Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana
Giulio Perrone Editore, 2022
Roma dove sei? Eri con me
Oggi prigione tu, prigioniera io
Roma antica città
Ora vecchia realtà
Non ti accorgi di me
E non sai che pena mi fai
Ma piove il cielo sulla città
Tu con il cuore nel fango
L’oro e l’argento, le sale da thé
Paese che non ha più campanelli
Poi dolce vita che te ne vai
Sul Lungotevere in festa
Concerto di viole e mondanità
Profumo tuo di vacanze romane
Roma bella, tu, le muse tue
Asfalto lucido, “Arrivederci Roma”
Monetina e voilà
C’è chi torna e chi va
La tua parte la fai
Ma non sai che pena mi dai
Greta Garbo di vanità
Tu con il cuore nel fango
L’oro e l’argento, le sale da thé
Paese che non ha più campanelli
Poi dolce vita che te ne vai
Sulle terrazze del Corso
“Vedova allegra”, máìtresse dei caffè
Profumo tuo di vacanze romane.
Matia Bazar, Vacanze romane

Mentre mi addentro tra le pagine di Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio canticchio Vacanze Romane dei Mattia Bazar. Mi sembra la giusta colonna sonora per questa storia, ma anche il correlativo in musica di uno stato d’animo che il libro evoca. Pincio racconta la Roma di Ennio Flaiano, di Fellini, della commedia all’italiana. Gli anni del cinema, di via Veneto, dei caffè dove si ritrovano gli artisti a parlare, discutere, scambiarsi idee che si materializzeranno poi sulle tele dei pittori, degli artisti pop Schifano, Festa, Fioroni, sui libri di Palazzeschi, Brancati, Cardarelli, Penna, Arbasino, Pinelli, sulle pellicole di Fellini, con cui Flaiano ha un rapporto conflittuale almeno quanto quello con la sua città d’adozione, Roma, e poi Blasetti, Lattuada, Monicelli, Soldati, con i quali collabora alla scrittura delle sceneggiature più belle del nostro cinema apportando idee geniali. I personaggi sfilano e puntellano le pagine, siedono conversando ai tavolini di quei famosi caffè, come il Caffè Greco, o delle trattorie come il Bolognese a Piazza Del Popolo. Tramite la voce di Tommaso Pincio ci arrivano ancora i loro discorsi, i pensieri intelligenti, gli aforismi spiritosi, ridiamo alle loro battute, alle barzellette.
L’autore ripercorre tutto ciò – che è storia degli anni e storia del costume ma anche, e soprattutto, è la vita di chi in quei quartieri e in quel particolare contesto si è mosso – e questa narrazione, che va avanti e poi torna indietro seguendo non un corso temporale quanto piuttosto un flusso di coscienza, Pincio la favella snocciolandola per noi ma anche a sé stesso, mentre raminga, come un Baudelaire del nostro tempo, attorno ai luoghi che non sono più gli stessi, traendo dalla memoria e dalla sapienza, con una malinconia che scaturisce spontanea, gli spazi com’erano allora e gli attori che dentro quegli spazi erano contenuti, parte integrante di quartieri e strade e piazze e tavolini. Anche la scrittura mantiene questa nota nostalgica che ha a che fare con le cose scomparse, che non tornano, e che il camminare riproduce: un movimento ondivago che rifrange l’oscillazione flessuosa dell’andare cogitando, distratti, richiamando memorie e persone e aneddoti. E infatti il libro si autodefinisce già dal titolo come un diario, non un vero e proprio romanzo, quindi, ma la personale visione di un’epoca e di uno scrittore, Flaiano, che si srotola nella memoria di chi scrive a partire proprio da quel mondo altro, conchiuso e concluso, ma il quale per il tempo che è durato, in fondo breve, è stato capace di creare un immaginario vastissimo e un indiscusso mito.
Leggendolo si entra in un tempo storico che l’autore è bravissimo a destare dal suo sonno dorato, e questo accedere, però, non porta dentro pagine ma dentro una città, sale per via Veneto e sosta al Cafè De Paris, scende scale di locali e feste, si sposta a Piazza Vittorio, guida la macchina percorrendo le corsie che accedono al mare, alla sonnolenta Fregene di quei decenni magici, onirici, addenta una frittura unta e croccante al villaggio dei pescatori. Questo è un libro che si muove, incede vagabondando per i vicoli romani, inciampa sui sanpietrini, si infila dentro i cinema, è voyeur di sé stesso, metaletterario, metafilmico, si guarda dal di fuori, torna in sé, s’intrufola sui set cinematografici della città, Roma, così unica da essere essa stessa un teatro di posa all’aperto, con le sue rovine, le colonne, gli stampi dei teatri sui muri dei palazzi, le piazze pittoriche con l’edera attorcigliata alle mura esterne degli edifici bassi, le facciate antiche a sorvegliare i bar sottostanti, i tavolini sparpagliati sull’acciottolato sconnesso. Ma il libro non cammina da solo, a portarlo a spasso, a piedi o sopra i mezzi pubblici, è il suo autore.
E appunto il Diario conserva la prima persona di chi parla, il flâneur Pincio, il quale nella temporalità binaria, il periodo della dolce vita e il nostro dell’oggi, intende parlare di Ennio Flaiano, il personaggio pubblico e dietro, più riservato, l’uomo, non solo attraverso la lettura delle sue opere, ma ripercorrendo i motti e le storie che ha raccontato agli amici; così, evocando la persona dello scrittore, in realtà riesuma tutto il mondo che a lui ha ruotato attorno.
E mentre Pincio lo espone narrando e narrandosi, la sua scrittura assume il sapore delle estati rievocate, una scrittura di silenzio, solitudine, capace magistralmente di replicare nell’immaginario del lettore le strade vuote, l’atmosfera rarefatta della calura tremolante sull’orizzonte dell’asfalto; il ritmo e il tono conducono ad ascoltare il frinire delle cicale occultate dal verde, in un’alternanza in cui la parola scritta si fa filmica, campo lungo cinematografico, per sprofondare infine dentro una diversa dimensione, posta sulle stesse strade ma in un’altra linea temporale, quella di Pincio, e la nostra, che distratto dalle sue riflessioni procede a zonzo per la città pensando a lui, il libro che sta scrivendo, e all’altro lui, Flaiano. Anche lì, nel piano cronologico dell’autore, le strade sono deserte ed è estate. E ancora è il sapore, l’essenza, l’odore. E Roma allora è la nostra proustiana madeleine. Il collante attraverso cui il libro solca le epoche intersecandole in sovrimpressione ideale e acquista tridimensionalità: c’è l’amoreodio per Roma di Flaiano, quello di Pincio, quello del lettore romano che gongola a farsi portare a spasso nei luoghi che conosce. Non c’è abitante che più del romano abbia questo tipo di rapporto con la sua capitale: odioamore. Roma, più che una città, sembra a noi, e forse a chi la visita, una personificazione, un’avvenuta metamorfosi di paesaggio in stato d’animo, di pietra in carne e ossa e sangue; un essere ventricolare, femmineo, faunesco, circense, fagocitante, una meravigliosa baccante sotto il cielo azzurro, accarezzata dai tramonti aranciati e desertici sulle rovine di tutte le epoche, sui capitelli scheggiati che si tinteggiano alla spuma amaranto della sera, abbandonata, sdilinquita sulle dormeuses dei salotti letterari, personificazione di una menade ubriaca e furba, traditrice. Ma Roma, come scrive Pincio, “non è né buona, né cattiva. Roma non promette niente, questa è la verità, questo il suo labirinto, la sua stronzezza” (cit. Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana, Giulio Perrone Editore, pag. 23). Siamo noi che le moriamo dietro e pretendiamo una modernità che non le appartiene. Roma è il suo fascino decadente, le sue promesse non mantenute, un’amante scomoda da amare, bellissima, e che va con tutti.
Nel suo camminare con i piedi e col pensiero Pincio tocca tanti argomenti e il libro diventa multiforme, mescolando ironia fine e arguta a un senso di nostos; prima di tutto si parla della vita di Flaiano ed è dolce sostare malinconicamente nell’esistenza di quest’uomo, passare davanti alla sua casa, entrare nei suoi scritti, Un marziano a Roma e Tempo di uccidere con il quale lo scrittore ha vinto il premio Strega, spiare la sua dolente vita famigliare. È poi un libro sul cinema, corona di quel tempo, e nelle pagine ritornano le sceneggiature e gli aneddoti sulle loro genesi, i film come Il Sorpasso, Io la conoscevo bene, Lo sceicco bianco e La dolce vita, pellicola ma anche mito, e ritorna il piacere di quella nostra commedia che ha sempre un retrogusto amaro, è bicefala del sentimento, del riso. Il Diario indaga quegli anni, non li indora a priori, perché il cinema non è stato solo feste e scorribande nei locali, nelle notti di Via Veneto, è stato anche sogno infranto per molti che dal paesello arrivavano a Roma con valige di speranza, attirati dalla notorietà, dalla possibilità di una vita sotto i riflettori colma di glorie e di ricchezze per poi essere delusi, restare ai margini o finire cadaveri come la giovanissima Wilma Montesi.
Infine, Diario di un’estate marziana è una riflessione sul senso e sul significato di essere una comunità artistica, e a confronto con l’oggi ripercorre un modo di aggregarsi, incontrarsi, sentirsi parte di una società letteraria che come dice l’autore non c’è più, disperdendo in tal modo possibili discussioni, futuri eventuali progetti, potenziali nuove correnti impossibilitate a nascere senza l’incontro-scontro che genera scintille e influenze; il singolo è abbandonato alla mercé dell’isolamento, destinato pertanto a perdere voce, potere, quella forza che solo l’unione produce originando consapevolezza: “Temo che i salotti letterari siano semplicemente scomparsi e nulla abbia preso il loro posto. Scomparsi semplicemente perché è scomparso quel tipo di società e, almeno in questo Paese, non ci si illude più che la letteratura e la sua comunità abbiano una rilevanza tale da rendere necessario – o anche solo abituale e piacevole – vedersi e discutere” e continua “basterebbe la città coi suoi ritrovi. Si andrebbe in un dato caffè a una data ora, certi di incontrare gli altri”(cit. pag. 61). Non è solo l’autore a preoccuparsi di questo, è un dibattito aperto e un desiderio di molti, e forse oggi un nuovo fermento serpeggia per l’Italia, aiutato, diciamolo, anche dall’eco dei social che quando usati intelligentemente possono essere catalizzatori di scambi, fulcro e rimbombo aggregativo di eventi che non si esauriscono sulla rete ma si materializzano nel reale tramite incontri, presentazioni di libri, festival, eventi all’interno di librerie indipendenti. Persone che credono nel valore della cultura si riuniscono. Probabilmente, ora i salotti sono sostituiti da un altro tipo di comunicazione, l’essenziale è mettere fine al romitaggio culturale, tornare nei luoghi pubblici e tenere vivo un confronto colto, critico, lontano da logiche mainstream, che coinvolga lettori e scrittori in una comunità in grado di accorciare le distanze incontrandosi e discutendo. È ora di varcare la soglia di cui parla Pincio “La soglia. Noi siamo quelli della soglia. Noi siamo quelli che hanno vissuto il Novecento guardando da una porta aperta le sue stanze ingombre di storia e piene di autorità e anche di coraggio e una sfrontatezza che, diciamolo, ci sono sempre mancati. Restavamo perlopiù sulla soglia, ma a volte ci è capitato anche di entrare, di metterci piede, di accomodarci perfino e partecipare alle conversazioni” il punto è che siamo rimasti al limitare della porta “Ci mancavano non il talento né forse la passione, bensì il carattere, l’impudenza e in una certa misura anche lo stile” (cit. pag. 128). Ecco, è ora di abbandonare la soglia, ma col nostro stile e la nostra particolare impudenza.
Intanto, emulando il Diario, passeggio anch’io per Via Veneto. La strada che sale è metafora del non ritorno, morte della mitologia che l’ha vista imperatrice della sua epoca, un luogo simbolo bruciato. Le vetrine non brillano, i negozi sono chiusi, le serrande del fallimento abbassate, la strada è sporca, le cineserie globalizzate costellano il cammino, le scale che portano a Via Emilia odorano di urina e birra. Il caffè De Paris non esiste più, smontato, finito, divelto, neppure c’è più la teca su strada da cui gli attori, le star, ci sorridevano per sempre immobili nello scatto, eternate nella posa di un istante in cui li ricorderemo per sempre. Ma già allora, due anni dopo La dolce vita inizia nel quartiere una decadenza che Flaiano riporta in un diario, e come scrive Pincio, vagando per quella via Flaiano “Ripensa all’atmosfera paesana di un tempo, ai giornalisti e agli scrittori che prendevano l’aperitivo, ai pittori che ancora non avevano mercanti, al barbiere dove incontrava Soldati e l’osserva trasformarsi ora, in vista dell’estate, in qualcosa che assomiglia più a una spiaggia che a una strada” i tavolini sono sormontati persino da ombrelloni “Via Veneto è diventata la strada in cui le persone sembrano – e in fondo sono – bagnanti, tanto che le conversazioni hanno anch’esse qualità balneari” che secondo Flaiano “sono barocche e scherzose, e si riferiscono a una realtà esclusivamente gastro-sessuale” (cit. pag. 105-106). È così simile a una spiaggia Via Veneto che lo scrittore pare vi abbia trovato una conchiglia, ironizza Pincio.
Ma quanto somiglia questo Flaiano al Pincio che lo descrive, Pincio lo sa? Vi si ravvisa una segreta corrispondenza di sensibilità, capacità di ascolto delle cose, quanta inconscia correlazione tra i loro scritti, se Pincio definendo “un diario molto particolare” i Fogli di Via Veneto di Flaiano non si accorge che le parole con cui lo racconta si adattano come un vestito anche alla sua opera “Un diario” dice parlando di quello di Flaiano “si presenta solitamente in ordine cronologico, mentre le note in questione sono mescolate, in un continuo andirivieni temporale. Si salta da un anno all’altro, avanti e indietro, senza una logica apparente, anche se una logica evidentemente esiste, come pure si percepisce tanta riscrittura insieme all’opera di montaggio. I fogli di Via Veneto è tra i testi più belli di Flaiano. Vi aleggia una malinconia soffusa, discreta, mai invadente né tantomeno opprimente; il profumo delle cose che finiscono e di ciò che ci attende, i ricordi, la solitudine. Insomma, vi si respira un’aria estiva…” (cit. pag. 105). Sì, lei infatti ha ragione Signor Pincio, anche lì, nei Fogli di Via Vento, si respira un’aria estiva, ma non di un’estate qualunque, bensì di un’estate marziana!
Silvia Penso