Una stanza tutta per sé: Dove scrivono i grandi, Alex Johnson
L’Ippocampo edizioni, trad. S. Bre, 2022
I grandi scrittori scrivevano perché non avrebbero saputo come andare avanti altrimenti? Che è anche chiedersi: la scrittura è un settimo senso oppure ha la possibilità di fermarsi? Deriva da una sorgente a cui si deve imparare ad entrare, e quindi può esservi escluso il suo accesso, o è una forma data di creatività, innata e inspiegabile?
Alex Johnson ha raccolto ne Una stanza tutta per sé: Dove scrivono i grandi scrittori, per L’Ippocampo edizioni, il metodo di scrittura dei grandi scrittori, traendone non solo un’opera brillante e spigliata di cultura sia popolare che sofisticata, ma anche un’idea generale meritevole di attenzione: la scrittura è un artigianato?
Se ne traggono degli interrogativi affascinanti, primo tra tutti se l’ispirazione derivi da una routine. Il principio base di questa ricerca letteraria è che esistono delle caratteristiche universali che accomunano i grandi scrittori. E se queste esistono, ciò aiuta a stabilire che scrittore non è chi scrive e basta, cioè chi riesce a scrivere e ad accedere a questa presunta fonte perenne dell’arte, ma chi ha modificato attraverso sé stesso l’andamento dell’ispirazione letteraria. E facendolo attraverso il corpo, le mani, l’esistenza stessa dell’uomo, e non sono attraverso l’intelletto. Portando in definitiva a chiederci: cos’è davvero la scrittura? Non solo un’arte e una sapienza, ma un lavoro di mani, di apprendimento, di approfondimento, di trucco, di confronto persistente con il lavoro.
Dove scrivono i grandi scrittori è un titolo indicativo che cerca di accomunare alla grandezza, imprescindibilmente, il concetto del rituale, il quale reca con sé il concetto di luogo, prima di ogni cosa, e poi di regole e ordine, di confini entro cui evocare la propria capacità di creare.
Esempi intriganti, che costruiscono il rituale che porta alla nascita della letteratura, vengono esaminati nel libro, in generale tre che valgono più o meno per tutti i grandi della scrittura: trovare il luogo che ponga al riparo da distrazioni, sapersi accontentare di quello che si ha, in termini di spazio e risorse, e infine sfruttare la mattina come momento creativo.
Il rito, come minuziosamente sviscerato dal libro, si arricchisce dell’usanza personale. Raccogliere articoli delle cose che colpiscono l’immaginazione e tenerli a portata di mano, come usava fare Goethe, come anche farlo con libri significativi, la Bibbia o un dizionario (come usava Maya Angelou), ma anche tenere vicine le pagine ricopiate dagli scrittori per assorbirne lo stile, come usava invece fare Jack London. Ma c’è di più: la preghiera e il muovere le mani (come Isabel Allende che usa intessere gioielli per riprendere ispirazione). Alla base di tutto, c’è il legame con lo spazio di scrittura: le case esercitano un’influenza sulla personalità di chi le abita, diceva Virginia Woolf. Così fanno gli studi e i luoghi in cui gli scrittori scrivevano (non a caso divenuti, molti, case-museo).
Alla base del rito è soprattutto la concezione della scrittura come lavoro, che suona oggi più come una provocazione, in un tempo della società che non gli assegna un valore uniformemente e costantemente consolidato. Costruire il proprio luogo dell’ispirazione presuppone la validità morale, nonché sociale, del passare la propria giornata lavorativa a scrivere. Una cosa non più del tutto scontata.
Il rituale reca in sé quindi l’etica del lavoro inteso anche come artigianato, cosa che richiede un laboratorio: qualcosa che svolga, ma che anche custodisca. Nei suoi famosi saggi sulla scrittura [i], Virginia Woolf auspicava che lo scrittore fosse più simile a un oscuro artigiano nell’ombra del laboratorio e non un “pavone e scimmia” sbattuto in vetrina, sotto l’occhio irrispettoso dei recensori e del pubblico.
L’esistenza di uno studio per scrivere si accoppia alla natura stessa della scrittura: diventa un’ode al mondo interiore e al mondo interno, al buon andamento delle cose domestiche[ii]. La scrittura necessita di essere custodita, in un rifugio dalle convenzioni sociali, per poter nascere (“La casa era per lei un elemento essenziale, perché le era garantita la libertà delle convenzioni sociali, “una necessità ineludibile se volevo continuare a scrivere””, ciò che valeva per Edith Warthon ii).
Esaminando le famose case e studi dei grandi della letteratura, Alex Johnson suggerisce che il rituale e la routine detengono in sé la sensazione che il cuore umano non muti [iii], una consolazione che la Woolf affidava ai grandi scrittori del passato e che invece, secondo la sua percezione, gli autori contemporanei non sono in grado di offrire.
Una concezione che detiene in sé l’idea della ripetizione, la tranquillità che tutto torna, perfino una cosa gigante e apparentemente ingestibile come l’ispirazione: la ripetizione come rito fonda alla fin fine la vita stessa degli uomini, e così la vita domestica e la vita delle case. Checov, ci dice Johnson, non scindeva il lavoro di scrittura dalla cura del suo giardino, su cui si affacciava scrivendo e Agatha Christie usava iniziare i suoi libri solo a gennaio, così come Hemingway scriveva tutti i giorni della settimana, tranne la domenica, per una questione di scaramanzia, concetto, questo, non lontano dal rovescio del rituale.
L’ispirazione, tutto sommato, ne deriva come bisognosa di un letto scavato, che la guidi a chi, per natura o vocazione, è portato a cercarla. Se Umberto Eco usava passare la maggior parte del suo tempo nel suo studio per accoglierla, Ian Fleming aveva bisogno di rifugiarsi il più lontano possibile da dove si vive abitualmente, nel magnifico vuoto di una vacanza giamaicana. Anche Samuel Johnson necessitava della giusta distanza da possibili avventori (che parlano sempre di birra, di biancheria, o di cappotti).
Solo questo assicura la ricerca di anonimato, ambienti monotoni e mancanza di amici e distrazioni che creano il (magnifico) vuoto necessario.[iv]
Si arriva al nocciolo della riflessione che deriva dal cercare il metodo dei grandi. Se serve questo vuoto, significa che la scrittura va vuotata come avendola raccolta dagli intervalli della vita? La scrittura è allora, come dicevamo, un lavoro di intelletto, come un suo sfogo, un lavoro d’astrazione, oppure è un lavoro delle mani, che costruisce dal vuoto, inventa da tutto ciò che non è e non esiste ancora?
Rudyard Kipling applicava un metodo rigoroso basato sulla formula: distrarsi, attendere, obbedire: lasciar lavorare il demone. [v]
Nel mezzo della routine, e del rituale, alcuni scrittori s’accompagnano al domestico, alla giornata di lavoro e all’artigianato per costruire minuziosamente. Esistono, però, scrittori che hanno perseguito la completa assenza di routine (ad esempio Honoré de Balzac) e, ancora, hanno usato il metodo solo per pratica, per una tempistica di battitura a macchina, per esempio, o per sessioni scandite sapendo però già tutto della scrittura, come se essa fosse e basta, e agli scrittori spetti solo di prenderla, a prescindere da qualsivoglia metodo. È questa una riflessione cruciale, per chi cera di capire cos’è e da dove deriva l’arte, e che, volendo, s’insinua nel modo in cui oggigiorno è intesa la scrittura, nella sua versione commerciale e perfino educativa, con l’idea che possa venire insegnata nelle scuole e nei corsi dedicati.
Margaret Mithcell, famosissima autrice del suo unico romanzo, Via col Vento, disse: “Avevo tutti i dettagli in mente ancor prima di sedermi alla macchina da scrivere”.[vi]
In una celebre intervista, Marguerite Yourcenar[vii] affronta bene questo nodo cruciale, e cioè della scrittura intesa sia come artigianato che come creatività esistente a prescindere dal nostro cervello e dalle nostre mani.
La scrittrice belga riteneva la scrittura “un lavoro, ma è anche quasi un gioco, e una gioia, perché l’essenziale non è la scrittura, è la visione. Ho sempre scritto i miei libri col pensiero, prima di trascriverli sulla carta, e a volte li ho perfino dimenticati per dieci anni prima di dar loro una forma scritta.”
Famosa viaggiatrice, la Yourcenar scriveva per hotel e case sparse per il mondo, anche in stanze un po’ fuori dal comune, cosa che la accomuna a tanti dei grandi che Johnson ha studiato. Tra tutti, Victor Hugo e il suo estroso studio di cristallo a Guernsey, E.B.White e il suo capanno nel Maine, a sua volta ispirato da Thoreau, e il rifugio per scrivere sul fiume di Dylan Thomas. Forse, dipende da una sorta di abbandono delle abitudini, di rottura della routine. Detto questo, bisogna dire che anche le abitudini servono alla creazione letteraria, perché nelle abitudini c’è un che di rituale. Alzarsi la mattina, scendere ad accendere il fuoco in cucina, dar da mangiare agli uccelli, guardare il sole dalla terrazza, sono altrettanti riti che finiscono col diventare assolutamente impersonali. vii
La Yourcenar, quando si metteva alla scrivania, sapeva già esattamente quello che doveva fare, perché scritto nel pensiero. E ci dà una definizione della scrittura come artigianato assolutamente squisita: “A volte prendo un blocco e butto giù il mio testo con una scrittura che sfortunatamente diventa illeggibile in capo a quattro o cinque giorni, che in qualche modo appassisce come i fiori. Ma succede anche che vada dritta alla macchina da scrivere e batta una prima versione. In ambedue i casi, per ogni frase, vado di slancio; successivamente, cancello, scelgo la frase che preferisco. Lavoro anche con forbici e colla, ma non sempre. E se le piacciono le piccole manie tipiche dello scrittore, gliene posso citare una: alla terza o quarta revisione, armata di matita, rileggo il mio testo, già quasi a posto, e tolgo tutto quello che può essere tolto, tutto ciò che mi pare inutile. E qui, esulto. Scrivo a piè di pagina: abolite sette parole, abolite dieci parole…Sono felicissima: ho soppresso l’inutile”.vii
Se la scrittura si avvale dei metodi dei grandi, pur esistendo nella creazione e basta, c’è un ultimo punto da esaminare, che ci traghetta nel mondo moderno e contemporaneo: il legame dello scrittore con la macchina, e cioè l’estensione delle sue mani, e col computer. Di per sé, è il legame con le mani, il fatto che la scrittura nasca davvero solo quando impressa dai polpastrelli, a rendere la letteratura un lavoro da garzoni di bottega. Il legame con la macchina apre anche a un punto straordinario: il lavoro fisico, inteso come impegno, che la scrittura richiede.
Da Kipling, che famosamente odiava la macchina da scrivere (“Quell’oggetto bestiale non scrive affatto”)[viii], a W.H. Auden, che odiava le righe dattiloscritte (da lui definite “impersonali e orribili a vedersi”) viii fino a Margaret Atwood (che scrive sempre prima a mano) e Stephen King, che sacrifica ancora il computer poiché la scrittura a mano “lascia più tempo per pensare e consente di arrivare a una migliore prima stesura” viii, il legame degli scrittori con la propria calligrafia sembra l’origine di ogni lavoro corporeo necessario alla creazione.
Fin dall’invenzione della macchina da scrivere è nato il quesito del ruolo della macchina nella nascita della poesia, per così dire, per un autore. Franco Buffoni, intervistato al riguardo qualche anno fa[ix], ritiene opera di bulino ciò che si fa al pc, poiché la poesia è quella cosa che ti viene a trovare in coda al supermercato, rendendo superfluo l’esistenza della macchina o per lo meno ritenendola solo uno strumento di rifinitura. Riconosce però alla tecnologia, e alla sua estrinsecazione più significativa degli ultimi decenni, la nascita dei social media, la capacità di cambiare la poesia, di trasformare le idee tramite le reazioni istantanee del pubblico, punto, questo, che apre a una riflessione altra ancora, ovvero sia il legame della scrittura con la reazione del pubblico, con la figura del “recensore”. Punto già ampiamente osservato dalla Woolf nel 1930, che riteneva la recensione, intesa come critica capace di influenza da parte del lettore, qualcosa che accresce l’ossessione di sé e diminuisce la forza della letteratura, augurando sempre il carattere privato di una critica rivolta a uno scrittorei.
Buffoni parla anche della memoria storica della fatica fisica e del lavoro muscolare che scrivere a macchina comportava, che, nell’immaginario del rituale esaminato finora, si pone a sugello della scrittura intesa come sforzo fisico. Qualcosa che richiede un tirocinio, i doloretti corporali tipici di chi impara il mestiere, i crampi muscolari, lo sforzo giornaliero di creare, qualcosa che non permette di considerare la letteratura un’arte esistente solo nell’intelletto. La postura del corpo serve l’imprescindibilità dell’idea poetica, una cosa tanto vera che alcuni scrittori usavano scrivere solo in determinate pose, per esempio in piedi, come Hemingway, o sdraiati a letto: massimo esponente di ciò essendo Truman Capote, che si riteneva egli stesso un autore completamente orizzontale. [x]
Ciò che ci dice la scrittura dei grandi, dunque, è che l’arte non passa solo per il (magnifico) vuoto necessario, che lo scrittore non è solo tramite, la scrittura è a tutti gli effetti un artigianato, è un metodo, un lavoro, che richiede la sua giornata lavorativa, il suo sforzo fisico, il suo sostentamento, e solo passando attraverso un corpo, un uomo che ha vissuto, essa trova la sua nascita e la sua persistenza nel mondo. La scrittura è forse l’ultima religione umana e l’ultimo mito insieme: lì dove il rituale fa parte di una costruzione e di un’evocazione che ha a che fare con dimensioni altrimenti irraggiungibili.
E il pregio di un libro come quello di Johnson è dare conto di idee di vita, che i grandi scrittori incarnavano, fisicamente essendo presenti ai loro tempi e ai loro giorni, mai distanti dalla loro scrittura: Sylvia Plath, D.H.Lawrence, Vita Sackville-West essendo esempi originali di questi, e Victor Hugo, a proposito di cui suo figlio Georges ci lascia un’immagine esemplificativa:
“Senza cappotto, a capo scoperto, sempre calmo e sereno, mio padre continuava a scrivere”.[xi]
Chantal Salvinelli
[i] Leggere, scrivere e recensire, a cura di Franco Venturi, La vita felice edizioni, pg 169
[ii] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 170
[iii] Leggere, scrivere e recensire, a cura di Franco Venturi, La vita felice edizioni, pg 117
[iv] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 72
[v] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 96
[vi] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 110
[vii] Ad occhi aperti, Matthieu Galey, Bompiani editore
[viii] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 16, 21, 70, 90, 96
[ix] Intervista a Franco Buffoni (https://www.artapartofculture.net/2018/03/13/essere-scrittori-e-poeti-col-computer/) di Chiara Palumbo
[x] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 20
[xi] Una stanza tutta per sé, Alex Johnson, pg 80