Caccia

Lei mi guardò. Il suo sguardo fisso sulla mia matita immobile. Grafite intatta e puntellata sulla ruvidità imposta d’un foglio rigorosamente Damiano.
“Disegnate e colorate i vostri incubi. Sbizzarritevi, divertitevi e sconfiggete le vostre paure!”
La mia mano paralizzata, al limite tremolante, era bloccata nell’indecisione.

Iniziai a scalpellare nella carta la forma di un dinosauro, un T-Rex precisamente, con un arto a mitragliatrice e occhi, che poi colorai giallastri, con le sopracciglia inclinate verso il basso, poiché così immaginavo potesse essere la crudeltà.
Stilizzazione e cliché vanno di pari passo nell’età prepuberale, ma anche dopo del resto.
“Che bravo! ma davvero sogni queste cose? Sei veramente coraggioso!”
Non sognavo nulla, al tempo, eppure per convenzione sociale m’imponevo di mentire.

Stringo la presa saldamente sul grip e trattengo la freccia appoggiandola delicatamente sul rest, verso il punto mediano dell’arco, assicurandola alla corda tramite la cocca. Stendo il braccio lungo il piano sagittale, portando il mio allungo alla sua massima estensione. Sento l’arco tendersi sotto la pressione dei miei polpastrelli, accumulando tutta l’energia elastica potenziale di cui sono capace, mentre il mio occhio guarda oltre, tra le piume della freccia, specificatamente dopo la punta.

Osservo i due stabilizzatori, montati rispettivamente sopra e sotto l’estremità dell’arco, ballonzolare leggermente, seguiti dai silenziatori, agganciati alla corda al fine di dissipare parte delle vibrazioni in fase di rilascio. Alla fine osservo il bottone, una sorta di frizione che compensa il cosiddetto “paradosso dell’arciere”, un’influenza sulla traiettoria della freccia dovuta al rilascio della stessa.

Tutto è al suo posto, inspiro e trattengo il fiato.
Immobilità assoluta.
Il mio obiettivo è il collo dell’animale.

Il cucciolo di Cervus elaphus si trova a circa una quarantina di metri di distanza, ho seguito le sue orme, ovali e spezzate longitudinalmente con due gocce vuote in rientranza da cui differiscono da quelle del capriolo più piene e più minute, e mi tengo controvento per non farmi fiutare, anche se precedentemente ho cosparso i miei vestiti di sterco di mucca, così da alterare il mio odore.

Il bramito gentile dell’animale risuona nelle vicinanze, mentre lo sfrigolio incessante dei suoi denti sui licheni marroncini intervalla il richiamo.

Noto il suo tronco asciutto e allungato, il movimento del cibarsi che mette in risalto la spalla muscolosa e arrotondata e il collo, lungo e compresso, che sostiene la testa elegante. Le pupille ovali del cucciolo si inumidiscono, lasciando scendere dai lacrimatoi una sostanza oleosa di cui si libera soffregando il muso contro la corteccia dell’albero vicino, lasciando attaccata una parvenza di resina alla peluria. Sorrido.

Sensibile alla più minima vibrazione, le orecchie mobili continuano a turbinare in un’incessante sondare il territorio circostante. Il manto dell’animale è di colore bruno-grigiastro, molto fitto, setoloso, aderente e di una fine lanugine.

Da questa distanza posso solo appena percepire i due palchi che stanno crescendo sulla sua fronte, uno più imponente dell’altro, che probabilmente ha perduto mesi fa.

Il vento accarezza e picchia il manto erboso, sollevando pezzi di muschio posato sulle grandi pietre bianche in un frastuono persiano. Nessun rumore esterno, immobile. I miei movimenti sono lenti e calcolati, come mi ha insegnato mio padre. Non c’è alcuna fretta: l’impulsività porta a commettere errori.

Rilascio la freccia, tramutando l’energia elastica potenziale in pura energia cinetica, trasmettendo in linea quasi retta il mio impulso di morte direttamente fino al bersaglio.

L’animale irrompe nella quiete con un verso di dolore, colto alla sprovvista, dibattendosi fino a stramazzare tarantolando al suolo.

È ai miei piedi, inerme. Supplichevole quasi nel suo sguardo perso e impaurito.
Non pensavo fosse questa la sensazione del togliere la vita ad una creatura vivente.
Pupille bagnate che quasi condividiamo, sono solo il pensiero comune d’un attimo. Devo agire in fretta.

Prendo il coltello da caccia e squarcio la giugulare del cervo, osservandolo rantolare definitivamente per pochi minuti. Il tutto si svolge in un silenzio religioso, quasi innaturale, anche qui sulle montagne. Un buco nero ha assorbito qualsiasi rumore, tranne quelli al mio interno. Il mio battito cardiaco, prima regolare e quasi bradicardico, ora colto da una sferzata di eccitazione e di adrenalina come mai prima. Un vuoto anecoico riempito solo dalla mia voce. Sento me stesso come non mai, posso quasi iniziare a capirmi.

Metto le mani a coppa e le porgo sotto la giugulare sgozzata, raccogliendone il sangue e affiancandomele alla labbra. Bevo, leggermente restio all’inizio, anche se la riluttanza s’affievolisce proporzionalmente con il battito cardiaco che torna alla sua consueta calma.

“Quando ucciderai il tuo primo animale, ricordati di berne il sangue. E’ un rito verso l’età adulta. Io, tuo nonno e anche i tuoi parenti, i tuoi avi più lontani lo hanno svolto senza battere ciglio. E’ tradizione. E’ la Natura, il rispetto per l’animale e il suo sacrificio per poterti permettere di sopravvivere a suo scapito. Un’offerta che richiedi e di cui devi essere eternamente grato. Appena il sangue toccherà le tue labbra e verrà inghiottito, saprai di essere diventato un Uomo.”

Sento la mia cute aprirsi in micro-varchi, valichi e lo spuntare timido di alcuni peli. Sta funzionando.
Mi premuro, come prima regola, di non tagliare le ghiandole odorifere dalle gambe del cervo per evitare di contaminare la carne.

Utilizzo un seghetto per rimuovere le zampe dalla carcassa all’altezza dell’articolazione del ginocchio, sollevo la pelle per effettuare una serie di incisioni: all’interno delle quattro zampe, fino alla linea centrale del torace, tutt’intorno al collo e lungo il torace fino alla zona pelvica.

Strascico ancora la pelle, aiutando l’atto con un coltello per recidere il tessuto connettivo che la unisce ai muscoli.
Rimuovo le zampe anteriori e incido i fasci muscolari che arrivano fino alla spalla sorreggendo l’arto con la mano libera.

Rimuovo la lonza, effettuando un taglio lungo i due lati della colonna vertebrale portandomi poi lungo la parte inferiore delle costole per ottenerne un altro pezzo.

La carne resta attaccata saldamente alla colonna vertebrale e alle costole quindi ci metto un po’ di tempo a toglierla districandomi con la lama, premurandomi poi il tessuto connettivo che la ricopre e successivamente tagliandolo in più parti per facilitarmi il trasporto.

Passo quindi all’amputazione delle zampe posteriori, sempre col seghetto, eseguendo un taglio all’altezza dell’anca, ricavandone poi, in seguito al conseguente disossamento della coscia, delle gustose bistecche.

Taglio poi il cranio dell’animale per poter sfilettarne il collo.

Imbusto tutta la carne in pellicola d’alluminio, che poi utilizzerò per cuocere le bistecche, e la ripongo nello zainetto di tela verde militare che mi sono portato appresso.

Torno verso il rifugio, scortato da ellebori pentacolari e stelle alpine e cardi secchi e afflosciati, seguendo le banderuole bianche e rosse tracciate dalle guide sui massi che costeggiano la strada sterrata per indicare il sentiero. Alture drappeggiate di nembi in merletto, è arido il respiro tra foschie brade che attorcigliano i pinnacoli crepuscolari soprastanti. Le pendici espressioniste sono strette da lembi nebulosi che come innesti cutanei impastoiano, ma proteggono, nervi scoperti. Questi tramonti infuocati sono l’illuminare iridescente di civiltà martiri, vittime di popoli opprimenti, in cui la saggezza si è immolata per un simbolismo arcaico di cui nessuno si ricorderà domani.

Stavo per andare a letto, nella mia camera, ancora vestito ovviamente.

Sentii gemiti affranti, grida a denti stretti in sordina che uscivano però a fiotti come del vomito che si vuol tenere a tutti i costi nella bocca, ma il prodotto finale è un immancabile annaffiatoio. Sberle secche e cupe su carne tonica, mandibole e masticazioni di salive e liquidi assopiti in mugolii di piacere, così in un’irrefrenabile smania di curiosità m’accostai alla porta socchiusa, sbirciando dentro per vedere che stava succedendo.

Il buio si cibava della maggior parte della camera, non riuscivo a distinguere nulla, solo forme imprecise nella mobilia sullo sfondo. Tuttavia il centro della stanza era illuminato da uno strano alone patinato, dalla parvenza alquanto irreale. Stropicciandomi gli occhi, erosi dalla stanchezza, vidi risplendere la lucentezza setosa della lenzuola lilla nel letto matrimoniale dei miei genitori. Tessuti incartapecoriti, permeati dal profumo d’acqua di rose materno, che, muovendosi in contorsioni come pervasi da uno spirito inquieto, li racchiudevano in un bozzo, aggrovigliati in un apoteosi carnale di corpi arruffati in nodi inestricabili.

Notai spuntare le ginocchia nude di mia madre, seguite dalle sue gambe aperte che accoglievano il bacino di mio padre in modo sensuale e stipato, riservato e intimo, mentre io con la mia erezione espansa che si faceva sentire in un impeto di cotone stiracchiato, cercavo di abbassarla involontariamente con il palmo della mano. Lui allora si chinò per baciarla, di quello che potevo immaginare come un bacio appassionato, innamorato, folle di una vita matrimoniale armoniosa e vissuta appieno. Mio padre poi alzò la testa, i suoi capelli untuosi riportati verso la schiena da un fluido denso e nerastro, il suo naso e i suoi denti macchiati da chiazze aberranti e cremisi. Un brivido mi corse lungo la spina dorsale, immobilizzandomi.

Mio padre si girò e mi guardò, le pupille e le iridi erano sparite, lasciando solo il biancore profondo e vuoto della sclera. Un sorriso malsano e sbavato di sangue fu il presagio d’organi esterni cefalopodi che uscirono dal materasso del letto scostando tutte le lenzuola sopra di esso. Il risultato fu orrore primordiale.

Vidi le cosce di mia madre saldate a mio padre, ma il resto era sparso nel letto in una gargantuesca esposizione anatomica di viscere, muscoli disossati e membra macellate. Una vivisezione in piena regola.

Un harem d’acrotomofilia tra tentacoli d’ombra e ventose che sbaciucchiavano e facevano succhiotti forse un po’ troppo appassionati, sotto il mio fissare ostinato e perverso quelle parti materne quasi incidentate tra arti dislocati e il suo cranio posato sul cuscino come se stesse dormendo placida. Un amore cannibale che dilaniata la carne ad incisivi e maciulla la polpa col molare.

Scappai, scappai senza voltarmi indietro. In silenzio, perché non potevo emettere alcun suono.

Il resto è nero. Mi ritrovai a vagabondare per strada dopo un lasso di tempo indefinito, con il giaccone invernale addosso, mentre la notte cullava il mondo.

Girai l’angolo del vecchio cinema, fallito anni addietro, e mi si presentò dinanzi la silhouette raggomitolata e accovacciata d’un uomo a terra, carponi. Spostava fili d’erba intrecciati e avvinghiati l’uno all’altro, sollevando e gettandosi alle spalle, attento, ma non troppo, a non stringere eccessivamente come una scimmia maldestra, escrementi canini di padroni disattenti, scostando gemiti e sussurri che gli uscivano in lamenti graffiati attraverso l’incavo tra gli incisivi. Stava cercando qualcosa nel piccolo appezzamento di prato vicino al marciapiede. Mi avvicinai lentamente cercando di non disturbare in alcun modo quell’ossessiva e meticolosa ricerca. L’uomo stava raccogliendo quelli che, dopo un’attenta ed incredula analisi, distinsi come frammenti dei suoi denti. Non so precisamente dire quanti fossero, vidi solo che erano spezzettati, sparsi d’irregolarità e mangiati spaventosamente dal tartaro. Dopo averne presi una bella manciata, l’uomo si mise a ricomporli pazientemente sul selciato a fianco, piccoli pezzi corrosi di un puzzle irrisolvibile necessario alla vita. Brandelli mancanti e mancati che si lasciano sparire in un agognato ritorno all’origine. Proseguii.

Ad un tratto arrivando nella piazza centrale della cittadina, scorsi delle persone imbrigliate in gabbie d’aloni patinati, circondate dal buio più pesto che si possa immaginare, imprigionate in pensieri esteriorizzati, sogni e incubi che inconsci si manifestavano apertamente, senza pudore. Capii allora come, per un qualche motivo, i sogni avevano iniziato a interferire con la vita di tutti. Sovrapposizioni di frequenze oniriche, con un’area circoscritta di alcuni metri quadrati, e diverse dimensioni che si amalgamano con il reale. Brevi squarci di paradiso e inferno interiori due metri più avanti. L’immaginazione e il sogno, come materialità opprimente, un pericolo per tutta l’umanità che ne era colpita in toto.

Forse è solo un sogno, il mio primo sogno, il mio primo incubo ad occhi aperti. Così mi ripetevo questa cosa all’infinito, ma sapevo che era solo una falsa illusione. Il mondo era impazzito ed io ero l’unico savio.

Le cose, alle volte, semplicemente accadono, senza un motivo apparente. Accadono e basta, sopraffacendoci.
Sapevo dove dovevo andare, lontano dai sogni altrui, dai desideri che irrimediabilmente, alla fine, uccidono.”

Accendo il fuoco come mio padre mi ha insegnato a fare a suo tempo, con un pezzo di selce e il dorso del mio coltello da caccia, facendoli cozzare e dirigendo le scintille prodotte contro l’esca, corteccia di betulla reperita nel bosco. Inserisco, quando il fuoco è ben attivo, alcuni pezzi di Fagus sylvatica, aspettando che questi si incendino per bene. Prendo poi una bistecca e, lasciandola nel pacchetto di alluminio, la poso nel forno della termocucina. Esco all’esterno verso la botola coperta dove inizierò ad immagazzinare la carne appena cacciata, dovrebbe bastarmi per una ventina di giorni e il freddo ne aiuterà di certo la conservazione.

Il fumo, pesante e bisunto della legna forse troppo umida, esce dal comignolo della termocucina all’interno del bivacco, mentre aspetto che l’ambiente, e la cena, si scaldi, pesto il porfido immacolato insozzandolo negli angoli con le suole dei miei scarponi pieni di fanghiglia e nevischio. Pulisco i Vibram con riguardo, ma non posso a meno di notare i merli che svettano, pattugliando l’altipiano infossato dall’alto, come ondeggiano, trasportati e sereni, nella loro ignoranza.

Penso a mio padre, a quello che mi ha insegnato, all’arco, alle tecniche di sopravvivenza, a come pensavo fossero tutte inutilità. L’Apocalittico, così lo chiamavano in paese, un uomo vittima delle sue paranoie per la fine del mondo. E adesso chi ride alla fine? Il ricordo del suo ghigno guasto e squilibrato mi torna alla mente. Tremo.

L’aver riempito questo bivacco, lontano almeno una trentina di chilometri dalla civilizzazione, con cose essenziali e di prima necessità, oltre che a strumenti di sopravvivenza di prim’ordine, non mi può che essere d’aiuto ora.

Respiro lentamente, grattandomi il collo per il pizzicorio della fresca comparsa di peluria, seduto a terra, e in una paralisi ipnagogica osservo il muro della parete della baracca, con la sua malta data alla bell’e meglio, per poi seguire nell’isolante termico che fuoriesce dalle scandole del tetto, lana di vetro che avanza verso le grondaie in uno svettare di Gargolle abbozzati e mai finiti. La vallata che si sta perdendo, o nascondendo, nella mancanza di luce.

Entro per cibarmi della carne, la estraggo dal forno prendendola con una presina,  e mi metto a sedere sulla piccola panca di abete rosso iniziando a mordere la bistecca. La carne, anche se cucinata senza alcun altro ingrediente, è tenera e sugosa, dal sangue pungente e selvatico, un gusto che per i più può risultare forte, ma che è caratteristico ed è il vero sapore della libertà.

Bevo anche l’acqua che precedentemente ho preso dalle riserve che mio padre teneva su in soffitta, e so che una volta finita, dovrò procurarmela sciogliendo la neve o tramite le cisterne per il raccoglimento di quella piovana costruite sul retro dell’edificio. Mio padre ha pensato a tutto. Aveva pensato a tutto.

Il suono nella notte si acuisce. Le onde sonore in privazione solare sono più chiassose. Sento quindi dei passi risuonare e profanare la segretezza di questo luogo, in lontananza, ma nemmeno così tanto, mentre il mio corpo di conseguenza si muove istintivamente verso l’arco, impugnandolo e assicurando la freccia alla corda.

Il mio nome, sento qualcuno gridare il mio nome.
Teso come non mai.
Lo distinguo: è mio padre, venuto ad uccidermi nel suo delirio onirico, nel suo insensato progetto di sterminio familiare.
Gli grido di andarsene via, che ho visto cosa ha fatto a mia madre, so cos’è diventato. Gli urlo che è un assassino, un mostro.

I passi si avvicinano, come lo sbraitare, ma io resto serrato nell’angolo, vicino alla stufa per avere una visuale perfetta sulla porta d’entrata. So che quello non è più mio padre, ma un mostro multiforme vittima dei suoi stessi piaceri, delle sue stesse pulsioni, coscienti o non. Offerte sacrificali d’olocausto in un mondo consumista: l’ultimo stadio della nostra scelta evolutiva.

Lui cerca di entrare smuovendo la porta, si affaccia e mi inveisce contro le sue parole che mi appaiono incomprensibili, come l’abbaiare di un cane idrofobo che vuole unicamente sbranare. Scocco la freccia che, sfortunatamente, si conficca nella porta grazie ai riflessi pronti dell’essere. Le sue estremità tentacolari si insinuano nella fessura dell’ampia serratura e sotto la porta stessa. Empietà, l’inferno si è aperto.

Cerco d’inforcare un’altra freccia, ma l’Obbrobrio entra con uno scatto fulmineo e mi blocca il polso sinistro, così con l’altra mano libera mi avvento sul coltello da caccia che ho nella fondina alla schiena, ma purtroppo, la sua velocità e potenza mi schiacciano, dominato, contro la parete. Mi fa cadere con uno strattone tutte le armi in mio possesso, premendo poi vigorosamente sui tendini dei polsi.

Inizio a piangere disperato. Sono di nuovo senza voce, come pochi giorni fa quando sono fuggito. Stranamente il suo viso ora, anche se vuoto e anemico, non mi pare nervoso o convulso, anzi, sembra rilassato. Sa che non lotterò più.

Mi carica sulle sue spalle e mi trasporta fuori, nella gelida tenebra, e io non posso farci nulla, oltre alla voce, questa volte, ho perso anche tutte le forze in mio possesso.

Esso cammina col suo carico per oltre una ventina di minuti, fino ad arrivare alla sua automobile, illuminata all’interno da una sagoma amorfa.

Mi monta nel sedile posteriore dell’auto, mentre scalcio debolmente in tentativo e mugugno inutilmente, forse in un’ultimo guizzo di conservazione, sentendo infine una mano posarsi sulla mia guancia quindicenne e la flebile, ma calda, voce che conosco dirmi che tutto si sarebbe risolto e che mi vuole bene, mentre sposta i suoi lunghi capelli biondi, sempre così fluenti e arricciati, sbuffando sentori di rose che suturano presto ogni cosa nei paraggi.

Immacolata.

Luce sbiadita filtra dalle tavole ammassate della baracca che compongono la porta e quest’ultima se ne resta là, socchiusa, aspettando chissà cosa. E tutto allora è immobile nelle micro-fratture formatesi all’Interno che come segmenti ossei mal saldati tormentano ad ogni movimento, anche se tutto appare sempre uguale. Scricchiolii sono sibili di Münchhausen di legname lavorato e di stipiti erosi, echi di fruscii di fronde abbandonate al fango e alla brezza stagionale tra lacero-contuse nette e giovinezze boschive e cortei brizzolati in occupazione, caricati e rastrellati da una milizia in divisa di flanella a quadri. Il freddo dell’Inverno non tarda ad arrivare quella sera, in quella stanza selvaggia, con candele stanche segnate da lacrime di cera, braci che scoppiettano in pirotecnie e si affievoliscono fino ad esaurirsi, decadendo in solitudine come la singola coscienza, mentre tutto il resto fuori torna dalla morte a rinnovarsi, ciclicamente.


Giulio Vellar, del 1989, nato ad Asiago in provincia di Vicenza. Operatore socio sanitario in comunità alloggio disabili e in centro diurno per riabilitazione psichiatrica. Scrive nel tempo libero, poesie e racconti, da quando era alle scuole medie. Ha pubblicato racconti e/o poesie e/o recensioni cinematografiche in passato con Edizioni La Gru, Lahar Magazine, ConAltriMezzi e Shiva Produzioni.

In copertina, Saturno divora i suoi figli, Goya, particolare.

Redazione

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