personalmente, sono molto orgogliosa di veder fiorire certi testi dal terreno del panorama (giovane, giovanissimo) del lit-web italiano.