La struttura narrativa di Cechov presenta, nel massimo delle sue potenzialità, quasi sempre un doppio fondo. È straordinario notare, in uno scrittore che fu tale laddove l’arte letteraria difficilmente trova possibilità esplicative di un certo livello – vale a dire, nella miseria e nell’indigenza -, lo sviluppo di una capacità scrittoria parallela, cioè mai piatta e sempre profonda, capace di creare una trama in cui, a distanza ma in continua concatenazione tra loro, gli eventi principali mutuano sé stessi da ciò che potrebbe apparire secondario: trattasi, in altri termini, di un meccanismo narrativo che basa la propria azione sullo sviluppo di quelle trame nascoste che sono, in definitiva, la vera spinta propulsiva di ogni esistenza; un meccanismo che ricorda al lettore – ma soprattutto al narratore – quanto spesso a fare la Storia sia l’inezia, il banale, lo sterminato raccordo di fatti e accidenti secondari.
Non è un mistero che vera protagonista dell’arte cechoviana sia la realtà russa dei contadini e, in generale, dei disadattati. Si può, anzi, dire che la Russia rurale, oppressa da secoli di burocrazia e gerarchia politica, luogo di meschinità e contraddizioni, paradigma di una vita di fatto anti-eroica, abbia rappresentato per lo scrittore di Taganrog la sola ragione utile ai fini di una poetica letteraria ampia e concreta (in questo, soprattutto, fu riconosciuta in lui una certa ispirazione gogoliana, in cui realtà sociale e furor individuale venivano a trovarsi compenetrati vicendevolmente e che sarà, specie nei racconti, ripresa anche da Tolstoj[1]).
Questa inclinazione sottoproletaria rappresenta, quindi, il punto di partenza necessario ai fini di un’indagine approfondita del rapporto netto e deciso intrattenuto da Cechov con il reale, sia in termini artistici, sia in termini umani; un’inclinazione che è sottoproletaria non solo nei suoi aspetti narrativi e descrittivi, ma – ed è quanto qui interessa – soprattutto nelle modalità di approccio al reale che fanno dell’esperienza umana individuale un crocevia unico per la comprensione delle dinamiche sociali e politiche dell’intera comunità russa di metà Ottocento.
A questa logica risponde direttamente il problema della religione, affrontato da Cechov in alcuni racconti e individuato nelle sue due spinte essenziali, spirituale e politica. Un problema, a ben vedere, non secondario, se si considera il forte attaccamento, specie nella popolazione rurale russa dell’epoca, al cristianesimo e, più in generale, alla necessità di una chiave di lettura della vita che trascendesse la materialità quotidiana e permettesse di sviluppare le difficoltà comuni in un lungo processo di espiazione e, infine, di salvezza. Qualche decennio prima, del resto, un’altra voce autorevole della letteratura russa, Dostoevskij, aveva tentato un’operazione – simile – di narrazione epica della Russia attraverso i suoi moti interiori distruttivi (come nel caso delle spinte nichilistiche) e costruttivi (rappresentati dal genuino e cristiano amor fati del contadino umile) in quel grande affresco socio-antropologico che è I fratelli Karamazov, testo sicuramente noto a Cechov e di cui si rintracciano motivi e strutture nel dialogo tra lo studente di filosofia Kovrin e il monaco nero nella novella Il monaco nero[2].
La religione, dunque, nell’ideologia negatrice di Cechov[3], il quale lamentava di non avere “un punto di vista politico, filosofico e religioso”, non è rintracciata nei suoi attributi morali, lusso delle classi colte, quanto nei rapporti reali tra istituzione e fede: vi è, in altri termini, un’adesione completa dello scrittore all’approccio antropologico proprio del sentimento religioso delle classi subalterne, le quali vivono la sfera del divino come un’attesa di liberazione e, contemporaneamente, un luogo di espiazione. Una religione, se si vuole, trascendente ed estremamente pratica a un tempo, momento utopico di una significazione universale ed espressione delle contraddizioni sociali.
Non a caso, uno dei più celebri racconti di Cechov, Il violino di Rothschild, ha come protagonista un falegname di bare, Jakov Ivanov, uomo rude, burbero, che lamenta una perenne miseria e l’innaturale longevità dei suoi concittadini, il quale, pur vivendo costituzionalmente un rapporto privilegiato con la morte – e, quindi, con la fede -, non accenna mai alcuna riflessione di carattere religioso impegnato com’è a sopravvivere nelle estreme condizioni di povertà a cui la società lo ha destinato:
Diventò rosso come un tacchino e dal viso gli grondò il sudore. Pensò che se avesse portato alla banca quei mille rubli perduti, avrebbe guadagnato nel corso dell’anno almeno quaranta rubli di interesse. Per conseguenza anche quei quaranta rubli rappresentavano una perdita. Insomma, poteva voltarsi e rigirarsi come voleva, c’erano sempre perdite, perdite, nient’altro (Cechov, Il violino di Rothschild, p.139).
L’inconsistenza dell’individuo dovuta alla povertà, quindi, vissuta da Cechov sulla propria pelle negli anni dell’infanzia e della giovinezza, si riflette fino a mutare alla radice le proprie coordinate sociali, privando l’uomo di qualsivoglia altra economia del vivere; essa, da momento sociale, si fa costante espressione esistenziale, eliminando ogni sorta di rivalsa o rivincita: l’uomo inconsistente, cioè, diventa altro dalla società, si estranea dalle normali dinamiche sociali, relegandosi, più o meno spontaneamente, ai margini della vita collettiva. Tale emarginazione, da sociale, si tramuta presto in una disappartenenza dell’individuo da ogni sfera umana, comprese quelle propriamente personali e intime come può essere la sfera religiosa: <<Secondo me son proprio furfanti quelli che hanno trapiantato qui! A un ricco avrebbero certamente applicato una ventosa, ma se si tratta d’un povero, anche una sanguisuga è troppo buona!>>, dirà Jakov dopo aver accompagnato la moglie affetta da tisi in ospedale: parole simbolo di uno scollamento sociale che ha reso l’uomo estraneo al mondo e, in primis, a sé stesso.
Tuttavia, un aspetto interessante emerge nel proseguo della vicenda, e riguarda l’altra spinta propulsiva del sentimento religioso, quella spirituale. Si è già detto dell’incapacità di Jakov Ivanov nell’esprimere compiutamente un qualsiasi sentimento di fede: egli è immerso nella lotta quotidiana per la sopravvivenza e, a ragion veduta, non avrebbe le forze, oltre che i mezzi, per rapportarsi direttamente con il divino. Ciò nonostante, Cechov non rinuncia a descrivere le potenzialità unanimistiche proprie dell’approccio sottoproletario alla sofferenza e alla morte. Nel momento in cui Jakov prende coscienza dell’imminente morte della moglie Marfa, tra la rabbia per il trattamento subito in ospedale e la delusione per non aver ancora guadagnato qualcosa, inizia, quasi per un soggiacente istinto che accomuna tutti i sofferenti, a costruire la bara della moglie, dapprima macchinalmente, come se si trattasse di una commissione estranea, e poi sempre con maggiore partecipazione emotiva:
Jakov la guardava, corrucciato, e pensava che il giorno dopo sarebbe ricorsa la festa di san Giovanni il Teologo, tra due giorni quella del Taumaturgo san Nicola, e poi si sarebbe arrivati alla domenica, e poi al lunedì, una giornata difficile. Per quattro giorni non si sarebbe potuto lavorare, ma certamente Marfa sarebbe morta durante uno di quei giorni, perciò bisognava porre mano alla bara quel giorno stesso. Si avvicinò alla vecchia e col suo arscin di ferro ne prese le misure. Allora lei si coricò e lui si fece il segno della croce e cominciò a fabbricare la bara (Cechov, Il violino di Rothschild, p. 145).
Non tragga in inganno il rapporto coniugale tra i due soggetti. Ciò che Cechov vuole mettere in risalto, in questo passaggio, non è l’affetto di un marito nei confronti della moglie[4], ma la compartecipazione di un sofferente a un dolore che egli riconosce come il proprio: due individualità distinte, insomma, si identificano in un unico destino di sofferenza. Il passaggio successivo chiarisce ulteriormente questo punto:
Per non pagare il chierico, Jakov lesse i salmi lui stesso, per la fossa non gli fu chiesto nulla, dato che il custode del cimitero era il suo compare. Al cimitero la bara fu portata da quattro contadini, che non lo fecero per denaro ma per rispetto, e fu seguita da donne vecchie, da mendicanti, da due mistici veggenti, e tutti coloro in cui ci s’imbatteva durante il cammino si facevano devotamente il segno della croce… (Cechov, Il violino di Rothschild, p. 146).
Come in un quadro di Lowry, la partecipazione al funerale della donna diventa un’adunata di classe, in cui avviene, per mezzo dell’atto religioso, un riconoscimento sociale. Tuttavia, non è questo ciò che importa: Cechov qui insiste sull’immagine, popolare e figlia della miseria condivisa, di una sofferenza comune a cui ognuno partecipa con i propri mezzi, fornendo non solo aiuti concreti – la fossa e il trasporto -, ma soprattutto mostrandosi rispettoso nei confronti di una vita antropologicamente avvertita come personale disappartenenza al mondo civile. Per questi personaggi – perché tali sono, maschere di vite possibili e mai realizzate -, sembra volerci dire Cechov, anche la morte, anche la religione sono una questione di classe, di denaro e di spese; per loro morire è un atto come un altro, un incidente senza alcun eroismo o aspettativa: essi sperano che ogni cosa sarà riequilibrata, ma senza crederci davvero; per questo, essi possiedono solamente e realmente le proprie ristrettezze – finanziarie, sociali, spirituali – e, proprio per questo, essi decidono di partecipare all’unisono a un funerale, come un unico, grande grido di lontananza e di sconfitta. In altri termini, la morte, e con essa, la religione, svuotate di ogni significato teleologico, vengono a identificarsi come il momento gnoseologico in cui l’individuo prende coscienza di sé in quanto unità singola e in quanto unità sociale: nel primo caso, Jakov si ritrova davanti alla propria brutalità, alla violenza con cui ha trattato una moglie mite e premurosa, alle innumerevoli occasioni perse:
Ripensò che durante tutta la vita non aveva mai dimostrato un po’ di affetto a Marfa, che non era mai stato tenero con lei. I cinquantadue anni che avevano vissuto insieme nella vecchia capanna gli sembrava che fossero passati lentamente, molto lentamente, ma, chissà perché, ci si sovrapponeva il ricordo che in tutto quel tempo egli non aveva mai pensato, non aveva mai badato a lei, come fosse stata un gatto, un cane. Eppure lei aveva acceso la stufa ogni giorno, aveva cucinato, aveva infornato il pane, era andata a prender l’acqua, aveva spaccato la legna; lui aveva dormito con lei nello stesso letto, ma quando tornava ubriaco dalle feste nuziali, lei aveva sospeso rispettosamente il violino alla parete e lo aveva aiutato a sdraiarsi. E tutte queste cose le aveva fatte silenziosamente, con un’espressione timida e premurosa sul viso (Cechov, Il violino di Rothschild, p. 147).
Nel secondo caso, quella stessa violenza domestica, in un primo momento legittimata, perché personale, e poi rifiutata, emerge quale cifra connaturante anche dei rapporti inter-personali intrattenuti dall’uomo: Jakov, tramite il medesimo processo di negazione, rigetta ora gli eccessi di collera nei confronti dell’ebreo Rothschild, a cui poi donerà il suo violino[5], nella consapevolezza che la sua vita avrebbe potuto essere altro se avesse abbandonato ogni rancore e ogni meschinità:
Perché gli uomini fanno sempre quel che non dovrebbero fare? Perché Jakov, durante tutta la sua vita, ha inveito, ruggito, perché ha minacciato sua moglie, alzando il pugno, perché l’ha offesa? Si chiede perché poco prima abbia fatto paura all’ebreo; perché l’aveva insultato? Perché gli uomini si impediscono scambievolmente di vivere? Da ciò derivano tutti i danni! E che terribili danni! Se non ci fosse l’odio, se non ci fosse la malvagità, gli uomini trarrebbero un vantaggio enorme l’uno dall’altro (Cechov, Il violino di Rothschild, p. 152).
In questa chiave di lettura, per la quale l’esperienza umana del rapporto con le sfere metafisiche viene svuotata di ogni ragione spirituale a tutto vantaggio di una necessità socio-politica, la frattura esistenziale tra individuo e società non potrebbe emergere più chiaramente: con estrema lucidità critica, Cechov sembra rimaneggiare le trame quotidiane dell’incidenza del potere sulla vita umana, e pare farlo nei punti in cui più facilmente quello stesso potere riesce a creare una nuova trama, una nuova sociologia servile basata sul rango, sul profitto e sulle perdite – in altri termini, basata su un’economia di lignaggio e di mercato che, se per certi versi prende atto del logoramento della vecchia classe dirigente, per altri sembra anticipare l’ascesa dei nuovi ricchi, di quella borghesia che in Russia non riuscirà mai del tutto ad acquisire un potere reale ma che, tuttavia, si mostrerà capace di affermare un nuovo modo di intendere il mondo[6] alle soglie di un momento storico dalla portata epocale[7]; e in una simile condizione, il riconoscimento della disappartenenza, da parte delle classi meno abbienti, alla società civile e, dunque, ai processi decisionali, politici ed economici, si evolve naturalmente in una placida quanto atroce accettazione del proprio destino: Jakov, ormai cosciente della sua situazione, scopre l’ineluttabilità della propria parabola esistenziale, destinata ad arenarsi nel non-luogo della morte fisica e morale; una fine che, nella disperata lucidità cechoviana, nel suo, se si vuole, ragionamento assurdo, acquista valore proprio perché elimina ogni valore: nella frattura tra le aspirazioni dell’individuo e le concrete rispondenze del mondo, nel silenzio assordante che accompagna il grido disperato del misero e del disconosciuto, solo l’eco dell’annullamento totale può restituire una qualche specie di liberazione:
Ma mentre tornava a casa pensava che la morte avrebbe potuto portare solo vantaggio: non ci sarebbe stato bisogno di mangiare, né di bere, né di pagar le tasse, né di offendere la gente, e poiché l’uomo non giace un anno solo nella fossa, ma centinaia, migliaia di anni, se si fosse fatta tutta la somma, ne sarebbe risultato un vantaggio enorme (Cechov, Il violino di Rothschild, p. 153).
Ancora una volta, nonostante la presa di coscienza della propria insignificanza esistenziale, Jakov ragiona in termini di profitti e di perdite, non uscendo dal vortice dell’alienazione e dimostrandosi inabile a uno scatto significativo: la morte per tisi, ormai inevitabile, gli sembra la sola possibilità di fuggire dalle ingerenze economiche che, a ben vedere, lo hanno sempre pressato e ciò gli proibisce di inserirsi all’interno di un meccanismo liberatorio del suo essere uomo: al contrario, egli vive la morte come una liberazione dal suo essere umano, dal suo essere, cioè, un individuo divorato da dinamiche sociali ed economiche. La morte, e dunque la religione, vengono individuate, nella vicenda del falegname, quale mezzi, tra i tanti, di accettazione o di repulsione di un determinato status quo: all’interno di ben oliati meccanismi di potere, in cui la sopraffazione e l’abuso <<dell’uomo sull’uomo>> è la regola prima per ogni relazione inter e intra personale, anche ciò che esula dalla sfera del materiale – la morte, la fede, la dannazione e la salvezza – non può possedere alcun’accezione estranea alla macchina sociale e politica: la sola cosa che resta da fare è morire, donare un violino e sperare che il conto del funerale non sia troppo salato.
[1] Ci si riferisce qui espressamente a Il cappotto di Gogol’ e a La morte di Ivan Denisovic di Tolstoj.
[2] A titolo esemplificativo: “In qualche momento non ti vedo e non sento neppure la tua voce, ma indovino sempre le scemenze che stai dicendo, perché sono io stesso che parlo, e non tu!” (Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Sansoni, 1966); “< Strano, tu ripeti ora quel che spesso mi è passato per la mente >, disse Kovrin. < Sembra che tu abbia spiato e udito esprimere i miei più segreti pensieri. >” (Cechov, Il monaco nero, Edizioni San Paolo, 2012). Sia a livello strutturale, che psicologico, i due personaggi appaiono mossi dalla eccezionalità dell’incontro, letto quale incontro psichico individuale.
[3] L’autore, cresciuto in un ambiente fortemente cristiano, ricorderà in seguito la sofferenza patita per volontà paterna quando dirà: “Io ho paura della religione. Quando passo davanti a una chiesa mi ricordo della mia infanzia e sono preso dal terrore”.
[4] Più volte, anzi, nel testo, specie nelle ultime pagine, poco prima di morire, Jakov si rimprovera la durezza e l’indifferenza con cui ha trattato la moglie nei cinquant’anni di matrimonio.
[5] Si è già accennato alle donazioni come segni di un’appartenenza comune a un comune destino di miseria: come nel funerale di Marfa, in cui Jakov aveva ottenuto una fossa e il trasporto della salma a titolo gratuito, il violino donato, in punto di morte, a Rothschild sta a simboleggiare l’accettazione e il riconoscimento da parte del vecchio falegname di un unico destino che lo accomuna al tanto vituperato flautista ebreo (“Mi sono ammalato, fratello”).
[6] Una nuova sociologia, per l’appunto, basata sulla forza del capitale, sul divario tra salario e profitto e, infine, creatrice di una nuova teleologia che sarà, poi, di converso, alla base delle rivoluzioni del 1905 e del 1917 (si confrontino, a proposito, K. Marx, Lavoro salariato e capitale, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2012; V. Lenin, Stato e rivoluzione, Edizioni Lotta Comunista, Milano 2012; A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2018).
[7] Gli ultimi trent’anni del XIX secolo e i primi venti del XX vedranno la progressiva erosione sia dei vecchi sistemi di commercio, con la successiva affermazione del nuovo capitalismo industriale, sia dei vecchi sistemi istituzionali di stampo teocratico e imperiale, con l’ascesa al potere di movimenti basati sulla forza quantitativa della massa. È ulteriormente interessante, inoltre, notare come proprio a partire dagli anni 70 dell’Ottocento, lo stesso capitalismo industriale non riuscirà a evitare diverse crisi di sistema che culmineranno, partendo dalla crisi del 1875, nella grande depressione del 1929 e che contribuiranno, assieme al deperimento politico delle vecchie istituzioni, alla nascita e all’affermazione di nuovi modi di concepire la politica (si confronti A. Toynbee, A study of history).
Filippo Casanova, nato ad Altamura (BA) il 23/01/1996, dopo la maturità classica, ha studiato Lettere Moderne presso l’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari specializzandosi, poi, presso la medesima Università in Filologia Moderna. All’approccio testuale di tipo filologico unisce una visione e un’analisi socio-politica utile a rintracciare, in un testo letterario, la forza dialettica che soggiace a ogni esperienza umana, compresa quella artistica, pensando alla letteratura come a una lente di ingrandimento attraverso la quale poter ri-conoscere la realtà nella sua essenza prospettica e problematica.