Le antilopi di Chagall

Alfonso Giuditta tentò invano di afferrarsi la lingua. Saltellava su un piede solo, strillando al centro del parcheggio a mezzaluna situato di fronte all’emporio degli animali “Il re della foresta”. La scena era assai grottesca e qualunque passante curioso avrebbe detto che quell’uomo tarchiato e sgraziato fosse anche un pazzo. Alfonso Giuditta però non era pazzo, ma bensì l’orgoglioso proprietario dell’emporio, ululante a causa di una tazzona di caffè che si era rovesciato sulla barba e sul collo, macchiandosi anche il colletto della camicia bianca. Coloro che conoscono Alfonso Giuditta sanno che è un uomo dalla mano ferma e dalla scarsa pazienza, motivo per cui quell’incidente doveva avere delle probabili matrici esterne.

Giuseppina Giuditta accorse dal negozio tutta trafelata.

«ALFONSO? ALFONSO CHE è STATO?”

Alfonso Giuditta strabuzzò gli occhi, gonfiò il petto e gridò

«Torna dentro Pina! Per l’amor di Dio, torna dentro!»

Giuseppina Giuditta sbiancò, ma fedele al monito maritale si rituffò nel negozio. Ella tuttavia non poté non pensare che la colpa di quella drammatica reazione doveva in parte essere sua. Per essere più precisi della sua tendenza femminile al rimodernamento degli spazi che aveva fatto sì, dopo un lungo ed estenuante processo di convincimento, che il marito accettasse di svecchiare il volto dell’amato emporio.

Alfonso Giuditta, a causa della sua maschile tendenza a lasciare tutto com’è, aveva trovato intollerabile l’idea di sostituire le vecchie e sudice vetrate esterne, lavate l’ultima volta vent’anni prima, con un modernissimo e cangiante murales che strizzasse l’occhio ai pigri automobilisti, convincendoli a rallentare alla disperata ricerca di qualche scatola di cibo per cani o per gatti. Alfonso riteneva fosse impossibile abbellire quel fabbricato risalente agli settanta: un cubo di vetro, cemento e materiali simil ferro che in origine aveva la funzione di una tettoia, di un garage improvvisato. Sotto sotto, Alfonso Giuditta amava quell’aspetto così dozzinale e ruvido e si rivedeva nella banalità delle lamiere rugginose del tetto, nell’opacità della porta scolorita e nella decadenza dei tre gradini di marmo che recintavano l’emporio. Ma amava pure sua moglie, soprattutto quando lei stava zitta, perciò aveva accettato. Nelle ultime settimane l’affluenza di clienti non era aumentata, ma al posto delle polverose vetrate aveva preso vita un variopinto scorcio di savana keniense, con tanto di giraffe, zebre e un placido elefante, il cui enorme sedere, per errore di calcolo, corrispondeva proprio alla zona dove era situata la porta d’ingresso. Nonostante l’ilarità di accedere all’emporio attraverso il retto dell’elefante, non era questo il motivo per cui Alfonso Giuditta avrebbe dovuto ricorrere a una pomata per le ustioni di primo grado.

«Disgraziato! Porco!» strillava Alfonso puntando un dito accusatore.

Il disgraziato era un po’ confuso e scocciato, anzi sembrava perfino abituato a quel tipo di reazione. Se ne stava in piedi su l’ultimo dei tre decadenti gradini di marmo giallo, proprio sotto il murales di sua creazione, indossava una felpa viola e si chiamava Ernesto Milgres.

«Ancora? Ma mi pareva di essere stato chiaro, no? Se ci sono commenti da fare, dopo che ho finito, altrimenti mi blocca il flusso artistico» disse Milgres stizzito.

«Ma io ti blocco la digestione, ti blocco, animale!»

Milgres calò giù il pennello dal ramo di acacia che stava dipingendo. Il suo tratto era dinamico e solare, realistico e preciso, e nel complesso dimostrava talento e competenza seppur non fosse un Caravaggio.

«Guarda lì!» esclamò Alfonso Giuditta, muovendo il dito accusatore dal petto del pittore alle pianure keniensi. In lontananza, a pochi metri dal gruppetto di zebre intente a brucare c’erano, non più grandi di due palmi, due omini intenti a consumare un rapporto sessuale. Alfonso Giuditta li vedeva e schiumava: erano proprio due omini dipinti di nero, uno posto dietro l’altro, stretti stretti, uno in piedi e l’altro a quattro zampe, uno con le braccia alte a forma di V, l’altro con la testa bassa, fra le spalle.

Ernesto Milgres assunse un’espressione confusa.

«Sì, sto guardando»

«E allora?! Come ti discolpi?» lo aggredì Alfonso Giuditta.

«Discolparmi… ma di che diamine sta parlando? Ma guardi che io devo lavorare anche nel pomeriggio… Non mi faccia perdere tempo»

«AH! Sentilo, sentilo! Prima deturpa il mio negozio, poi fa il finto tonto. Tu non lavorerai più da me! Cancella subito quella porcheria e vattene!»

Ernesto Milgres, a causa della tendenza di alcuni artisti a essere suscettibili riguardo il proprio lavoro, scagliò il pennello per terra e sé stesso addosso ad Alfonso Giuditta.

«Porcheria??? Ma lei è pazzo! Già paga una miseria le mie mani, e poi non riconosce nemmeno l’arte!»

Alfonso Giuditta fece un balzo indietro, con gli occhi spiritati. La barba di colore scambiato ondeggiò schizzando di qua e di là goccioline di caffè ormai freddo.

«Dove sarebbe l’arte? Due che trombano sono arte??»

Ernesto Milgres credette di aver capito male e per un istante restò impalato con la bocca aperta. Guardò il suo murales, poi il furente Giuditta e poi nuovamente il suo murales. In lontananza, a pochi metri dal gruppetto di zebre intente a brucare c’erano, non più grandi i due palmi, due giovani antilopi, una di fianco all’altra, che alzavano il muso inconsapevole verso la meravigliosa vetta del monte Kenya.

«Due che trombano?» fece eco Milgres «Ma dove sarebbero, scusi?»

«Credevi che non me ne accorgessi eh? Volevi fregarmi! Ma secondo te porto gli occhiali io, che non noto un pecoraggio? Il signorino ha fatto l’accademia di belle arti, ciù, ciù, ciù… accademia bella merda, altroché!»

Milgres si pulì le mani sporche di pittura sotto le tasche dei suoi vecchi pantaloni di velluto.

«Signor Giuditta, che lei fosse un enorme ignorante lo avevo capito subito e accettato, dopotutto l’arte è di tutti e il lavoro, purtroppo, scarseggia. Ma al di là delle sue prese in giro ridicole, le consiglierei di fare un giro dall’oculista, poiché è cieco come una talpa oltre che stupido»

Alfonso Giuditta mostrò i denti e impastò dal profondo della gola lo sputo più feroce che avesse mai programmato nella sua vita. Era uno sputo rancoroso, carico di catarro, muco e bile, risalente al primo momento che Alfonso aveva messo gli occhi addosso a quell’arrogante giovinastro. Milgres era tutto ciò che lui non era mai stato: alto, ben fatto, con occhi grandi e intelligenti e una morbida capigliatura di ricci nerissimi. Mille prospettive di vita si affacciavano per quelle gambe lunghe, così adatte a ballare e fare l’amore. Giuditta al contrario, calvo, basso e con il collo storto, era lo spettro del re della foresta che un tempo seduceva le signore d’alta borghesia in crisi sentimentale vendendo loro del lussurioso mangime per pappagalli.

Dalla gola di Giuditta cominciò a propagarsi un intenso raschio consonantico, tanto simile a quello della macchinetta del caffè che Giuseppina Giuditta aveva preparato dieci minuti prima. Il proiettile era pronto a detonare, se non ché Milgres sorrise.

«Ma dove li vede due che trombano, talpaccia? Quelle sono antilopi, le antilopi di Chagall»

Il raschio preparatorio indugiò e si estinse. La massa salivale ballonzolò come la piccola testa di Giuditta. L’uomo assunse un’espressione ebete.

«Che?» grugnì Alfonso Giuditta.

Milgres avanzò trionfante e cominciò a disegnare nell’aria ghirigori.

«Marc Chagall, geniale pittore, metà russo, metà ebreo, vincitore del premio Wolf per le arti. Io lo sto citando qui, cito un suo disegno del 1942, le antilopi di Chagall. Un disegno di sublime leggerezza di due animali mai visti dall’artista e dunque due animali metafisici, evocati dal mondo delle idee a partire dalla parola»

Alfonso Giuditta seguì il dito insolente del pittore. Sembrava un bambino in età elementare che cercava di ripetere un concetto difficile da processare.

«Anti…? Anti…?»

«Antilopi, signore. Antilopi. Lo avrà visto un documentario sull’Africa nella vita, no? Sarà stato allo zoo, qualche volta»

Alfonso Giuditta diventò color pomodoro. Lo sputo era ormai riscivolato chissà dove e come un colpo di mortaio inesploso giaceva da qualche parte dentro di lui. Ma la rabbia riprese a marciare. Giuditta balzò sui tre gradini e si mise sulle punte per osservare da vicino le suddette antilopi. L’odore della vernice fresca gli diede alla testa, ma certamente non sbagliava. Visto da vicino ne aveva ancora più certezza: quelli lì dipinti non erano animali, erano due omini nell’atto inequivocabile di una copula e Milgres stava tentando di fregarlo con le sue belle parole.

Alfonso Giuditta si voltò, ghignando.

«Ti denuncerò. Oh sì, sì, verrai punito… anzi»

Un’idea diabolica s’impadronì di Giuditta e da chissà dove, con chissà quale perizia, il colpo di mortaio inesploso gli risalì alla bocca.

Milgres non aveva alcuna paura negli occhi, ma quando udì Giuditta raschiare e poi schiumare cercò di allontanarsi. Il proiettile però non era diretto verso di lui. Giuditta impastò, sorrise e tornò a guardare il murales.

«PUH!»

Fu la volta per Milgres di assumere un’espressione ebete. Non era certo il primo artista che ricevette sputi sulle sue opere. Solo fra i suoi idoli, Van Gogh e Fontana avevano subito quello stesso trattamento, e per un istante Ernesto Milgres fu lieto di pensare che in quel momento era proprio come loro. Ma quando si soffermò ad osservare la macchia di saliva schiumante che colava lungo il corpo delle sue antilopi avvertì il cuore stringersi e le tempie pulsare. Alfonso Giuditta sorrideva malvagio contemplando il suo apporto all’opera, tuttavia non fece in tempo a sbattere le ciglia che d’un tratto la terra gli manco da sotto i piedi e il murales gli venne agli occhi con velocità vertiginosa. L’emporio “Il re della foresta” rintoccò all’impatto con il cranio del proprietario, che ruzzolò sul cemento tenendosi la fronte. Un grosso bernoccolo sporco di saliva e vernice cominciava a gonfiarsi rapido sulla fronte, mentre Alfonso Giuditta strabuzzava gli occhi sul suo aggressore.

Giuseppina Giuditta, che aveva spiato tutta la vicenda da dietro le vetrate, sbucò fuori dal retto dell’elefante.

«ALFONSO, UDDIO, ALFONSO!»

Ernesto Milgres, consapevole di aver commesso un grave errore, accorse anche lui a dare una mano.

«Signora serve del ghiaccio, fortunatamente il vetro non si è rotto, non si è tagliato, è solo un berno…»

«ALFONSO TU MI SENTI?? ALFONSO CHI SONO?»

«Signora vado io, mi dica dove posso trovare del ghiaccio»

«ALFONSO? CHI SONO ALFONSO? CHE TI HA FATTO? GUARDAMI TI PREGO! UDDIO è PIENO DI PUS, SI è INFETTATO, ALFONSO»

«Signora, si calmi, non è pus, è saliva, si è sporcato quando l’ho… quando si è fatto male»

«ALFONSO RISPONDIMI, CHE GUARDI ALFONSO? PERCHE SORRIDI, CHE GUARDI?»

Alfonso Giuditta si aggrappò al piumino sfilacciato di sua moglie. Avvertiva un gran calore proprio al centro della fronte, e la zona tutta attorno pulsare. Non provava dolore, però, si sentiva leggero e anestetizzato. L’aria gli entrava nei polmoni chiara e fresca, ma percepiva come se le corde vocali gli si fossero atrofizzate. Anche se non sapeva come, voleva esprimere un’emozione, e quell’emozione era lo stupore.

Là, in lontananza, nelle pianure keniensi, a pochi centimetri dal gruppetto di zebre intente a brucare c’erano, non più grandi di due palmi, due curiosi animali che Alfonso Giuditta non ricordava di avere mai visto. Ne era certo, erano proprio animali, dalle zampe sottili e le corna lunghe, con un muso che in qualche modo ricordava quello dei cavalli o dei cervi.

«Le… vedo…» balbettò Giuditta «Vedo… le antilopi»

Giuseppina Giuditta scoppiò in un pianto disperato.

«UDDIO ALFONSO CHE DICI? NO, NO, NO, HA LE VISIONI! LE TRAVEGGOLE!»

Ernesto Milgres cominciò a sudare. Era affascinato dal violaceo bernoccolo e dallo stato di trance in cui aveva indotto il povero Giuditta, ma dentro di sé la vera lotta avveniva fra legalità e libertà. Cosa era più giusto? Prestare soccorso a quel detestabile uomo e sperare che non avrebbe esporto denuncia, o fuggire adesso e sparire per un po’? Milgres ponderava entrambe le opzioni, ma più spesso riaffiorava la curiosità per quello sguardo posseduto dalla grazia che Giuditta aveva fra le braccia della moglie. Gli venne in mente il San Francesco in estasi che aveva visto una volta a Brera e si ricordò delle emozioni che gli aveva procurato e della promessa che aveva fatto a sé stesso di non piegarsi mai ad accettare lavori mediocri.

«LA POLIZIA, L’AMBULANZA!» strillava Giuseppina cercando il telefono.

«Li chiamo io, signora, non si preoccupi» disse Milgres con voce fioca.

Alfonso Giuditta mosse i suoi occhi su Ernesto e quando i loro sguardi s’incrociarono il pittore vide che quello non era più lo stesso uomo di prima e questa sensazione lo scosse profondamente, fin dentro le ossa.

«Le vedo» disse Giuditta in un soffio ed era soddisfatto, no, era estasiato di ciò che vedeva. Ernesto pensò che nessuno aveva mai reagito così ad una sua opera, tant’è che indugiava a chiamare e indugiava ad andarsene, in ginocchio al cospetto di Giuditta e sua moglie.

Volle seguire il suo sguardo, proprio mentre dall’altra parte del telefono un uomo rispondeva da un’ambulanza nelle vicinanze.

Milgres osservò il suo murales: le giraffe gioviali che avanzavano in branco, il placido elefante con la proboscide curiosa a giudicare il sole e lì, in lontananza, a pochi centimetri dal gruppetto di zebre intente a brucare, il punto d’impatto del cranio di Giuditta e… una nuova visione.

«Pronto?? Pronto??» diceva il paramedico dall’altra parte del telefono.

Milgres ne era certo. A pochi centimetri dal gruppetto di zebre, c’erano due omini stilizzati, impossibile definirne il genere, ma l’atto era chiaro. C’erano due omini intenti a fare l’amore. Vedeva chiaramente i due bacini che s’incontravano, le due pose di passione e i due corpi che divenivano uno, primitivi eppure espliciti, molteplici, innamorati perfino.

«Aveva ragione lui…» disse Milgres in un soffio.

«Come? Non la sento! Parli più forte!» disse il paramedico.

«CORRETE, AIUTATE IL MIO ALFONSO!” strillò Giuseppina Giuditta.

«Le vedo…» ripeté Giuditta ancora una volta, prima di svenire.

«Venite… venite a vedere» disse Milgres ai paramedici.

E l’ambulanza fu lì in minuto, essendo l’emporio adiacente ad una strada statale che collegava direttamente all’ospedale. Nel parcheggio a mezzaluna c’erano solo due auto e tre persone. I paramedici caricarono su una barella il povero Alfonso Giuditta, tranquillizzando la moglie urlante sul fatto che non fosse affatto in pericolo. Sul momento non riuscirono a carpire nulla da lei su cosa fosse accaduto, dato che appariva in preda a una violenta crisi isterica. Il giovane pittore ingaggiato per lavorare lì però raccontò che il proprietario si era maldestramente rovesciato addosso una tazza di caffè mentre usciva dal negozio, e per il dolore aveva messo un piede in fallo mancando un gradino e picchiando la testa a terra sul cemento. La versione era convincente, anche a causa delle lievi ustioni che l’uomo dimostrava sulle guance e tutto attorno il collo.

L’unica cosa insolita che rilevarono i paramedici fu una domanda del giovane, che con un tono assolutamente indecifrabile chiese ad uno di loro cosa vedesse in una particolare zona del murales che stava dipingendo.

Uno dei paramedici gettò uno sguardo distratto, mentre richiudeva il retro della porta dell’ambulanza. Ernesto Milgres notò che sotto la giacca da paramedico l’uomo indossava una t shirt Harley Davidson. Quando la risposta arrivò non stupì il pittore.
«È un chopper no? Ma che ci fa una moto nella savana?»


Boogie Cucciniello è nato ad Avellino il 20/11/1997. Lord scozzese della contea di Kilnaish, prete dudeista e tafofilo, ama tutto ciò che è insolito e curioso, il rock n’ roll e il cinema. È laureato in comunicazione e aspira a fare della scrittura il suo mestiere. Ha sceneggiato il film “Nastro #01”, le cui riprese cominceranno alla fine del 2022, con attore protagonista Alessandro Haber. Scrive eccentrici racconti brevi, reportage di viaggi ed eventi bizzarri e poesie. Quella su Quaerere è la sua prima pubblicazione su una rivista letteraria.

Redazione

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