Les chœurs des femmes: un coro di donne contro la violenza ostetrica e ginecologica

Les chœurs de femmes, Aude Mermilliod
Ed. Le Lombard, 2021

Les médecins qui veulent le pouvoir
Font tout pour l’obtenir, ceux qui veulent
Soigner font tout pour s’en éloigner.

Ci sono libri che sembrano piombare nelle nostre vite al momento giusto. Sanno toccare le nostre corde come, ci sembra, nessun’altra storia abbia mai fatto prima. A me è successo con Les chœurs des femmes,l’adattamento a graphic novel che Aude Mermilliod, giovane autrice di ‘bande dessinée’ e blogger francese, ha fatto del libro del 2009 di Martin Winckler.

In Italia, me ne rammarico, questa storia non è ancora stata tradotta (case editrici siete in ascolto?) ed è veramente un peccato viste la delicatezza e l’eleganza con cui vengono affrontati certi temi, sconosciuti – o considerati tabù – solo fino a pochi anni fa. Si parla di abuso di potere in campo medico e di violenza ostetrica ma anche di diversità e di intersessualità. Le donne, con il loro dolore, qualsiasi esso sia, sono le vere protagoniste della storia. La mancanza di empatia da parte dei medici, quella di ascolto e in certi casi addirittura di umanità le relega al ruolo di vittime al quadrato.

Mermilliod tutto questo l’ha capito bene e ha scelto di riportare in vita questa storia che è al tempo stesso una denuncia collettiva e un invito alle donne a far sentire la propria voce, troppo spesso repressa. Le illustrazioni dai tratti essenziali della giovane disegnatrice francese persuadono interamente il lettore come solo le cose semplici sanno fare e lo conducono per mano nel cuore di certe realtà: all’internodel reparto ginecologico dell’ospedale di Tourmens, di una sala parto e di uno studio ginecologico, perfino nei sotterranei dell’ospedale ma soprattutto dentro le storie emozionanti dei personaggi e nei cuori delle donne che ogni giorno devono affrontare un problema che ha a che fare con il loro corpo.

Questa storia mi è particolarmente cara perché vivo in Francia da tre anni e perché in Francia ci ho appena partorito. Tralasciando le difficoltà oggettive di chi deve affrontare un’esperienza sconvolgente come quella di mettere alla luce un bambino in un Paese che non è il proprio, dove le differenze culturali sono notevoli e capirsi non è quasi mai una questione linguistica, quello che abbiamo vissuto io e il mio compagno nei cinque giorni di permanenza in un ospedale parigino è stato alienante, soprattutto da un punto di vista psicologico. Premetto che la mia non vuole essere né una denuncia né una polemica (anche se dovrebbe ma non è questo il luogo più adatto), piuttosto, con questo mio consiglio di lettura, mi sento di esprimere solidarietà con tutte quelle donne – e qualche uomo – che hanno provato la stessa angoscia di fronte a un dolore fisico e mentale e di fronte a un personale ospedaliero che, purtroppo, per un motivo o per un altro, non ha saputo o potuto gestire la situazione se non da un punto di vista estremamente medicalizzato.

La bravura di Winckler (e Mermilliod) risiede nel fatto che tutti i personaggi di Les chœurs des femmes sembrano essere i protagonisti assoluti della storia. Tutti, anche quelli appena menzionati o di passaggio. Ogni storia diventa centrale all’apparire di una nuova paziente, e si intreccia alla perfezione con le altre fino a diventare una storia universale.

Come la storia di Jean, formalmente lə verə protagonista.

Jean è unə giovane specializzandə, la migliore del suo corso, che ambisce a diventare chirurgə ginecologico e si ritrova, contro la sua volontà, a dover trascorrere sei mesi accanto al Dottor Karma nel reparto di “Médecine de la femme” dell’ospedale di Tourmens, ad ascoltare le donne e i loro problemi. Compirà qui la sua (tras)formazione, Jean, nome di origine anglofona che desta una certa ambiguità in Francia (Jean infatti, letto alla francese, è un nome prettamente maschile) passando da un atteggiamento di scetticismo puro nei confronti del metodo utilizzato da Karma per curare le sue pazienti, fatto di ascolto e di eliminazione dei pregiudizi, fino all’adozione dello stesso metodo e alla scelta di restare sei mesi a fianco del medico.

Jean conosce a sue spese la difficoltà dell’essere donna nella società di oggi ma impara ad accettarsi così com’è anche grazie alle pazienti del Dottor Karma che scorrono nel libro una dietro l’altra, raccontando le loro storie, spesso a modo loro e celando traumi dietro problemi insignificanti.

Maternità, aborti, violenze coniugali: sono le storie delle pazienti che Jean assisterà insieme al Dottor Karma, storie che affiorano in superficie solo con il lavoro di indagine svolto dal medico, ormai esperto, che preferisce usare il cuore piuttosto che lo speculum.

“Non sopporto più la pillola che sto prendendo”, dice loro Sabrina, paziente di lunga data di Karma, e mentre Jean è pronta a fare la solita visita asettica e prescrivere una nuova pillola, Karma scava nell’animo della paziente, senza pregiudizi e con pazienza, fino a estrarre il vero significato delle sue parole, così lontano da quanto in realtà pronunciato.

O la maternità desiderata di Geneviève, cinquantenne che adesso frequenta un uomo molto più giovane di lei. Desidera un figlio e chiede ai due medici conferma della sua fertilità. Jean (o piuttosto la società?) la giudica per questo. Perché mai non si dovrebbe desiderare di poter avere ancora un figlio a cinquant’anni, di poter avere ancora delle possibilità? Chi ha detto che il punto non è farlo davvero questo figlio ma sapere di avere la porta aperta, solo una speranza nel futuro? Non è quello che tutti ricerchiamo, una speranza nel futuro?

Sebbene Les chœurs des femmes non sia mai stato tradotto in Italia, un altro titolo di Winckler, La malattia di Sachs, uscito in Francia nel 1999, circa dieci anni prima, si trova attualmente nel catalogo di Feltrinelli. Il suo leitmotiv è già quindi molto chiaro fin dalla fine degli anni Novanta – e questo ce la dice lunga sulla visione avanguardista dello scrittore, che per inciso è anche medico e quindi cosciente di quello che succede negli ospedali e con una formazione adeguata per discernere su tale argomento – : una forte critica alla medicina contemporanea, da lui giudicata misogina e a una medicalizzazione sempre più diffusa. Con Les chœurs des femmes, sembra semplicemente restringere il campo, fare zoom su un gruppo più specifico; se ne La malattia di Sachs ci racconta di un medico disposto ad ascoltare non solo le patologie dei suoi pazienti ma anche le loro angosce personali e le sofferenze non necessariamente fisiche, nella storia ripresa ed egregiamente illustrata da Mermilliod, Franz Karma, il dottore intenzionato a prendersi carico delle emozioni dei propri pazienti, è un ginecologo e si occupa solo ed esclusivamente delle donne.

Troppo spesso negli ospedali si perde quella parte di umanità, che, soprattutto in certi reparti, andrebbe invece preservata con cura. Il Dottor Karma incarna quest’umanità un po’ alla deriva; lui non smania per visitare le sue pazienti alla prima manifestazione di un problema ma prova prima ad ascoltarle e cercare di capire l’origine del loro male, molto più spesso psicologico e non ginecologico. Cura e trattamento per lui sono due concetti da pensare separati. Evita anche di utilizzare strumenti che faciliterebbero il suo lavoro ma che provocherebbero un dolore potenzialmente inutile alle pazienti. Dolore che Winckler rispetta come forma di espressione e non tanto come sintomo e che giudica attualmente mal curato dalla medicina francese.

La violenza ostetrica è un tema assai dibattuto in Francia da qualche anno a questa parte. Nel 2014 con l’hashtag #PayeTonUterus migliaia di donne hanno fornito la loro testimonianza sui social network rispetto ai comportamenti giudicati inopportuni in ambito ginecologico e ostetrico. Anche in Italia è successo qualcosa di simile nel 2016 con l’hashtag #bastatacere a cui è seguita la creazione dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica (OVOItalia), un’organizzazione che porta avanti e diffonde le testimonianze delle donne e cerca di sensibilizzare l’Italia su questo tema.

Come nel caso delle episiotomie, troppo spesso effettuate sistematicamente che rischiano di lasciare strascichi e conseguenze anche a lungo termine nelle partorienti. O le revisioni di cavità uterine senza consenso o ancora l’iniezione di ossitocina per velocizzare la procedura del parto adeguandosi così alle tempistiche dell’ospedale “azienda” e non a quelle più naturali (e decisamente più lunghe soprattutto nel caso di primipare) della partoriente. Non si tratta solo di manovre fisiche bensì anche di abusi psicologici: travagli molto lunghi senza bere né mangiare, ad esempio, aggravati dalle misure anti covid degli ultimi anni come quella di tenere la mascherina per tutta la durata del travaglio.

La mancanza di personale, di mezzi adeguati, persino di stipendi proporzionati hanno spesso aggravato il problema. Per non parlare dei tabù legati alla sfera femminile come le mestruazioni, l’allattamento in pubblico, i corpi stessi (su cui meriterebbe un articolo a parte).

Anche la formazione dei medici, per Winckler, è da mettere in discussione. Se insegniamo loro a fare episiotomie in modo sistematico la maggior parte di loro le eseguirà senza porsi domande.

Vorrei soffermarmi in particolar modo sulla maternità, visto che mi tocca da vicino. Per maternità si intende tutta la fase che va dall’inizio della gestazione fino ai primi mesi del neonato. Parliamo di un’esperienza particolarmente difficile a causa (e non solo!) della trasformazione fisica e psicologica a cui noi donne dobbiamo far fronte. Va da sé che la violenza ostetrica non fa altro che aggravare in modo disastroso questo stato già precario e delicato della vita.

Ci saranno donne che diranno di averla vissuta bene, meglio di altre, e sarà vero. Poi ci sarà chi dirà la stessa cosa sapendo di mentire perché in verità ha sofferto ma sente di non potersi esprimere, di dover nascondere la verità alle altre, perché è così che si è sempre fatto o semplicemente perché il ricordo sarà talmente doloroso da cercare di sotterrarlo a tutti i costi (davvero si dimentica il parto?).

Ci sarà infine chi si sentirà di alzare la voce e dire che la maternità, a partire dalla gravidanza fino all’allevamento del figlio, è la cosa più dura che le sia capitata nella vita e per queste parole verrà probabilmente giudicata, sicuramente colpevolizzata da secoli di patriarcato. Perché non sia mai che si parli male della maternità. Mi viene in mente a tal proposito il testo di Rachel Cusk, Il lavoro di una vita – Sul diventare madri, riproposto nel 2021 da Einaudi. Nel suo saggio autobiografico Cusk fa una cosa abbastanza nuova non solo in campo letterario ma anche e soprattutto socioculturale: mette la madre al centro della situazione “maternità” e si pone una serie di domande, volte non tanto a spiegarci come interpretare il ruolo di madre nella pratica, piuttosto a rimettere in dubbio e scardinare credenze fin troppo radicate in noi e interrogarsi sull’identità femminile in quei primi mesi di vita del bambino.

Perché dico questo? Perché mettere la madre al centro – e non il feto – è quello che dovrebbe essere fatto durante la gravidanza e il parto anche a livello ospedaliero dalle ostetriche e dal personale dei reparti di ginecologia. Perché anche quella è una violenza, scordarsi della donna in favore del bambino che sta per nascere, non praticarle l’epidurale anche quando è fortemente desiderata per accelerare i tempi di nascita o obbligarla a partorire in una certa posizione anche se il dolore raggiunge soglie indescrivibili, o ancora lasciarla da sola e senza la presenza di un caro in un momento così complesso. E anche farle pressione ricordandole che tutte le donne partoriscono dall’alba dei secoli e quindi chi è lei per permettersi il lusso di non farcela, e infine di contenere le sue grida durante il parto. Tutto questo è violenza e la linea tra fisico e psicologico non è mai stata tanto sottile.

Scrive Carolina Capria nel suo saggio Campo di battaglia: “Pur essendo ancora molto lontano dal poter essere considerato un bambino, infatti, nella percezione di parenti, amici e perfetti sconosciuti, il feto era diventato una creatura autonoma la cui salute e i cui diritti venivano prima di quelli della madre, che sostanzialmente era solo un contenitore.”

Siamo davvero solo dei contenitori? È questo il motivo per cui viene perpetrata la violenza ostetrica?

Ho scelto di parlare in particolar modo di violenza ostetrica legata al parto e alla maternità anche se Winckler nel suo testo parla di una violenza più generica, quella che definiamo ginecologica e che può riguardare la contraccezione, l’IVG (soprattutto nel caso di ragazze molto giovani) la cura dell’endometriosi, per anni nemmeno considerata una malattia e tutto ciò che viene preso alla leggera sul corpo femminile.

Non ce lo meritiamo un trattamento così, diciamoci la verità, eppure sempre più spesso è perpetrato dalle donne. Si banalizzano eventi traumatizzanti o delicati, si velocizzano i processi medici, si cura in modo freddo e frettoloso. Si prendono alla leggera i dubbi e le paure della gestante, non si viene (in)formate in maniera adeguata su parto e maternità.

Quanto lavoro devono ancora fare la scienza e la medicina, ma soprattutto quanto lavoro dobbiamo ancora fare con noi stessi – quello che intanto, grazie al Dottor Karma, riuscirà a fare Jean – per tirare fuori un’empatia che abbiamo il sacrosanto diritto di riversarci addosso.


Veronica Nucci


Les chœurs des femmes, Aude Mermilliod, Ed. Le Lombard, 2021 (graphic novel tratta dal libro omonimo di Martin Winckler)
La malattia di Sachs, Martin Winckler, Feltrinelli, 2001
Il lavoro di una vita – Sul diventare madri, Rachel Cusk, Einaudi, 2021
Campo di battaglia– Le lotte dei corpi femminili, Carolina Capria, Effequ, 2021

Redazione

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