1. Alessandro Leogrande: ritratto di un giovane meridionale
Ogni esperienza necessita, una volta portata a termine, di solitudine ed elaborazione, come un seme che, piantato, ha bisogno di tempo per crescere e germogliare, avvolto dall’umidità della terra e abbeverato da gocce d’acqua costanti.
È impensabile credere di giungere a un risultato concreto e duraturo in poco tempo e a prezzo di un’esigua fatica: la vita dei nostri padri, dei contadini del Sud, dovrebbe meglio di ogni altro esempio farci capire quanto siano importanti l’attesa e il silenzioso mulinare del tempo, affinché un seme, un minuscolo seme, riesca a mutarsi in stelo e, poi, in pianta, tronco, frutto.
Questa è la lezione forse più importante lasciataci dall’esperienza – esistenziale e culturale – di Alessandro Leogrande (Taranto, 1977 – Roma, 2017), “contadino” di idee e prospettive del XXI secolo che con la sua attività ha voluto – tra tanti, unico – piantare il piccolo seme della ricerca della verità in attesa di un frutto ben maturo.
Certo, come la vita agreste ci insegna, affinché il frutto nasca dalla terra, occorrono tempo e attesa, da un lato, e, dall’altro, buoni uomini pronti a raccoglierlo con fatica e rispetto.
Queste sono le due parole-chiave dell’intera struttura intellettuale edificata da Leogrande: la fatica della ricerca, dello studio, del lavoro quale missione comunitaria, e il rispetto per quella stessa fatica, con tutte le implicazioni che vengono a determinarsi. E, cosa forse più importante, fatica e rispetto sono richiesti non solo a chi raccoglie e rielabora le notizie, ma soprattutto a chi, poi, quelle notizie dovrà leggerle, farle proprie, introiettarle in un processo di sedimentazione e immedesimazione.
In Leogrande, nulla è sciolto dal resto. Tutto è onnicomprensivo di quanto lo circonda e lo determina: lo studio, dunque, l’attività di ricerca quale paradigma irrevocabile di ogni uomo che voglia capire un po’ più di se stesso e della storia, delle storie che hanno contribuito a formare il presente, direttamente o indirettamente; lo studio, dunque, inteso come momento di significazione che va ben al di là della mera accumulazione di conoscenze e che è soprattutto rivelazione dei diversi substrati storico-culturali (e, quindi, politici) di ciascun individuo e analisi delle dinamiche storico-dialettiche di intere contrade, paesi e regioni.
Questo procedimento, che possiamo definire ontologico nella sua volontà di ricerca di senso e teleologico nelle sue infinite forme di ricerca di significato, si applica ancora più felicemente per la storia del nostro Meridione e, di riflesso, per la storia di noi meridionali.
Probabilmente è vero l’assioma secondo il quale ciò che connatura la nostra infanzia connaturerà tutto l’arco della nostra esistenza: Leogrande è stato un profondo meridionalista, concreto più che teorico, perché era profondamente meridionale; il suo meridionalismo si dipana, parola dopo parola, in ogni segmento della sua opera, in ogni associazione, volontaria e involontaria, dei suoi ricordi e del suo pensiero, in ogni sentore profondo delle necessità urgenti del Mezzogiorno italiano e delle sue atroci contraddizioni – nonché dei nuovi punti di contatto con l’Europa e un mondo sempre più globale.
L’applicazione sistematica, nella sua opera, di una filosofia della terra – vale a dire, di una filosofia del lavoro che non conosce tariffe e orari, che si lascia condurre dall’onore del sacrificio (come i braccianti uccisi a Marzagaglia il primo luglio del 1920), che si applica in se stessa e su se stessa continuamente, creandosi senza mai porsi dei limiti di azione – è, probabilmente, il suo più grande lascito in qualità di meridionalista: ingaggiare un duello con la storia, passata e presente, sul terreno della storia stessa, attraverso le armi del rispetto e della fatica (ecco che ritornano ancora questi due connotati di identità), non è cosa da poco e, soprattutto, non è cosa facile a farsi in un tempo in cui la storia deve necessariamente auto-fagocitarsi per rimanere al passo con i tempi.
Questo è il grande paradosso della nostra epoca, e questa è la grande battaglia intrapresa da Leogrande: combattere nelle trincee lungo la frontiera, tra il fango e il desiderio di oblio; affannarsi nella ricerca di un senso, collettivo e individuale, tra le macerie di un Sud che non è più solo geografico, ma che rappresenta l’atroce stato esistenziale di uomini, donne, ragazzi e culture incapaci di ottenere il loro giusto e dignitoso posto nel mondo – momenti indistinti nell’opera di Leogrande, in cui autore e lettore coincidono, passato e presente coincidono, vita e morte coincidono; due facce coesistenti che si scrutano con gli occhi attenti di chi sa che, per vedere, è necessario andare oltre la superficie delle cose, così come, per comprendere la vita dell’albero, è necessario squarciare col pensiero la terra e la storia che ad essa si accompagna: viene, così, scoprendosi un mondo inedito, proposto da una prospettiva differente che si apre alle nascoste atrocità quotidiane con sguardo fermo e, a tratti, vitreo, sempre però proteso verso un futuro che possa dirsi realmente autentico.
2. Un’epica del contemporaneo
Fa specie notare come, nel pensare all’opera di Alessandro Leogrande (dagli articoli, infiniti, su Taranto, su Matera, sulla storia culturale e politica del Sud alle inchieste di più ampio respiro sul caporalato e sull’immigrazione, odierna e passata), quasi il suo autore scompaia dietro di essa, scivolando tra le pieghe – e le piaghe – delle realtà via via prese in esame.
Questo scivolamento silenzioso dello scrittore è proprio di quei lavori non solo ben riusciti, ma soprattutto utili: come in tutti i “classici”, l’autore deve saper riconoscere il proprio ruolo e il proprio posto all’interno dell’opera e, allo stesso modo, deve divenire invisibile quando bisogna essere invisibili: invisibile si fa Omero quando lo strato socio-antropologico della civiltà greca, da sotteso, deve rendersi manifesto; invisibile si fa Virgilio quando a predominare deve essere la ragion dello Stato augusteo; invisibile si fa Dante quando la verità provvidenziale del Divino deve manifestare la sua puntualità.
Senza scomodare paragoni troppo illustri, non è tuttavia un caso che le comparazioni possano attestarsi anche nel campo letterario e poetico e non soltanto in quello della letteratura ibrida di inchiesta sociale che vede, proprio in Leogrande, uno dei suoi massimi esponenti.
È lo stesso autore che, in più interviste e in diversi passaggi dei suoi scritti, sottolinea la commistione tra vita e letteratura, tra arte e realtà, quale cifra caratterizzante il suo lavoro; e, proprio nell’ambito letterario, si può dire che egli sia riuscito a riorganizzare una vera e propria epica del contemporaneo, ancora più importante perché inerente a quella porzione di storia nascosta alla maggioranza o, nel migliore dei casi, manipolata a fini politici ed economici:
Il ricordo di quanto accaduto il pomeriggio del Venerdì Santo del 1997, mentre sull’altro lato del Canale d’Otranto infuriava la guerra civile, non può prescindere dalle parole. Dalle parole pronunciate in italiano, da quelle pronunciate in albanese. Dai racconti elaborati al di qua e al di là del Canale.
Soprattutto non può fare a meno del racconto dei superstiti, del racconto degli anziani genitori e dei parenti incanutiti delle vittime, del racconto dei figli e dei figli dei figli, i quali – proprio come i vecchi dei villaggi polverosi a nord di Valona un tempo narravano le gesta di Pirro e dei suoi elefanti, e di quell’incredibile viaggio sospinto da correnti miracolose – tramanderanno con la stessa intonazione e lo stesso fuoco negli occhi epopee e tragedie più recenti[1].
L’epica del contemporaneo è un punto fondamentale per comprendere e approfondire Leogrande scrittore: nella raccolta dei dati, delle fonti, delle testimonianze dirette e indirette e, successivamente, nella rielaborazione complessiva di tutti i materiali, traspare sempre una viva attenzione alla voce da usare, sia nelle sue tonalità vocali, sia nei motivi ultimi per cui bisogna dire una cosa anziché un’altra.
In altre parole, un’attenzione dedicata sia al come, sia al cosa bisogna dire che contribuisce alla creazione di una voce che, partendo da dati reali, si rinnova per immaginare un nuovo mondo al quale approdare.
In questo, tutta l’opera di Leogrande risulta essere una grande epica, una voce che si è formata, partendo da un mondo che esiste, per denunciare quel mondo e mutarlo in qualcos’altro; e, come in ogni grande poema epico, questo tentativo di creazione riesce solo nella misura in cui l’autore riesce a sfumare se stesso all’interno della struttura di un’opera che, pur partendo da considerazioni ed esperienze tutte personali (Leogrande sovente fa riferimento alla sua esperienza diretta), riesce a universalizzarsi e a rendersi memoria collettiva: come Dante, Virgilio e Omero riuscire, nella circoscrizione letteraria della propria opera, a farsi invisibile lì dove la propria presenza sarebbe stata di troppo (basti leggere, per comprendere questo concetto, le ultime pagine di Uomini e caporali dedicate alla processione dei morti che compare e scompare in un assordante silenzio; o la storia di Xhiko Mucaj, una madre albanese a cui non è stato riconosciuto alcun risarcimento da parte dello Stato italiano a seguito del naufragio della Katër i Radës):
Sono solo. E allora mi pare di vederli arrivare lungo i tratturi. Li vedo imboccare la carrareccia senza che facciano il minimo rumore, senza che spostino nessuna delle pietruzze bianche che la compongono. Camminano a schiere, guardano avanti, senza voltarsi a destra o a manca.
Li vedo arrivare, sono i morti. I caduti di tutte le guerre dei campi.
I morti per la fatica e per le sofferenze patite. I morti di tutte le lotte, utili e inutili, di questa terra. I morti ammazzati per essersi ribellati. I morti ammazzati ancora prima di essersi ribellati. I morti che nessun libro di storia, nessun articolo di cronaca ha mai menzionato. Coloro che nessuno ricorda[2].
Da un affresco così oscuro, da una pigmentazione umbratile a prima vista senza speranza, diseredata, condannata dai tempi e da ciascuno di noi all’inesistenza, Leogrande trae un canto, disperato, dalle forti componenti storiche, radicato nella società del suo tempo e nelle dinamiche socio-politiche, nonché culturali, proprie della nostra epoca, nonostante tutto e a discapito di tutto; un canto capace di esprimere le contraddizioni di un intero popolo, quello degli ultimi, condannato da una Storia che viene fatta sempre da altri e altrove, in luoghi che non sono i nostri, sempre al di là di una frontiera che separa l’inferno dal paradiso, la salvezza dalla dannazione, la fame dall’abbondanza.
Un’epica del contemporaneo, quindi, che non si lascia nulla alle spalle; che tiene, da ambo i lati, il filo che collega passato e presente, gli uomini di ieri agli uomini di oggi, consapevole che “la frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai[3]“.
[1] A. Leogrande, Il naufragio, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 211.
[2] Id., Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 250.
[3] Id. La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 314.
Filippo Casanova