F. Guercio, Distopia pop
Polidoro Editore, 2022

“Tu non puoi avere studiato una cosa come quella che hai appena detto per la semplice ragione che la cosa che hai appena detto non ha alcun senso. Hai messo insieme parole a casaccio, brandelli di frasi raccapezzate da qualche libro di sociologia terrestre e assemblate in un ordine incidentale”, dice Ugo, un alieno in servizio nella Base Fato, al suo collega Orfeo. I due hanno il compito di valutare le ragioni di un’eventuale salvezza futura dell’umanità e la loro squadra in particolare è incaricata di cercare indizi di un pensiero raffinato nelle canzonette mainstream. È questa la Distopia Pop immaginata da Francesca Guercio.
Ma questo romanzo non parla di alieni, o almeno solo in minima parte: segue in realtà la vita di Clotilde, protagonista e narratrice in prima persona, una ricercatrice e storica dell’arte che sembra giudicare il mondo intorno a lei, dalle sue amiche alla famiglia incontrata al parco, con lo stesso approccio pseudofilosofico, freddo e in fin dei conti incompetente degli alieni finti sociologi della base spaziale.
La percezione falsante e superficiale di Clotilde è messa in risalto dal lessico e dallo stile della prosa che Guercio le fa usare nel romanzo. Clotilde, infatti, non è tipo da lasciarsi distrarre da piccolezze come la realtà che la circonda, non si perde in descrizioni di luoghi o di sentimenti generati dalla sincera interazione con gli altri. E come potrebbe essere altrimenti se in fin dei conti questa donna vive solo nella propria testa, nell’universo, costruito con regole ferree, che crede di conoscere e che giudica con violenta ironia? Le sue stesse amicizie e i suoi affetti – tutti gli altri personaggi, quindi – sono presentati al lettore attraverso la chiave interpretativa, il filtro di Clotilde, che li fa parlare come vorrebbe che parlassero – con le proprie parole – per meglio poterli catalogare, travisando però costantemente quello che hanno da dire.
E così la nostra intellettuale non si accorge delle direzioni che stanno prendendo le vite delle persone a cui vuole bene, vive in uno stato di perenne sgomento dovuto alle inaspettate e obbligate prese di coscienza sulle relazioni che intorno a lei nascono, sui tradimenti che si consumano e sulle scelte di vita che i suoi confidenti intraprendono. Mentre la vita intorno a lei va avanti, Clotilde rimane paralizzata per la propria mancanza di coraggio e di cuore. È lei il vero alieno, molto più dei misteriosi scienziati della base spaziale.
Questi sarebbero in teoria addestrati ad analizzare gli esseri umani secondo criteri rigorosi, ma finiscono per affezionarsi o disprezzare la Terra in base alla propria predisposizione personale e al proprio umore momentaneo e nel frattempo lasciano che le canzoni pop gli entrino in testa, si preoccupano delle proprie situazioni sentimentali, della palestra venusiana, delle piccole cose quotidiane proprio come i soggetti che giudicano con durezza. Nella contrapposizione e nell’attrito di queste due prospettive, umana e aliena, pratica e teorica, il lettore intravede la ragion d’essere di un testo e di una trama che appare non immediatamente interpretabile e finisce per lasciarsi trasportare nella vita di tutti i giorni dei personaggi, imparando forse a tollerare le piccolezze e i difetti anche di chi ha intorno.
Cecilia Cerasaro