Bruno Doucey, Non piangere la Grecia
Crocetti Editore, 2022

Come si può dire la libertà?
Il racconto del magnifico Non piangere la Grecia, di Bruno Doucey, edito da Crocetti Editore, può farlo, meritatamente, solo chi ne ha sperimentato l’offesa, e chi, nonostante tutto, ha capito cos’è libertà e ha opposto resistenza all’oscurità. Cos’è libertà: è, tra le altre cose, sapere quanto è bella la vita e viverla. Da dove proviene quella voce che canta quant’è bella la vita?
Non piangere la Grecia è un piccolo scorcio di Storia, uno spioncino aperto sull’instaurarsi della dittatura dei colonnelli in Grecia a partire dal 21 aprile 1967, cui seguirà un clima di repressione verso gli oppositori al regime. Oppositori identificati come comunisti, ma che all’atto pratico comprenderanno numerose parti di popolazione greca, perseguitate e deportate nei campi di detenzione sparsi nelle isole dell’Egeo, già utilizzati ai tempi della Seconda guerra mondiale e della guerra civile greca non molto tempo addietro. Tra queste parti, pensatori, musicisti, studenti e professori, dissidenti comuni, alcuni dei quali imprigionati non per la prima volta. E poi i poeti: tra i più illustri, centro focale della vicenda narrativa, Ghiannis Ritsos.
Ghiannis Ritsos fu uno dei poeti più noti in Grecia, cantore dello spirito di resistenza antifascista, a lungo icona comunista, ma, in ottica più ampia, anche il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro, come sostenuto dal poeta francese Louis Aragon. Ritsos si ritrova nuovamente esiliato a cinquantotto anni, dopo esserlo stato altre volte nel passato, nelle stesse isole greche. L’espediente narrativo utilizzato da Doucey è fare di Ritsos il poeta preferito di Fotinì, studentessa cretese che avrebbe svolto un lavoro di tesi su di lui e innamorata di Antoine, giovane parigino che si trova al servizio di un lavoro editoriale portato avanti da intellettuali greci esiliati, intenzionati a smascherare gli orrori del regime militare nella loro patria natìa. Dal clima di repressione non è risparmiata Fotinì, di cui Antoine perde le tracce, la quale però, nel progredire della vicenda, è intenzionato a ritrovare, in un sentiero guidato, e destinato, al ritrovamento del poeta stesso nel luogo del suo orrido esilio, dapprima a Ghiaros e poi a Leros-Partheni.
Il doppio binario della storia, l’esilio del grande poeta e la ricerca investigativa di Antoine, si muove efficacemente su due stili paralleli: lo stile giornalistico, cronachistico e militante da un lato, la poesia esiliata da un lato. Questo fa un servizio al vero centro emotivo della narrazione, che è la poesia stessa. All’interno della cronaca dei fatti e dei luoghi, infatti, priva di patetismo, compaiono a volte tracce di lirismo nella semplice descrizione dei luoghi.
Un campo circondato da filo spinato.
Sassi per orizzonte.
Tane dove topi enormi scompaiono.
Colline pestate dal martello del sole.
Questo fa allora dello stile una procedura d’inchiesta alla ricerca della poesia esiliata, che però sembra sempre già trovata, assimilata, mai lasciata andare. Come se l’illustre prigioniero, cui tutti i protagonisti e tutta la vicenda convergono, abbia compiuto sempre la sua ribellione pacifica e persistente.
A Ghiannis Ritsos si arriva poco a poco, dapprima per sentito dire, per ricerca editoriale, per nome, per figura sbiadita all’interno delle migliaia di prigionieri. Quando è raggiunto nel suo piccolo spazio d’isola, viene trovato a dispiegare già tutti i simboli della sua poetica, ovvero sia del suo modo di resistere all’orrore. Ritsos ama raccogliere, e poi dipingere, i ciottoli delle aride isole, quali piccole icone di senso che deve tenere con sé (Sono volti umani. Volti di uomini e donne, volti di dèi amanti di cui qui abbiamo bisogno). I pochi ordinati oggetti personali, anche, che accampa intorno a sé, in una signorilità che non abbandonerà mai.
“Ti chiami?”
“Ghiannis Ritsos.”
“Lo scrittore?”
“Sì, sono io”.
“Anni?”
“Cinquantotto … fra due giorni”.
“Nato il primo maggio? Ah! Comunista di merda”.
Di Ritsos non abitiamo l’intero spirito e l’intero intelletto. Mettendo più piede nel suo esilio, si ha l’impressione che l’altro poeta che ha scritto di lui, Doucey, così come i poeti e gli artisti raccolti intorno a lui nei vari campi di detenzione, presenti e passati, e gli scrittori e gli esiliati che hanno parlato e chiesto di lui, non abbiano mai avuto l’ardimento di sfondare le grandi porte morali a protezione dei suoi pensieri più radicali, raccogliendo di lui solo la sua quietezza esteriore, la sua vocazione pacifica, l’eleganza ribelle poi distillate nei versi popolari, contadini, artigiani, mandati in giro con una soavità non priva di incisione, come gli spilli sulla terra arida.
Ne viviamo piccoli sprazzi di affronto interiore, l’allucinazione segnata dalla malinconia e dalla mancanza di casa, ancora più piccoli fuochi derivanti dal passato della famiglia segnata dagli eventi e dalle malattie, ma mai l’abbattimento totale; anzi sempre la vibrazione, l’estasi spirituale della composizione poetica. Ne deriviamo l’aderenza alla materia viva esaminata dal basso, dalla prospettiva dei sassi delle isole, dei filamenti delle singole onde, dalle cellule degli organi interni. Ed è ancora lo stile che ritroviamo di lui nella lingua della narrazione, in una sorta di omaggio che è più lezione appresa, di chi evidentemente ha amato e studiato profondamente la sua lingua, succhiandone il suo accesso al mondo. Il soave rispetto, lieto come il posarsi di zampette d’uccello sul mangime, si evince all’interno di una prospettiva che sa farsi poesia all’improvviso, come un albero di fico sull’isola brulla, come gli ulivi assolati nel paese dell’infanzia perduta. Presagi di verità imbattibile, neanche nella tortura più indescrivibile. Così neanche il paesaggio arido, ossia lo scenario della detenzione, è privo di poesia, immagine che specchia precisamente il credo incrollabile di Ritsos verso la bellezza della vita umana, d’altra parte in accordo con la vera Grecità che è lo spiritualismo esteta capace di rivestire le coste brulle di immaginazione, divinità, grandi ideali persistenti, come la civiltà e la democrazia.
Un poeta non è tale perché scrive sui fogli. Il poeta è la poesia. Ma Ritsos tiene comunque a lasciare materia della sua composizione, un po’ come Ungaretti che scriveva sui bossoli delle pallottole, un po’ come Montale che lasciava la poesia, e derivava la poesia, dai suoi amuleti di senso contro l’oblio. Da qui l’importanza dei talismani, ossia i taccuini nascosti sotto la sabbia e i ciottoli, che finirà per riportarsi a casa in grandi scatole, in cui intravedere le avvisaglie della divinità. La poesia è la resistenza delle minime cose, la misura più piccola della vita che sopravvive, in forma di ricordo, riformula, sogno, stile. Ciò che possiedo, devo ancora elaborarlo, e restituirlo a tutta la vita.
All’anagrafe, negli ultimi anni mi hanno attribuito
Una data di nascita quantomai improbabile: il 1909.
Me ne sono fatto una ragione e mi adeguo. Alla fine,
nel 3909, mi sono seduto su una panchina a fumare una sigaretta.
Fu allora
Che tornarono gli adulatori per gettarsi ai miei piedi,
infilarmi alle dita anelli scintillanti.
Quegli ignoranti non sapevano
Che li avevo fabbricati io stesso con i bossoli
Dei proiettili
Che quelli sparavano sulle colline …
(Dati Anagrafici)
Così si svolge la resistenza poetica di Ritsos: sgattaiolando all’alba, nonostante una malattia incipiente, per scrivere e nascondere la poesia. Ma anche rappresentando il centro di riunioni poetiche clandestine nei vari campi di detenzione insieme ad altri poeti, come Kostas Kulufakos, e insieme ai giovani arrivi che educa in una sorta di scuola poetica (Adesso ciascuno ha il suo posto nella tenda /Ogni tenda, il suo posto nel campo /Il campo ha preso il suo posto nel mondo /Siamo maturati).
Ma, sopra a tutto, avviene attraverso la poesia stessa, solo la poesia, che ne attraversa le vene, il corpo, la mente, prima della penna.
Le dita mozzate, la lingua strappata, continuerei a sentire la vibrazione della poesia. È la corda tesa dei mei nervi.
La mia resistenza.
All’interno del lamento notturno dei prigionieri nei vari campi attraversati, il canto di Ritsos è inestinguibile, una lamella di luce mai disincantata, che gli nasce in petto e che ne possiede il corpo, a volte in un incontro quasi mistico. E il lamento notturno è al centro di un passaggio particolarmente toccante, che svela in effetti la natura prettamente maschile della detenzione (i prigionieri erano separati tra maschi e femmine), instaurata però pressocché totalmente da altri maschi. Maschi che dannano se stessi e sono dannati.
Per questo è interessante l’unico punto di vista femminile della vicenda. Un punto di vista anche militante, che è quello di Fotinì e che rappresenta in via più larga la ribellione femminile che occorse alla dittatura, derivante soprattutto dalle università, da cui tante studentesse vennero espulse e tenute sotto sorveglianza per via delle organizzazioni clandestine di cui facevano parte, che tentavano con la militanza attiva di invocare la libertà: la repressione degli studenti non eviterà la deportazione di ragazzi meno che ventenni nei campi.
Fotinì, che rappresenta un fiore tra i viottoli sassosi (Cicladico ciclamino nella fessura della roccia); Fotinì che, in quanto ragazza entusiasta, innamorata della poesia e della libertà, nutrita di valori democratici, costituisce un facile bersaglio: col suo singolo punto di vista, lei si raccorderà alla fine degli eventi con una cruenta e necessaria rappresentazione dell’ala femminile dell’ospedale psichiatrico di Leros, simbolo di tutti gli ospedali psichiatrici utilizzati dal regime come luoghi di prigionia irraggiungibili, un inferno all’interno dell’inferno.
Che sarà mai se non è rincasato? L’ombra e la luce si separano in silenzio
Davanti la porta del cortile – una porta scolorita- doveva essere verde un tempo.
È stato il sole a scolorirla. Hai detto: addio bacia per me
gli altri compagni …
(Vecchia mazurca in tempo di pioggia)
Come si fa a dire la libertà?
Bisogna provarne anche il minimo affronto. Capire che libertà è ciò che viene strappato in un’ora di sole, ma che non viene infranto neanche nell’ombra più fredda. Ogni giorno, persino in un tempo che non crediamo mai minacciato, la libertà viene intimidita, ma ciò che fa di questo valore il più bello di tutti, da avere nel cuore, è che è insito nella sua natura il ritorno. Il rinascere. Il giorno nuovo che viene. E questo Ritsos lo credeva profondamente, in ogni indole di chi fu, al punto da rappresentare, la libertà, un organo sensitivo altro, un motore fisico esasperante, che lo portò a superare non ore o giorni, ma anni di esilio e prigionia, anni di minaccia alla patria di cui tanto bene rappresentava la radice d’ulivo incastrata tra le pietre aride.
“Vita, una ferita nell’inesistenza”, aveva scritto in luglio, prima di partire.
Eccolo di nuovo lì, nel cuore dell’esistenza.
Pietre, ripetizioni, filo spinato.
E quel bisogno di poesie incavigliato al corpo.
“Questi alberi non sono a loro agio sotto poco cielo,
queste pietre non sono a loro agio sotto i passi stranieri,
questi visi non sono a loro agio che al sole,
questi cuori non sono a loro agio se non nella giustizia”.
(Grecità)
La storia di Ritsos, la sua ricerca poetica all’interno del suo riquadro di spiaggia-prigione, trova un suo picco narrativo (ed emotivo) nella richiesta di Mikīs Theodōrakīs, famosissimo compositore greco (compositore del sirtaki di Zorba il Greco e che non a caso traspose in musica numerose poesie di Ritsos, destinandole al grande pubblico), anch’egli imprigionato e torturato dal regime, fatta recapitare al poeta in esilio: Vorrei qualcosa per il momento attuale. Qualcosa sul presente. Qualcosa di semplice, profondo, e di assolutamente contemporaneo.
Questa commissione poetica tra pari, richiesta sottovoce e trasmessa dagli editori militanti, motiva Ritsos, spianandogli di fronte agli occhi le vere fondamenta della libertà: la catena di spiriti pari che resistono per fratellanza, per origine, per arte, per aspirazione all’immortalità. E fa ciò che deve fare come poeta, ossia comporre un canto di resistenza. Le parole della poesia sono arrivate subito, come quelle raffiche improvvise sul mar Egeo che alzano le onde e fanno ballare gli scafi dei caicchi. Qualcosa di semplice: Ritsos dirige la sua poetica vero le povere parole concepite nell’amarezza e nelle lacrime. Non le parole di tutti i giorni, ma le parole di tutti i greci che resistono in silenzio (…). Già una di esse s’invola, scivola di nascosto fuori dalla tenda, fuori dal campo, lontano dall’isola, una parola che impugna le armi e fende l’aria: libertà.
Dalla prudenza, dal trovare il modo di scrivere la libertà senza farsi vedere, nascono i distici demotici di Diciotto canzonette per la patria amara, datati proprio 1968, anno dell’esilio. A riprova che non si abbatte mai la libertà, come non si uccide il vento, e non si zittisce la poesia.
“Un piccolo popolo si batte senza pallottole né spade
Per il pane del mondo intero, per la luce e il canto”.
“La Grecità non piangerla- sembra prostata e vinta
Col pugnale nella schiena- il laccio intorno al collo,
ma insorge come un fulmine- con furia di leone
e uccide il mostro orribile- come fiocine di sole”.
Chantal Salvinelli