Luca Murano, I vestiti che non metti più
Dialoghi, 2021

I vestiti che non metti più di Luca Murano sono racconti, più o meno brevi, raccolti nell’ Edizione Dialoghi e racchiusi in una collana intitolata “ Intrecci”.
E come gli abiti che non si indossano più, questi racconti stanno appesi in tutta la loro realtà di storie, sensazioni, aneddoti, voci, respiri o sospiri… a seconda . Leggerli è come stare davanti alle ante aperte di un armadio, il nostro armadio, dove sono riposti e tu li scorri sullo stand di metallo sfiorandoli con la mano.
E’ un alternarsi di interni ed esterni. Interno giorno . Esterno notte. O viceversa.
Sono pensieri pensati stando sdraiati sul letto di fianco o supini, guardando soffitti più o meno attraversati da ombre o da pensieri, o da figure immaginate che cavalcano la cresta di quel vuoto che spesso attraversa le coscienze invase dalle nevrosi, o ancora, semplicemente, dalle solitudini e quelle non sono mai esterne, sono solitudini interne , sono abissi segreti che è difficile chiudere in posti fisici, tanto che finiscono per abitarci dentro come matrioske.
Questo libro appare, a chi lo legge, come una raccolta di slidingdoors dove la fantasia supera la realtà solo di un soffio, il soffio di una porta girevole appunto, o di quelle porte con vetrate che si aprono quando stai davanti sulla cellula fotoelettrica e tu entri subito in un altro ambiente.
I racconti sembrano proprio vestiti che stanno lì perchè non si vogliono buttare, che non indossi più ma che tenti di misurarti davanti allo specchio, solo per rivederteli addosso, di tanto intanto, per vedere se riesci ancora ad entrarci. Così può capitare di scoprire che alcuni abiti sono diventati troppo stretti, oppure, qualcuno di quelli che proprio non ti entrava ora scivola via troppo sul tuo corpo da farti sembrare magrissima , quasi brutta.
I racconti brevi sono frammenti di vita, la cui trama si intreccia a pochi fili di ordito il cui disegno però è nitido ed è a rilievo , tanto che la storia continua a scorrere anche dopo l’ultimo punto che ne segna la fine e come dice l’autore quel punto è l’ultima sintesi.
C’è un itinerario di viaggi brevi , di peripli che vanno da un letto all’orizzonte, dal viale davanti casa, al ciglio della strada, dalla vista di un fiume come l’Arno allo Smoky Hill River , da Firenze al sito archeologico di Chichen Itza nel Golfo dei Caraibi, poi si torna e si sta in Irpinia, poi di nuovo in Toscana, poi ancora a Parigi o a Pico De Cantagallo…viaggi , appunto, che il libro offre ai lettori insieme ai vestiti , ai “silenzi” o alle “altre forme di rumore”. Le storie possono piacere o non piacere, ma sono lì a raccontare di uomini e di donne che faticano a prendersi le proprie responsabilità, che incolpano altri, persino animali quando non vogliono addossarsi il peso delle proprie azioni giuste o scellerate che siano o, semplicemente, cercano di essere capaci di sedersi con le spalle verso il muro per prendersi la briga di guardare avanti, agli altri , allo scenario aperto della propria vita e non girandosi verso le pareti cieche dove poter vedere solo i riflessi delle ombre.
Allora si dipanano le matasse degli individualismi, delle illusioni , delle felicità falsate, dei successi mutilati o di quelle esistenze che si delineano da poche ed essenziali azioni o su esperimenti unici, mai più ripetuti come : “ Marco quello che corre” o lo scrittore che pubblicò un solo ed unico libro.
Un susseguirsi di interno giorno in penombra e appena svegliati, di vasche da bagno con le zampe, di gatti ninja che compaiono all’interno del frigorifero, o di Estathè alla pesca di cui, almeno una volta, abbiamo assaggiato il sapore.
Frammenti di memoria altrui, quasi di storie raccontate e raccolte per caso, aneddoti che sono rimasti appesi come panni ad asciugare, fogli di carta che il vento ha fatto rotolare davanti ai nostri piedi mentre eravamo alla stazione e li abbiamo letti per caso, perchè ci siamo imbattuti in loro durante un’attesa, quando gli occhi vi si sono posati.
Vi sono anche le nevrosi quotidiane, le paure, le incertezze, i desideri che non si sono avverati o quelli inespressi o, ancora, il meravigliarsi per quella gentilezza che non è mai stata contemplata, mai elargita, mai concessa nemmeno a noi stessi . La gentilezza, questa sconosciuta che forse in forme embrionali qualcuno ci ha messo in qualche posto recondito del nostro essere . Potrebbero essere stati i nonni, i bambini, la Natura stessa nelle sue forme più spontanee e ingenue? La gentilezza ritorna sottoforma di ricordo, di carezza mai data, mai ricevuta.
La cosa bella de “ I vestiti che non metto più” di Luca Murano è la lentezza. Tutto scorre piano, anche i gesti, quelli che potrebbero compiersi velocemente, come per esempio spostare un interruttore dalla posizione off alla posizione on. Accade lentamente come a voler gustare il gesto e in quell’attimo prolungare una sensazione, un pensiero, accorgersi del gesto stesso.
Marianna Scibetta