Joshua Cohen, I Netanyahu
Codice Edizioni, 2022

I Netanyahu, come sottoscritto nel titolo stesso, cerca di descrivere “un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre”. Protagonista del racconto è un professore di storia del Corbin College, Ruben Blum, ebreo americano e americanista accanito che non c’entra nulla (e fa di tutto per non entrarci) con la famiglia Netanyahu. La vita di Blum sembra scorrere su dei binari “made in USA” preformati. Senza l’aspirazione da primo della classe conduce una vita dignitosa ma ancora in cerca di quella tacita integrazione della casta anglosassone, formata dai suoi colleghi e della società lavoratrice e nevrotica del dopo-seconda-guerra-mondiale, in cui essere americani significa ancora aver paura di non esserlo appieno. Quando Blum viene incaricato di seguire un nuovo candidato per un posto da professore nel reparto di storia dell’università – un certo Ben-Sion Netanyahu, ebreo polacco, vissuto in Israele e con idee radicali derivanti dal Sionismo revisionista – Blum cade in una spirale di conflitto creata dalla sua radice soppressa e il suo nuovo status ostentato.
L’America è ancora un paese che ti guarda storto se non possiedi le carte in regola – ben più giudicante se la tua radice è profonda e “scomoda” come quella ebraica – che ti osserva con gli occhi di chi l’America l’ha fatta, uno sguardo che Cohen è molto bravo a rendere come una sensazione onnipresente e spossante. Netanyahu con la sua verve radicale e ribelle riesce a imbarazzare profondamente un timido Blum davanti ai propri colleghi di quel sangue anglosassone puro e virtualmente casto, i quali a sua volta riescono a imbarazzarlo creando una sorta di tribunale inquisitore nel giudicare lo straniero – oltre all’averlo fatto seguire da Blum stesso, solo perché di radici comuni.
La lingua ebrea si infiltra nel racconto come il rancore provato dallo stesso Netanyahu e dalla sua famiglia – la moglie Tzila e i bambini Jonhatan, Benjamin (che sarà il futuro ministro israeliano) e il piccolo Iddo – verso un mondo ingiusto, superbo e perseguitante, una dicotomia del mondo di Blum. Da un lato sta dalla parte dei Netanyahu riuscendo a comprendere alcune parole, dall’altra ne è respinto, non avendo una padronanza della lingua stessa tale da fargliela comprendere a fondo. Con il suo arrivo Netanyahu mette Blum davanti alla critica del significato di approvazione facendolo sentire come il più respingente nei confronti del “diverso” ma anche il più straniero di fronte alle mosse dei valutatori di Netanyahu.
Blum non è altro che l’alter-ego di Harold Bloom, critico letterario statunitense, ebreo e amico di Cohen, che ha voluto condividere con lui le sue memorie. Cohen ne pesca una, e ne scrive un romanzo che rimane sospeso e parzialmente avvilito, nella ricerca costante di sorprendere ma che non ci riesce mai fino in fondo. Almeno fino all’arrivo del vero protagonista: Ben-Sion Netanyahu. Un’opera ambiziosa e storicamente accattivante che però rimane incompiuta e a tratti quasi noiosa: la parte più interessante è la spiegazione dettagliata del futuro della famiglia Netanyahu che viene messa alla fine del romanzo.
Blum rimane un protagonista poco accattivante, con cui si fa fatica a stringere empatia. L’effetto avvilente delle sue battute (che ripetono in forma di domanda le affermazioni che la gente intorno a lui formula) non arriva, ma rende il personaggio solo una coscienza stereotipata e retorica della società americana perbenista della seconda metà del diciannovesimo secolo. La forza schiacciante dei Netanyahu, dei colleghi, della moglie Edith, della figlia Judy de-personificano Blum ma lo rendono anche un personaggio “banderuola” e quindi, a tutti gli effetti, poco seducente. Ben-Sion Netanyahu appare solo a metà del libro – lasciando al lettore la voglia di saltare tante, troppe pagine – rimanendo, invece, il protagonista indiscusso, certo e fiero delle sue idee politiche che si riversano controcorrente fino a corrompere le sue stesse ricerche storiche medievli (la storia dovrebbe essere fonte di ideali e non viceversa) e piacevolmente irritante fino a diventare conturbante durante i suoi deliri politici.
Purtroppo la storia non riesce a spiccare il volo e, a un interesse storico e sociale che potrebbe stuzzicare l’intelletto, non contrappone delle vicende accattivanti, vive e drammaturgiche tali da tenere il lettore incollato alle pagine. “In fin dei conti trascurabile” è la sfida di Cohen, forse non perfettamente riuscita, di farti appassionare a un “episodio minore”. Vincitore del premio Pulitzer 2022, “I Netanyahu” è un libro che, ricordiamolo, è stato rifiutato dalle più grandi case editrici americane e bollato come derivativo, idea non del tutto fuorviante quando il romanzo viene accostato in maniera troppo esplicita a quella pastorale americana di “rothiana” memoria.
Cohen ci pone davanti al problema storico del Sionismo cercando di creare una commedia dissacrante che rimane involuta e che raggiunge il suo apice solo nelle pagine del prologo, in cui i fatti – realmente accaduti – creano più suspence che quelli inventati e sbiaditi di un’idea statunitense ormai già vista.
Federico Piacentini