Uno, nessuno e centomila romanzi – Atto di dolore, di Antonio Gurrado

Antonio Gurrado, Atto di dolore
Wojtek ed. 2023

Il conflitto tra un’opera e chi la scrive non è fatto per essere risolto ma per offrire ogni volta un allargamento del dilemma, per aggiungere una nuova superficie riflettente a quella casa degli specchi che è la letteratura quando vuole fare sul serio, divertendosi a complicare le regole del gioco. È quello che accade quando il protagonista di un’opera si presenta dichiaratamente quale controfigura autobiografica di chi la firma, come fosse il parodizzato Doppelgänger di un sé stesso che comunque non si sa chi sia, che resta ancora tutto da inventare. Proponendo una proiezione di sé resa volutamente inaffidabile a livelli crescenti chi scrive corre il rischio di allontanarsi così tanto dalla fantomatica verità-dei-fatti da andarci poi a sbattere contro dalla direzione opposta.

In Atto di dolore di Antonio Gurrado, pubblicato da Wojtek, i doppioni sono come minimo tre. Il primo è il Gurrado che dice io nella Premessa (filosofica) incipit del romanzo, premessa che copre circa un terzo di tutto il libro. Codesto Gurrado confessa di sé: “ero fin troppo convinto che sarei stato narratore da Premio Strega”, senza poi spiegare di che tipo di narratore si sarebbe trattato, e nella vita letteraria che s’intesta, oltre a accademici studi volterriani, riconosce di aver quanto meno già commesso un racconto “su un liceale comunista di Napoli che nel 1990 odiava Maradona, unico in tutta la città”. Questo primo doppione vive l’angoscia di essere stato per decenni alle prese di un romanzo su sesso e religione, su una vicenda invecchiata prima di aver mai visto la luce di stampa in quanto “il sesso e la religione sono stati simultaneamente aboliti da Papa Francesco, nel momento in cui ha detto che nemmeno lui può giudicare cosa fa la gente a letto”.  Certo passare per meno moderni di un papa è un brutto scotto per uno scrittore che si sente ancora esordiente a trent’anni più che compiuti, che usa l’aggettivo pertondo per descrivere il busto di una donna (utilizza pure gli aggettivi: pieno, invitante, polposo) e che teme di non riuscire a distinguersi dalla pletora di “nani fra le palle dei giganti” che compete nell’agone letterario accattone e diversamente marchettaro.

Il secondo doppione è la bad company del primo. Il più delle volte si chiama Giustino Sperindìo (“il nome Giustino, com’è ovvio, germina sia da Sade sia dai Padri della Chiesa”, tiene a precisare il primo doppione). Giustino “pratica il peccato ma lo riconosce come tale”, se si tratta di recitare l’Atto di dolore però fa scena muta perché: “l’Atto di dolore non me lo ricordo mai”. Sì, anche lui scrive, come il primo doppione, sebbene abbia una carriera ben più gazzettistica del primo e appaia in scena “a letto con una foggiana dalla faccia vastasa”. Giustino racconta di sé: “Sorridevo alle battone di via Foria o di Via Vitruvio sperando che mi applicassero uno sconto simpatia”, e va al cuore del più autentico dubbio esistenziale, se non dell’umanità tutta di certo di quel ramo maschile che si rispecchia in Giustino Sperindìo e nelle sue brame: “amore? ci può essere amore senza eiaculazione?”.

Se il primo doppione ha perso la speranza di completare il romanzo perché lo sente superato dai cambiati costumi sociali, il secondo ne ha constatata l’infattibilità: “Fallimento: come in tutte le confessioni, la completezza è impossibile.” Lo scrittore incappa nel paradosso della mappa: nella più accurata, precisa, esatta delle mappe del mondo la mappa stessa non ci sta. Nemmeno il secondo doppione finirà il suo romanzo, ma troverà infine il modo per leggere quello di Antonio Moresco, I canti del caos. È un caso se nella parte centrale del romanzo di Antonio Gurrado (quale Gurrado?) appaia come nume tutelare il secondo romanzo di una trilogia che non viene nemmeno nominata come tale? Trilogia, quella di Moresco, che rappresenta uno dei vertici più esagerati, e riusciti, della letteratura italiana smontata e rifondata, tracimata.

C’è poi un terzo doppione, più reticente, più defilato, non per questo meno sospetto, meno subdolo: è l’Antonio Gurrado che appare nell’aletta della quarta di copertina, che vuole si dica di sé: “La sua biografia si trova sparpagliata all’interno di questo volume”. Un indizio a dir poco fuorviante, siccome in nessun libro ci può essere verità personale, poiché l’unica autobiografia possibile in letteratura è quella dell’inconscio collettivo.

Tre doppioni possono bastare? In realtà, fin dalla prima pagina un quarto doppione fa capolino, è il Curatore Postumo, estensore di Note a piè pagina. Le sue note la sanno troppo lunga per essere frutto della critica coscienziosa ma distaccata di uno studioso terzo all’opera che analizza. Se un’opera merita l’attenzione di un Curatore Postumo qualcosa dovrà pur valere, no? Ecco cosa consegue implicitamente dalla presenza di un curatore.  Eppure come può contarcela giusta questo quarto doppione, autore a sua volta di una Premessa (filologica) tutta sua, che rintocca quella filosofica in apertura, e che all’auto-osservazione dal secondo doppione, di quel Giustino che dice di sé: “Come tutti gli scrittori, iniziai plagiando”, sbotta in nota col commento: “E continuò così”? Se il primo e il quarto fossero in realtà lo stesso doppione messosi in combutta con sé stesso per simulare un finale tragico (spoiler: il primo doppione si uccide, a 38 anni), vieto stratagemma per vendere qualche copia in più? Allora Atto di dolore potrebbe non essere una storia vintage di sesso e religione, ma quella di un perfetto delitto letterario, la storia dell’assassino che ha ucciso quel nessuno che torna a essere qualunque scrittore quando del romanzo ha scritto l’ultima parola. 

Gli scrittori di riferimento di Antonio Gurrado sono gridati all’interno del libro da quel Curatore Postumo che si vuole accertare venga sancito un apparentamento, come a garantire gli ottimi studi e il lavoro accorto di chi lo ha scritto. Vanno smaccatamente da Philip Roth a Anthony Burgess, eppure il primo nome ch’è venuto in mente a me leggendo Atto di dolore è stato I due stendardi di Lucien Rebatet, un romanzo su sesso e religione, con la differenza che Rebatet il romanzo su sesso e religione l’ha scritto tutto da un inizio a una fine, Gurrado invece s’è arrestato sulla soglia, sulla premessa, lo ha scritto a pezzi, probabilmente proprio perché il romanzo su sesso e religione era già stato scritto da Rebatet nel 1951, avendo dalla sua il vantaggio di vivere durante una fase storica a più alta pervasività dalle patologizzante morale sessuale cattolica, quando il peccato valeva ancora come afrodisiaco naturale per chi il sesso lo preferisce aromatizzato allo zolfo.

Come ci sta, in questo romanzo su sesso e religione, pochissima la religione, ambientato tra Pavia e Altamura, il paese di Siltzeraun (“Meglio sarebbe stato raderlo al suolo, come tutto l’Alto Adige selvaggio e tedesco”)? Che parte ha al suo interno un docente del corso di Filologia Semitica all’Università, “un ex sacerdote sposato con una coreana” che portava “con sé lo shofar per sancire l’inizio di ogni lezione al suono del corso sacro (oggi è un apprezzato youtuber)”? Perlomeno, al pari dell’Autobiografia erotica di Aristide Gambia di Domenico Starnone, invidiata proprio dai doppioni che infestano il romanzo, Atto di dolore una volta letto ottiene l’ammirato elogio: “Oh, è proprio porno”? A queste domande potrà rispondere il quinto e indispensabile doppione, necessario per ogni opera di scrittura: il lettore che la leggerà. Ciascun lettore, dando le sue risposte, farà come “l’autore [che] ha iniziato a non finire il romanzo”.

Atto di dolore, secondo il doppione che sono io, è la maliziosa storia dell’impossibilità di scrivere un romanzo contemporaneo inedito, mai scritto prima, mai scritto così, raccontato come Beckett insegna: procedendo per negazione, come si usa in certa teologia; scrivendone uno.


Antonio Coda

Redazione

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