Piatti freddi

«Dove cazzo sta Walter?».

«Non lo so, capo. Sarà con una donna» disse Jitendra, per gli amici Sandokan.

«Sistema quegli ombrelloni e trovami Walter».

«Sì, capo».

Sandokan finì di aprire gli ombrelloni della seconda fila e poi chiamò Walter al cellulare. Mentre si ascoltava tutto il messaggio della segreteria una decappottabile bianca inchiodò davanti alla scalinata di legno che portava ai Bagni Malibù. Dal lato del passeggero scese Walter, si girò di spalle a salutare la donna con il foulard a fiori sulla testa e gli occhiali da sole giganti e poi scese di corsa tirando fuori il telefono dalla tasca dei bermuda gialli.

«Eri tu che mi chiamavi?».

«L’è incassà».

«E oggi perché?».

«Sei in ritardo».

Bling bling. La notifica di Whatsapp. Walter toccò il telefono: “Vuoi giocare a Indovina chi?”.

«Ma che cazzo è?».

«C’è qualche problema?» disse Sandokan.

«No» rispose Walter e andò a mettersi la maglietta rossa con scritto ‘salvataggio’ sulle spalle.

La vecchia che veniva tutti i giorni allo stabilimento arrivò e si piazzò sulla sua sdraio prenotata per due mesi. Arrivava sempre alle 6.45 e se ne andava alle 15.00, dal lunedì alla domenica. Verso mezzogiorno saliva al chiosco e prendeva qualcosa da bere, però da mangiare se lo portava da casa, e, anche se non era proprio regolare, la proprietaria dei bagni glielo lasciava fare perché era l’unica cliente fissa e aveva pagato in anticipo.

«Ecco la vecia».

«Mo’ ti chiede di sistema’ il lettino» disse Walter.

«Come al solito».

«Sandokan, ma com’è che parli veneto?»

«Quando sono arrivato in Italia sono andato a lavorare a Bassano, agli asparagi bianchi. Ghe son sta’ par tanti anni».

«Asparagi bianchi, e che so’?»

«Non hai mai magna’ gli asparagi bianchi?»

«Ma che me stai a pija’ per culo?»

«Anche tu hai lavorato da un’altra parte, no?»

«Una ventina d’anni fa. Avevo fatto una stagione in Romagna e poi sono rimasto».

«Per una donna?».

«C’ho conosciuto la mia ex moglie ma lei era francese».

«Aaaaaahhh!» la vecchia urlò scattando in piedi. Agitava le mani davanti a sé come se avesse toccato qualcosa di bollente.

«Che cazzo ha fatto questa?».

Walter e Sandokan si avvicinarono e lei continuava a gridare isterica senza farsi capire. Era bianca, stava per svenire e indicava per terra.

«Occatoaccosa!».

«Ha toccato qualcosa?».

Walter si abbassò per vedere, c’era un pezzo di plastica che sbucava dalla sabbia.

«La gente sta a diventa’ matta con ’sta plastica, tutti ambientalisti» disse mentre tirava su la bustina trasparente. Spolverò via la sabbia e strizzò gli occhi cercando di capire cosa ci fosse dentro, poi la vide. Fece un sobbalzo, rimase un secondo senza fiato e diventò pallido pure lui come la vecchia. Sandokan lo guardò e si avvicinò per vedere cosa c’era nel sacchetto.

«Orcamatina» disse.

«È una cazzo di mano» disse Walter a bassa voce per non farsi sentire dalla signora.

«Una mano mozzata» bisbigliò Sandokan.

«Niente signo’, è un panino ammuffito. Prosciutto e mozzarella, a occhio e croce».

La signora si era calmata, Walter e Sandokan si allontanarono con il sacchetto e lo portarono su al chiosco. Davanti all’entrata c’era una lavagna con le scritte: Bagni Malibù – Lido di Ostia. Ombrellone e sdraio 15 euro al giorno. Panini 3 euro. Piatti freddi 5 euro.

«Che cazzo facciamo?».

«O la buttiamo via o la porti alla polizia».

«La buttiamo insieme ma la porto alla polizia da solo?»

«Io sono indiano»

«E che c’entra? Mica sei clandestino».

«No, ma mi lo so come va a finir, è sempre colpa dello straniero».

Bling bling. “Ha la mano mozzata? Indossa anelli? Indovina chi?”.

Walter si guardava intorno con gli occhi quasi fuori dalle orbite e ansimava.

«Che succede?» chiese Sandokan.

«Niente» disse ma pensava cazzo, allora quella mano era per me.«Buttiamola via, poi al limite la trova qualcun altro».

«E dove la buttiamo?».

«Faccio una buca e la seppellisco».

«Cancella le impronte».

«Bisogna pulire la passerella, è coperta di sabbia» strillò la proprietaria dei Bagni Malibù.

«Sì, capo» dissero in coro.

«Sì capo, però state qui a perdere tempo».

Walter andò a pulire la passerella e approfittò per scavare su un lato delle tavole di legno che formavano il percorso per scendere dalla strada fino in spiaggia, quando la buca fu abbastanza profonda ci buttò dentro il sacchetto con la mano mozzata e lo ricoprì subito.

A mezzogiorno il mare era brutto. Una coppia al largo con un materassino non riusciva a tornare a riva e Walter andò col pattino a recuperarli. Dopo averli tirati su, mentre saliva per rientrare, sentì qualcosa che gli passava sotto l’ascella. Cazzo, una medusa, pensò, ma era un sacchetto di plastica. Lo prese e lo buttò sotto il sedile senza nemmeno guardare, immaginava cosa poteva essere e voleva evitare di farlo vedere ai due che aveva salvato.

«Porca puttana» disse mentre Sandokan lo aiutava col pattino «ce n’è un altro».

«Che cos’è?».

Lo guardarono insieme, la plastica era un po’ opaca per via dell’acqua salata e c’era la condensa, ma era un piede. Un piede sinistro tagliato appena sopra alla caviglia.

Bling bling. “È un piede? Ha qualche tatuaggio? Indovina chi?”. Stavolta mostrò il messaggio a Sandokan, non ce la faceva a tenerlo per sé, gli poteva servire aiuto.

«Questo la ga con tì».

«Ma quale tatuaggio?» disse Walter mentre rigirava il sacchetto e tendeva la plastica per vedere meglio il piede. Aveva lo smalto verde e il tatuaggio c’era, appena dietro al malleolo. Una piccola palma. Walter sbiancò e il sacchetto gli tremava nelle mani.

«Mia figlia ha una palma sulla caviglia» disse e cadde a sedere sul bordo del pattino.

«Qui li vedo tutti i giorni tatuaggi così, ce l’hanno in tanti» disse Sandokan.

Walter respirava e ogni tanto emetteva una specie di rantolo.

«Ma dov’è tua figlia?».

«In Francia con la madre, fa l’università».

Walter la chiamò subito ma il cellulare era staccato. Chiamò la sua ex che non sentiva da più di un anno, da quando le aveva chiesto un prestito per comprarsi la roulotte in cui viveva.

«Non la sento da due giorni, è in campeggio in Corsica e il telefono non prende bene» disse lei.

Lui non riusciva a dire niente.

«È successo qualcosa?».

«No, è che… la volevo sentire».

«Appena mi chiama le dico di telefonarti».

Non sapeva se portarsi dietro il piede oppure no. Era meglio non avere una cosa del genere in casa ma se era il piede di sua figlia come poteva abbandonarlo da qualche parte? Andò a sotterrarlo nello stesso punto in cui aveva lasciato la mano. Se è Aurélie la riprendo quando avrò capito che succede, pensò. «Ma come cazzo parlo? La riprendo?» disse ad alta voce.

«Hai fatto incazzare qualcuno?» disse Sandokan.

«Non ho fatto niente, perché?».

«Perché? Ti stanno mandando pezzi di cadavere e messaggi per farti fare la caccia al tesoro».

«Ma non lo so».

«Calcòsa ti ga fato».

Tornò nella roulotte parcheggiata al campeggio vicino ai Bagni Malibù, ormai viveva lì da quando lo avevano sfrattato. Stava in fondo al camping in una piazzola dove c’era la fogna e non ci si voleva mettere mai nessuno. È per questo che pagava poco.

L’abonné que vous tentez de joindre n’est pas disponible”, Aurélie non era ancora raggiungibile. Buttò il telefono sul tavolino e si sdraiò. La finestra era aperta, entrava una leggera brezza che odorava di pini marittimi, resina e detersivo per i piatti al limone. Qualcuno stava lavando le stoviglie nella zona lavandini, si sentiva il rumore delle posate e la spugna che fischiava sui bicchieri puliti. Poi un tonfo sul tetto della roulotte.

Walter scattò seduto sul bordo del letto e tese l’orecchio. Prima guardò dalla finestra, poi uscì dalla porta guardandosi bene intorno. Salì sulla scaletta attaccata sul retro e vide che c’era una pigna. Sospirò sorridendo e rilassò le spalle. Rientrò e c’era una bustina di plastica sul tavolo.

«Cazzo» smise di respirare.

Ricontrollò dentro e fuori ma non c’era nessuno. Con una mano prese la bustina e con l’altra il telefono per chiamare Sandokan.

«Pronto».

Nel sacchetto c’era una mano sinistra con un anello.

«Pronto, Walter».

Era l’anello di sua madre, quello che aveva dato a Aurélie quando aveva compiuto 18 anni. Almeno era identico.

«Walter?» disse Sandokan con la voce squillante che gli tremava.

«È la mano di mia figlia».

«Arrivo».

Bling bling. “Indossa anelli? Indovina chi?”.

«Vaffanculo» gridò.

«Dici a me?» disse la donna spalancando la porticina del bagno. Era vestita tutta di nero e indossava un passamontagna e una borsetta gialla a tracolla.

«Chiccazzosei?».

Squillò il telefono.

«Rispondi».

«Sandokan, non è il momento» disse con la voce che sembrava immobile.

«So chi è. È il capo, è sempre stata innamorata di te…»

«Sandokan…»

«Sì, è gelosa, ogni volta che ti vede andare via con una donna…».

«Non mi sembra lei».

«Ma non lo sai di cosa è capace. Ha fatto a pezzi qualcuna delle tue amanti, vedrai».

«Non è lei» Walter muoveva appena le labbra per parlare, la donna aveva tirato fuori un revolver cromato dalla borsa a tracolla e lo teneva sotto tiro con l’indice sul grilletto.

Sandokan non parlò più nemmeno lui, era arrivato e guardava la scena dalla finestra senza farsi vedere. Attaccò e si guardò intorno in cerca di qualcosa da usare come arma, raccolse un ramo secco, lo soppesò per un momento ma poi lo scartò.

Con la mano sinistra la donna si sollevò il passamontagna e lo lasciò cadere per terra sulla moquette avana a pelo corto.

Era la vecchia.

«Mi riconosci?».

«Sei quella che viene ai Bagni Malibù».

«Sbagliato».

Sandokan corse verso un camper poco distante, due signori sui 70 anni stavano fuori nella veranda seduti sulle sedie di nylon a bere il nocino.

«Signori, avete qualcosa tipo un piede di porco?».

«Manliooo» urlò la donna spaventata.

«Ci vuoi ammazzare? Non abbiamo niente» disse il vecchio.

«No, io… se mi date una mano, un mio amico è in pericolo».

«Chiama la polizia, Manlio!».

«Mavainmona» Sandokan corse via a cercare altrove. C’era una macchina con il bagagliaio aperto, gente appena arrivata che montava la tenda, frugò dentro e scappò con il cric verso la roulotte.

«Dov’è mia figlia?» chiese Walter.

«Un po’ qui, un po’ là» fece lei inclinando la testa a destra e a sinistra.

«Brutta troia, chi cazzo sei?».

«La vecchia della sdraio, la donna di ieri e la ragazzina di diciannove anni fa».

Sandokan spinse la porta d’ingresso con un calcio, l’anta leggera andò a sbattere contro la parete interna, la vecchia non fece in tempo a girarsi, l’indiano le tirò il cric tra capo e collo e quella andò a terra con la faccia nella moquette piena di polvere.

«Legala, legala!» disse.

Walter prese la cinta dell’accappatoio e le legò le mani strettissime dietro la schiena, poi la mise seduta sul pavimento con la schiena appoggiata alla parete e le strinse le caviglie con una cintura di stoffa che aveva sfilato via da un paio di jeans.

«Ma cazzo, è la vecia».

Bzzz bzzz, il telefono suonò. Walter guardò lo schermo e diventò pallido.

«Aurélie?».

«Ça va, papa? Ha detto mamma di chiamarti».

«Sei tu? Stai bene?».

«Sì, tutto bene. Ma che c’è?».

«Niente, niente. Sei proprio tu?».

Sandokan lo guardava parlare al telefono con gli occhi sgranati. Walter salutò la figlia e si mise seduto buttandosi di peso sulla panchetta attaccata alla parete come se avesse appena finito una maratona tutta in salita.

La vecchia seduta per terra iniziava a muoversi, aveva la faccia più stropicciata del solito, si strusciò il mento sulla spalla destra e un lembo di pelle si sollevò da sotto al collo. Poi iniziò a contorcersi per liberarsi ma era impossibile.

«Bastardo» disse «avvicinati, strappami la maschera».

«Ma che dice?» chiese Sandokan.

«Levami la mascheraaa» gridò.

Walter si abbassò, sollevò il pezzo di gomma che si era staccato dal collo e lo tirò verso l’alto. Lentamente da sotto lo strato di gomma uscì fuori un viso giovane. E la riconobbe. Era la donna con cui era stato la sera prima, quella che lo aveva riaccompagnato la mattina ai Bagni Malibù.

«Ma che cazzo…».

«Mi riconosci adesso?».

«Sei quella che mi sono scopato ieri».

«Sbagliato. Indovina chi?».

«Dimmi chi sei e falla finita con questo gioco di merda. Sei legata, la pistola ce l’ho io e adesso mi hai rotto il cazzo».

«Ti ricordi il giorno che è nata tua figlia?».

«Mia figlia è viva. Di chi cazzo sono le mani?».

«Sono di gomma, io faccio le maschere per i film».

«E che cazzo vuoi da me?».

«Volevo vederti soffrire. Non ti viene in mente perché?».

«Taglia corto, diocan» intervenne Sandokan.

«Diciannove anni fa lavoravi in Romagna e mio fratello gemello è affogato perché tu non l’hai salvato. Bagnino di merda».

«Ho fatto di tutto, ma il mare era troppo mosso. Non lo doveva fare il bagno» se lo ricordava eccome.

«Eri ubriaco, avevi fatto l’alba festeggiando la nascita di tua figlia».

«C’era la bandiera rossa, divieto di balneazione».

«Lo dovevi salvare lo stesso».

«Ci ho provato, per poco non affogo pure io».

«Sei una merda. Sono venuta per ammazzarti. Volevo vederti morire mentre credevi che tua figlia fosse morta e fatta a pezzi».

«T’è andata male, mona».

«Come facevi a sapere di mia figlia, dell’anello?».

«Sono anni che ti cerco, quando ti ho trovato mi sono studiata tutto».

«Adesso che facciamo?» chiese Sandokan.

«Lasciatemi andare».

 «Col cazzo, tu torni e mi ammazzi».

«Ormai ho perso l’occasione».

Walter guardò Sandokan e allargò le braccia. Le credeva. Di certo non l’avrebbe ammazzata e chiamare la polizia non sarebbe servito a nessuno. Dopo essere stata slegata raccolse la maschera e se ne andò.

«Ho la birra in frigo, resti?».

«Io non bevo, però resto. E la pistola?».

«La vuoi?» disse Walter e scoppiarono a ridere.

«Buongiorno, capo» dissero in coro Walter e Sandokan la mattina dopo attaccando a lavorare ai Bagni Malibù.

«Sono le sette. Siete in ritardo di mezz’ora, coglioni».

«Tanto mi sa che oggi la vecia non viene» disse Sandokan.


Mara Abbafati si occupa di editing, traduzioni e sottotitoli. Ha collaborato, tra gli altri, con Giunti editore e Netflix. È stata autrice e redattrice per le riviste L’Irrequieto e A few words. Alcuni suoi racconti sono apparsi o appariranno presto su antologie e riviste tra cui Pastrengo, Carie, Il mondo o niente, Bomarscé, Narrandom e Clean Rivista. La sua prima raccolta di racconti è in cerca di editore. Crede solo nella sintesi e in Michele Apicella.

Redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto