Si muovono con la benevolenza dell’alba, e durante il giorno, sotto l’immortalità spietata del sole, riposano al riparo di magri cespugli cresciuti a dispetto dell’aridità delle sabbie, o usufruendo dell’ombra magnanima di sporadiche rocce millenarie che li stanno silenti a spiare. Il tramonto si tinge le dita di rosa, le quali sciolgono in rosso un cielo liquido di acquaragia che annulla sé stesso nei toni infiniti e prolungati del viola. Sotto questo soffitto di tele, un osservatore avrebbe ravvisato un cavaliere sferzare la sua giumenta al galoppo, sbrigliato proiettile in nubi sospese di polvere ocra, gustare il vento sul viso, la libertà dell’ebrezza. Misterioso il cavaliere delle sabbie con la sua giovane guida, il mokhazni[i] Djilali, il bournous regale, il mantello di lana maschile, il copricapo, le vesti fluenti, il naso camuso, l’attitudine selvaggia dei nomadi del deserto del Gobi, da cui, si dice, il cavaliere discenda. Ma l’osservatore non sa, o non vuole sapere, che il cavaliere non è un cavaliere. È in realtà una fanciulla, di delicata magrezza e d’animo raro, e non appartiene alle sabbie del deserto come vorrebbe, da sempre affascinata, né ai tramonti di Tunisi o d’Algeri che ama. Il suo nome è Isabelle e la sua casa, l’amata e poi perduta Ville Neuve, è a Ginevra.
È il 1877 e la Svizzera è un crogiolo di lingue ed etnie diverse che si scontrano lungo i viali: sono greci, armeni, turchi, italiani, russi; filosofi e diseredati, anarchici in fuga, libertari, fondatori di rivoluzionarie riviste dalle cui pagine si inneggia alla libertà, contro l’oppressione e l’usurpazione dei popoli.
Tra i russi che vivono a Ginevra c’è anche la famiglia de Moerder. La madre di Elisabeth, Natalia Eberhardt, aveva vissuto la sua giovinezza a San Pietroburgo e proveniva da una famiglia di alto rango. Aveva sposato l’anziano colonnello Karl Karlovitch de Moerder, vincitore di guerre in nome dello Zar. Il loro non era stato un matrimonio di passione, ma il focoso colonnello non si era fatto parlare dietro e la loro famiglia era cresciuta numerosa di anno in anno. A Ginevra, dove la famiglia si reca per il clima mite, consigliato per la debolezza di petto di uno dei figli, si trasferisce però solo la moglie e gran parte della progenie di cui Isabelle è l’ultima nata, figlia non del colonnello ma di Vava, Alexandre Trofimosky, il precettore. Figura enigmatica, personaggio affascinate di tolstoiana memoria, condivide con lo scrittore la filosofia improntata alla vita semplice e principi inossidabili, una barba lunga e folta e lo scompiglio dei capelli, le lunghe vesti nere. Per lui la cultura significa tutto e trasmette ai figli di Natalia il suo sapere, che è grande, il suo amore per i libri e sette-otto lingue che tutti i componenti della villa parlano in una caotica babele casalinga.
Quando il colonello lascia suo malgrado questa vita, il precettore si prende amorevole cura dei figli di Natalia, come un padre, sebbene più di tutti amasse quell’ultima nata, concepita da lui, sua figlia Isabelle.
Isabelle cresce in un clima stravagante e assorbe come parte del suo essere l’anticonformismo e un certo decentramento di valori che la porta a volgersi sempre a un altrove sconosciuto, aspirando a un assoluto fortemente ricercato – nel viaggio, nella fede – bramando una salvezza, una pace, che invece non troverà.
La vita alla Ville Neuve è una baraonda. La piccola Isabelle, il timido problematico Volodja che finirà suicida, Nicolas, Natalia, Augustin, il fratello prediletto che qualche biografia vorrebbe un fratello amante, sul modello di quella meraviglia che è Ada o ardore di Nabokov. È lui che la porta a esperire i bassifondi, a Ginevra come a Marsiglia, vestita da uomo, a bere, fumare, a gustare impavidi tutta l’umanità reietta che si offre loro nella notte, così come accadrà in quell’Africa da entrambi così anelata.
Augustin ama l’alcol, l’oppio, l’assenzio, il gioco, i debiti, sarà una figura complessa nella vita di Isabelle, fonte d’amore e delusione, attratto dalla vita raminga, dall’oscuro. Come lei, del resto. Insieme, ancora giovanissimi, scrivono il racconto Infernalia e il saggio Visione del Moghreb pubblicati sulla Nouvelle Revue Parisienne, a firma Nicolas Podolinsky. Che avrebbero pensato i seriosi redattori, Lucien Descaves, Jean Richepin, Jean Lorrain e Carolus-Duran, se avessero immaginato che l’autore del raccapricciante scritto, che ruota attorno a una sala di dissezione, non era un russo di ritorno da un pericoloso viaggio ma una fanciulla magrolina che aveva vissuto soltanto nella rassicurante Ginevra? Chissà.
L’amore e il richiamo delle sabbie è una tara famigliare, perché Augustin, come prima il fratello maggiore, fugge presto di casa e sceglie le avventure del deserto arruolandosi nella Legione Straniera. E sarà lui, dall’Africa, a raccontare a Isabelle degli avamposti, della vita militare e dell’umanità che incontra, dell’islam, delle genti delle Oasi. Lui, ma anche Letord, il suo amante di penna, arruolato anch’egli nella Legione. Isabelle intrattiene, infatti, nella sua vita, una folta corrispondenza, ma quasi mai si firma Isabelle, di solito si finge il marinaio Podolinsky. Conversa tramite scritti con lo sceicco, drammaturgo, redattore Abu Naddara, personaggio emblematico ed eccentrico, con gli amici arabi, Ali Abdul Wahab, profondamente innamorato di lei, e il passionale Khudja, suo amante a Bona quando vi risiederà per la prima volta; e scrive ai cari amici svizzeri come Vera Popova, anima libertaria a lei affine, e Archavir Gaspariantz, che durate una di quelle fasi della vita in cui si propone di mettere la testa a posto, medita persino di sposare. Lettere, migliaia di fogli vergati in una scrittura piccola e ordinata saranno indirizzati dall’Africa agli amici delle birerrie della karuzka, il quartiere dove risiedono i russi, ma anche tutti gli studenti squattrinati e rivoluzionari e le riviste che gli danno voce, Il Mechveret, l’Osmanli, giornale d’opposizione in lingua turca, il Mizan. L’impero turco trema. Anarchici, socialisti, nichilisti. Le voci di protesta riecheggiano violente nelle infinite discussioni notturne, negli entusiasmi, in promesse di sovvertimento, in speranze di trasformazione. Isabelle possiede già allora un impulso imperscrutabile verso la gioventù audace che vuole ribaltare l’ordine sociale. C’è in lei una perenne lotta tra la ragazza di buona famiglia, conforme a determinati insegnamenti, e la ribelle che si fa portavoce dell’ingiustizia e della povertà che attanaglia i popoli sottomessi, di tutte le etnie, di ogni parte del mondo. E in effetti questi reietti, poveri, diseredati, questi resti dell’umanità, sono sempre presenti nei racconti e nei reportage di viaggio da quando finalmente lascerà Ginevra. Dapprima per Bona, dove con la madre affitta una casa stile arabo, non nel quartiere francese ma in quello degli autoctoni, destando un certo scandalo tra gli abitanti con la pelle chiara dei quartieri europei. Isabelle ama la città ma proprio qui, a Bona, Natalia si ammala gravemente di pleurite e muore in pochi giorni. Una volta di ritorno a Ginevra, anche Vava muore. Isabelle è sola e l’unica cosa che desidera è tornare in Africa. L’occasione arriva. Isabelle promette a un’aristocratica signora di investigare su un caso di omicidio, quello del marchese Morès, che era stato assassinato insieme alla sua scorta da un gruppo di tuareg e di chaamba[ii] nel Grande Erg Orientale. Lei non indagherà mai, ma usa i soldi per tornare al deserto, alla libertà. È qui, in quest’epoca, che iniziano i suoi pellegrinaggi. Tunisi è solo il punto di partenza, la porta che varcherà per addentrarsi nel Magreb. Comincia la grande avventura, la trasformazione, e Isabelle non è più Isabelle, si rivolge a sé stessa al maschile e cambia nome. Per tutti, per le genti del deserto, per gli ufficiali e i soldati che incontrerà per la sua strada, per i viaggiatori instancabili come lei, per i fumatori, per gli abitanti delle oasi e gli studiosi delle scuole coraniche lei sarà, d’ora in poi, Mahmoud Saadi, talib, studioso del corano di origine tunisina. Isabelle parla un arabo eccellente e il trucco funziona. Veste abiti maschili, tunica e fez avvolto come un turbante a celare i capelli biondi. Sarà un tunisino in Algeria e un algerino in Tunisia e Marocco per diramare possibili dubbi sull’accento. Calza stivali arabi e governa la cavalcatura come un imperatore le truppe. Nessuno la scopre e il fatto ha del miracoloso. Isabelle ha un fascino che sembra annichilire qualsiasi suo interlocutore e una conversazione intelligente, arguta, coltissima, occhi pensanti e profondissimi.
Non sappiamo come sia stato possibile, ma la sua volontà, la forza e il coraggio hanno dell’incredibile. Una ragazza sola, fragile, un puntino nella grandezza degli spazi aperti, una donna europea in terra d’islam che si traveste da uomo, che frequenta le taverne con i soldati, ubriacandosi, fumando con loro, conversando con sceicchi e generali, spronando la sua giumenta sulle dune mobili investite dal vento, dormendo in rifugi improvvisati, al gelo della notte, che nel deserto è inclemente, prostrata dai raggi del mezzodì, esposta a essere preda, a essere scoperta, amica di uomini religiosi e ospite di carovane. Non ci sono altre donne, se non quelle che appartengono al deserto, lei è uomo tra gli uomini.
La prima spedizione è nel sud algerino: con la guida visita i resti delle città romane, ma quello che vuole scoprire è l’umano, i village noir, come si chiamano i quartieri indigeni, dove chiede ospitalità la notte confondendosi con gli abitanti, osservandoli mentre sorseggia un caffè, ascoltando i suonatori e ammirando le danze delle donne della tribù di Ouled nail. La meta è il Souf, il deserto di dune. Il viaggio è difficile, si muovono la notte e all’alba, esauriscono le scorte di acqua, si ammalano tutti, anche gli animali, ma riescono ad arrivare a Touggourt, scrive «Serata al bordello con cantatrici».
A El Oued ha luogo il suo primo incontro con il Souf, ne scrive «Distesa sul versante meridionale di una duna, El Oued, la strana città dalle innumerevoli piccole cupole rotonde, cambiava lentamente colore. In cima alla collina si innalzava il minareto bianco di Sidi Salem che trasmutava di colore per volgere al rosato nel riflesso del tramonto. Le ombre delle cose si allungavano smisuratamente, si deformavano e impallidivano sul terreno fattosi vivo tutto intorno. Non una voce».
Talvolta Isabelle si unisce a carovane composite: soldati francesi, spahi[iii], uomini del Souf, gendarmi, chaamba.
La sua vita di viaggiatrice è strettamente connessa a quella di scrittrice; reportage e racconti hanno come protagonisti le persone che incontra, che osserva, i costumi e le leggi tribali che ha modo di esperire. Ci sono soldati francesi che si innamorano di giovanissime ragazze delle oasi, come nel racconto più famoso, Jasmine, amori contrastati, esseri umani schiavizzati, donne sottomesse come nel racconto Zaouia, così poetico, e che riesce a trasportare dentro la tristezza infinita delle donne, che non sono niente, non valgono niente, e trascinano le loro inutili esistenze a far da schiave agli uomini per l’intera vita, senza poter mai desiderare, essere, amare. Nei suoi scritti ci sono le superstizioni, le paure ancestrali legate alla notte, agli spiriti, alla morte; i desideri umani puntualmente disattesi a causa del destino o degli altri uomini. E se, talvolta, alcuni racconti peccano di ingenuità è perché dietro il cavaliere coraggioso intuiamo la debole ragazza coperta dal fez, dall’anima pura e l’animo romantico: doppiezza misteriosa, groviglio insolubile del suo essere complesso, delicato, forte. La sua scrittura è densa di una nostalgia dolcissima, vittima dei colori rossi e dorati, delle visioni immateriali dei miraggi, delle febbri. Le sue storie sono sole, vento, follia della mente, follia della vita. Sono orizzonti infuocati, asprezza e splendore dell’Africa. Sono le trasparenze blu della notte sospesa sul deserto. Lo scenario naturale si fonde con l’elemento umano e l’arte del raccontare si fa visione con parole evocative, morbide, come le line curve delle dune del deserto, poetiche, estatiche, come lo stato d’animo dell’uomo davanti all’immensità degli spazi, la vastità del cielo, l’enormità sconosciuta e albina degli astri, la terra sconfinata, niente altro. I reportage, così come le novelle, scavano dentro i sensi con delicato spirito di osservazione.
Isabelle lotta tutta la vita con la povertà e per viaggiare cerca qualsiasi espediente, come seguire le carovane delle autorità francesi che devono ritirare le imposte nei villaggi indigeni (lo descriverà nel reportage Un autunno nel sahel tunisino). Resterà fortemente colpita da quello che vede, uomini e donne che vengono radunati in tribunali improvvisati all’aperto, chiamati uno per uno a rendere ciò che non hanno per pagare la loro tassa al governo francese, bambini cenciosi che nascondono l’ultima gallina, vecchi che vengono deportati, figli e padri, trascinati in fila indiana dietro i cavalli per essere portati in prigione nelle città fortezze, negli avamposti francesi, per il solo fatto di non possedere nulla e nulla poter dare come dazio alle autorità. Scandalo di secoli, anche questo è colonialismo.
Nel luglio del 1900 sbarca ad Algeri, diretta a Ouargla, dove si mette in contatto con la confraternita Qadiriyya, una delle più importanti congregazioni sufi dell’Islam. Cosa voleva Isabelle? L’impossibile, entrare nella confraternita, studiare, immergersi nella religione dell’islam. Lo ottiene. Viene affiliata alla setta, ricevuta con merito nella zaouia[iv], vivendo ospite al suo interno per un lungo periodo, come uomo, come studioso. Al collo d’ora in poi indosserà il rosario nero della Qadiriyya e sarà ricevuta con tutti gli onori in tutte le zaouia.
E poi, nelle notti africane, arriva l’amore. E l’amore è Suleiman Ehnni, Slimène. Magro, altissimo, nobile di lineamenti, occhi gialli come il deserto. È passione totalizzante. È unione travolgente di anima e corpo. L‘intesa è profondissima, appartiene alla sfera della meravigliosa follia. Gli amanti innamorati cavalcano insieme al tramonto, verso quella morte del sole che nel deserto è un quadro di colori che degrada sotto cieli amaranto, ci sono solo loro a volare ebbri sulle dune scivolose che sgranano sabbia, mentre le ombre si allungano sui miraggi della terra. Però, unirsi, per un uomo e una donna che si finge uomo, non è cosa facile. L’ingorgo delle razze non è ben visto. I benpensanti hanno mani che prudono. Inutile indagare la metafisica reazionaria del bigottismo, il suo essere senza finalità, nato al male per colpire con uno strale che è il contrario di quello di Eros, di quello universale d’amore. Qualcosa sempre mi sfugge nelle dinamiche del perbenismo, perché le sue radici siano così fonde e così forti da decretare la vita, la morte, il dolore altrui. L’amore si sottrae alla sua specificità per farsi peccato. Isabelle viene espulsa e Slimène, che aveva davanti a sé una brillante carriera militare, deve rientrare a Batna. Sono costretti ad abbandonare il Souf, separarsi. Scrive: «Ancora una volta, nella mia triste esistenza tutto viene ad essere stravolto e distrutto, è finita la vita languida e dolce nello scenario magico delle sabbie spostate dal vento».
Isabelle è sovrastata intanto dai debiti e dalle febbri delle oasi, regno della zanzara anofele. E come se non ciò non bastasse subisce un attentato. Troppo pericolosa e scomoda la piccola Isabelle? Rimane per giorni tra la vita e la morte. Appena si riprende attraversa centinaia di chilometri di deserto per tornare da Slimène, prima della separazione ultima. Poi, dovrà passare ancora molto tempo prima che i due riescano a rivedersi, ad abbracciarsi, infine a sposarsi, vivere insieme a Aïn Séfra. Ci riusciranno. Ma Isabelle non è destinata alla pace, a lei sono riservati il movimento, la malinconia, l’ironia biliosa del fato.
Il 21 ottobre 1904 sembra una giornata come le altre, una piacevole giornata d’autunno. Ma, come spesso accade, non è da vicino che si originano gli eventi, vengono da lontano, si uniscono in fili sottili al destino e al cucito delle Parche, e solo in ultimo raggiungono. La sorte, o il caso, inizia per Isabelle sulle vette dell’Atlante, dove, i giorni precedenti, aveva piovuto così tanto da far sì che infiniti nastri d’acqua si unissero in convoglio per arrivare infine a ingravidare gli affluenti del Séfra, colmandoli. Questi, a loro volta, improvvisi e anonimi, senza colpe, erano precipitati dabbasso, verso la città, verso la casa di Isabelle, dentro l’amore ora divelto come i muri, come i mattoni rotti e trasportati lontano, come il corpo di Isabelle ritrovato senza vita, affogato nell’acqua fangosa, dinoccolato tra i suoi scritti.
Solo Slimène sopravvive alla vita rubata, all’amore rapito. Il deserto l’ha preso. Il deserto ha preso tutto, tutta Isabelle, regina delle sabbie.
«È quel momento della sera quando i raggi del sole che tramonta passano attraverso un’aria già raffreddata dal primo soffio della notte, mentre i muri di fango mandano via il calore che hanno conservato per tutto il giorno.
Dentro casa è come stare in un forno. Devi stare all’aperto e sentire il tocco delle prime ombre. E per un lungo tempo me ne stetti sdraiata in ozio ad osservare la profondità del cielo. Ascoltando gli ultimi suoni della zaouia e del ksar[v]: lo sbattere di porte scricchiolanti, il nitrire dei cavalli, il belare delle pecore sui tetti. E il raglio del piccolo mulo africano, un suono triste come un singhiozzo protratto. E le sottili e acute voci delle donne nere.
Vicini, nel cortile, il suono dei tamburini e dei guimbris[vi] accompagna alcune stranissime vocalizzazioni. Più che musica assomigliano alle grida emesse mentre si fa l’amore. Talvolta le voci muoiono e tutto è silenzio. Poi il sangue nelle vene parla da solo. Presto la vita comincia di nuovo. Materassi, coperte e letti appaiono sui tetti nel quartiere degli schiavi. L’orecchio ancora si tende per dei rumori smorzati, rumori di cucina, liti a bassa voce, preghiere mormorate.
E il senso dell’odorato vibra per gli odori nel fumo che sale dalla confusione dei corpi neri, dalle fiamme che guizzano gioiosamente nei bracieri, Ci sono altre sagome nella “porta d’entrata degli uomini santi”.
È tutta qui la vita quotidiana del ksar, qualcosa che ho sempre conosciuto e che è sempre nuova.
Verso destra dietro al Mellah[vii], c’è una parte di muro che rimane illuminata fino a molto tardi. La sua superficie rossastra serve da sfondo per i curiosi giochi di ombre che vi sono proiettati. A volte si muovono avanti e indietro lentamente e poi sembrano procedere in una danza furiosa. Quando tutte le altre voci sono divenute silenziose e tutti sono andati a dormire, gli Aissoua[viii] sono ancora svegli.
Mentre la notte diventa sempre più fredda, i membri di quella illuminata consorteria, la Khouan[ix], battono sui tamburi e traggono suoni stridenti dalla rhaita[x], simile all’oboe.
Cantano anche, lentamente, come se sognassero.
E danzano accanto ai fiammeggianti recipienti di carbone e i loro corpi fradici si muovono a un ritmo sempre più accelerato. Dai fuochi salgono i vapori intossicanti del benzoino e della mirra. Attraverso l’estasi sperano di raggiungere lo stadio finale dell’incoscienza.
Sento ancora qualcosa.
Quando anche gli Aissoua sono caduti addormentati vedo ancora delle forme che si muovono. Un soffio percorre le terrazze disturbando la calma.
Io so. Io immagino. Ascolto.
Là fuori nella notte, profumata di cinnamone, ci sono singhiozzi, sospiri contagiosi. Il calore della passione sotto le quiete stelle. Il languore della calda notte porta la carne a cercare l’altra carne e il desiderio rinasce. È terribile ascoltare il digrignare dei denti in spasmi mortali e i polmoni emettere suoni simili ai rantoli della morte. Agonia! Mi sento come se affondassi i denti nella calda terra.
Al mattino il vento dell’ovest è arrivato improvvisamente. L’ho potuto vedere mentre alzava alte spirali di polvere nera come il fumo. Mentre si avvicinava attraverso l’aria calma emetteva grandi suoni singhiozzanti. E poi ha urlato come una cosa viva.
Ho avuto una fantasia: essere sollevata e portata via nell’immenso abbraccio del mostro alato venuto per distruggerci tutti.
E la sabbia picchiettava sulle terrazze con il regolare e debole suono della pioggia».
Isabelle Eberhardt, Il respiro della notte e altri racconti d’Africa, Edizioni Ripostes, 2001.
[i] Impiegato al servizio degli affari indigeni
[ii] Gruppo etnico del nord-est della Nigeria
[iii] Soldato
[iv] Sede delle confraternite
[v] Villaggio del Sahara
[vi] Piccola chitarra a due corde
[vii] Quartiere ebreo
[viii] Confraternita
[ix] Confraternita religiosa
[x] Strumento a fiato